American Gods

American Gods

Neil Gaiman

13
Ehi, vecchio amico.
Come dici, vecchio amico?
Tutto a posto, vecchio amico.
Dai fiato a una vecchia amicizia.
Perché così cupo?
Andiamo avanti per sempre.
Tu, io, lui
Ci sono troppe vite in gioco…
STEPHEN SONDHEIM,
Old Friends

Sabato mattina. Shadow andò ad aprire la porta.
Era Marguerite Olsen. Non entrò, rimase sulla soglia, al sole, con un’aria seria. «Signor Ainsel…»
«Mike, per favore.»
«D’accordo, Mike. Ti piacerebbe venire a cena da noi, questa sera? Intorno alle sei? Non cucino niente di straordinario, spaghetti e polpette.»
«Mi piacciono gli spaghetti con le polpette.»
«Se non hai altri impegni, ovviamente…»
«Non ne ho.»
«Alle sei.»
«Porto dei fiori?»

«Come vuoi. È un invito tra vicini. Non una cena romantica.»

Shadow si infilò sotto la doccia. Andò a fare quattro passi fino al ponte. Il sole era alto, una monetina opaca nel cielo, e quando rientrò era sudato, sotto la giacca pesante. Poi prese la 4-Runner per andare da Dave’s Finest Food a comperare una bottiglia di vino. Ne scelse una che costava venti dollari, sperando che il prezzo fosse garanzia di qualità. Siccome non sapeva niente di vini, decise per un cabernet californiano perché una volta, quand’era giovane e la gente usava ancora coprire le automobili di adesivi, ne aveva visto uno con la scritta LA VITA È UN CABERNET che l’aveva fatto molto ridere.

Acquistò anche una pianta. Solo foglie, senza fiori. Non aveva niente di romantico, nemmeno vagamente.
Comperò un litro di latte che non avrebbe mai bevuto e un po’ di frutta che non avrebbe mai mangiato.
Infine passò da Mabel’s a prendere la sua pasty di pranzo. Mabel si illuminò, quando lo vide. «Ti ha trovato, Hinzelmann?»
«Non sapevo che mi stesse cercando.»

«Invece sì. Vuole portarti a pescare nel ghiaccio. E Chad Mulligan mi ha chiesto se ti avevo visto. È arrivata sua cugina da fuori. E una seconda cugina, tanto carina, ti piacerà» disse mentre infilava la pasty nel sacchetto di carta marrone chiudendolo bene perché non si disperdesse il calore.

Shadow fece tutta la strada fino a casa mangiando e guidando con una mano sola, con le briciole che gli cadevano sui pantaloni e sul pavimento della macchina. Superò la biblioteca sul lato meridionale del lago. La città, coperta di ghiaccio e neve, era tutta in bianco e nero. L’arrivo della primavera sembrava lontano al di là di ogni immaginazione e la bagnarola aveva l’aria di potersene restare parcheggiata per sempre sul ghiaccio, circondata dalle baracche dei pescatori, dai pickup e dalle tracce dei gatti delle nevi.

Raggiunto l’edificio dove abitava, parcheggiò, percorse il vialetto e i gradini di legno e fu davanti alla sua porta. I cardellini e i picchiotti appollaiati sul beccatoio non lo degnarono di un’occhiata. Entrò in casa. Bagnò la pianta e si domandò se mettere il vino in frigorifero.
Mancava ancora un sacco di tempo alle sei.
Shadow si rammaricò di non poter più guardare la televisione. Voleva essere intrattenuto senza pensare, voleva stare seduto e lasciarsi invadere da suoni e luci.

Ehi, ti va di vedere le tette di Lucy?
sussurrò nel ricordo una voce simile a quella dell’attrice; scosse la testa per dire di no, anche se non c’era nessuno a vederlo.
Si rese conto di essere nervoso. Quell’invito era la prima vera occasione sociale — con persone normali, non carcerati o dèi o eroi prodotti da chissà quale cultura o quale sogno — dal giorno del suo arresto, più di tre anni prima. Avrebbe dovuto fare conversazione nei panni di Mike Ainsel.

Guardò l’ora. Le due e mezzo. Marguerite Olsen gli aveva detto di presentarsi alle sei. Intendeva proprio le sei in punto? Oppure qualche minuto prima? O dopo? Alla fine decise che avrebbe suonato alla porta alle sei e cinque.
Squillò il telefono.
«Cosa c’è?» disse.
«Ti pare il modo di rispondere al telefono?» grugnì Wednesday.
«Quando il telefono sarà allacciato risponderò come si deve. Hai bisogno?»

«Non so.» Seguì una pausa, poi Wednesday disse: «Organizzare gli dèi è come mettere in fila un branco di gatti. Non ci sono portato». C’erano nella sua voce una rassegnazione e un senso di sfinimento che Shadow percepiva per la prima volta.
«C’è qualcosa che non va?»
«È dura. Troppo dura. Non so se funzionerà. Forse faremmo prima a tagliarci la gola. A tagliarcela e farla finita.»
«Non devi dire così.»
«Già. Hai ragione.»

«E se anche ti tagliassi la gola» disse Shadow nel tentativo di rallegrarlo, «probabilmente non sentiresti neanche male.»

«Farebbe male eccome. Il dolore è dolore anche per quelli come me. Se ti muovi e agisci nel mondo materiale il mondo materiale agisce su di te. Il dolore ti fa soffrire, esattamente come l’avidità intossica e la lussuria brucia. Magari non moriamo facilmente ed è più che certo che moriamo male, comunque moriamo. Se siamo ancora amati e ricordati qualcosa che ci assomiglia parecchio prende il nostro posto e tutta la stramaledetta storia ricomincia daccapo. Se veniamo dimenticati siamo finiti.»

Shadow non sapeva che cosa dire, perciò chiese: «Da dove telefoni?».
«Fatti i cazzi tuoi.»
«Sei ubriaco?»
«Non ancora. Continuo a pensare a Thor. Tu non l’hai conosciuto, Thor. Un omone grande e grosso come te. Cuore d’oro. Non troppo svelto di cervello ma capace di levarsi la camicia per dartela. E si è ucciso. Si è messo la canna di una pistola in bocca e nel 1932, a Philadelphia, si è fatto saltare le cervella. Che razza di modo di morire sarebbe, per un dio?»
«Mi dispiace.»

«Non te ne fotte niente, figliolo. Ti somigliava un casino. Grande e fesso.» Wednesday smise di parlare e tossì.
«C’è qualcosa che non va?» domandò Shadow per la seconda volta.
«Si sono messi in contatto.»
«Chi?»
«L’opposizione.»
«E allora?»
«Vogliono discutere i termini di una tregua. Fare un trattato di pace. Vivi e lascia vivere.»
«Allora che cosa succede, adesso?»
«Adesso vado a bere uno schifoso caffè con quelle teste di cazzo moderne nella Kansas City Masonic Hall.»

«Va bene. Vieni a prendermi tu o ti raggiungo io da qualche parte?»
«Tu resta dove sei e cerca di non dare nell’occhio. Non metterti nei guai. Mi hai capito?»
«Ma…»
Seguì un
clic,
e il collegamento si interruppe. Non c’era la linea, ma, del resto, non c’era mai stata.
Restava solo da far passare il tempo. Siccome la telefonata gli aveva lasciato un senso di inquietudine, Shadow si alzò con l’idea di andare a fare una passeggiata, ma la luce stava già morendo, quindi tornò a sedersi.
Prese il

Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884
e cominciò a sfogliarlo sforzandosi di decifrare il minuscolo carattere di stampa, senza leggere davvero, fermandosi solo qui e là quando qualcosa attirava la sua attenzione.

Apprese che nel luglio del 1874 il consiglio comunale era preoccupato per il numero di taglialegna itineranti che stavano arrivando in città. All’angolo tra la Terza Strada e Broadway doveva sorgere un teatro d’opera. Si prevedeva che le proteste scatenate dal progetto di costruzione della diga sul Mill Creek sarebbero cessate, una volta trasformato il bacino in lago. L’amministrazione autorizzò il pagamento di settanta dollari al signor Samuel Samuels, e di ottantacinque dollari al signor Heikki Salminen, per la cessione della terra e le spese di trasferimento dei loro domicili lontano dalla zona da inondare.

A Shadow non era mai venuto in mente che il lago fosse artificiale. Perché chiamare una città Lakeside se tutto era cominciato con una fetente gora? Continuando a leggere scoprì che responsabile del progetto di realizzazione del bacino era stato un certo Hinzelmann, originario di Hùdemuhlen, in Baviera, e che l’amministrazione comunale gli aveva concesso fondi per trecentosettanta dollari, con l’accordo che in caso di superamento del tetto massimo si sarebbe ricorsi a una sottoscrizione pubblica. Shadow strappò un pezzetto di carta da un tovagliolo e lo infilò nel libro. Immaginava già la faccia di Hinzelmann quando avrebbe visto il riferimento al nonno. Si chiese se il vecchio fosse al corrente del fatto che la sua famiglia era stata determinante per la creazione del lago. Sfogliò altre pagine in cerca di riferimenti al progetto.

La cerimonia di inaugurazione si era svolta nella primavera del 1876, come apertura dei festeggiamenti per il centenario della fondazione della città. L’amministrazione aveva espresso a Hinzelmann i ringraziamenti della cittadinanza.
Shadow guardò l’ora. Le cinque e mezzo. Andò in bagno, si fece la barba, si pettinò. Si cambiò. In un modo o nell’altro passò anche l’ultimo quarto d’ora. Afferrò la bottiglia e la pianta e si diresse dalla vicina.

La porta si aprì subito. Marguerite Olsen sembrava nervosa quanto lui. Prese la bottiglia di vino e il vaso e ringraziò. Il televisore era acceso, con una videocassetta del
Mago di Oz.

Era ancora nella fase color seppia, quando Dorothy è in Kansas, e siede a occhi chiusi nel carrozzone del professor Marvel mentre il vecchio imbroglione finge di leggere i suoi pensieri, e il vento che di lì a poco l’avrebbe strappata dalle sue abitudini si sta avvicinando. Leon, seduto davanti allo schermo, giocava con un’autocisterna dei pompieri. Vedendo Shadow si illuminò, tutto felice, si alzò e, inciampando per l’eccitazione, corse in camera sua, riemergendo subito dopo trionfante con una moneta da un quarto di dollaro.

«Guarda, Mike Ainsel!» gridò. Congiunse le mani e finse di prendere la moneta nella destra, spalancata. «L’ho fatta scomparire, Mike Ainsel!»
«È vero» ammise Shadow. «Dopo cena, se la mamma è d’accordo, ti faccio vedere come eseguire il trucco in un modo più naturale.»
«Fatelo pure adesso» disse Marguerite, «visto che dobbiamo aspettare Samantha. L’ho mandata a comprare un po’ di panna acida. Non so perché ci metta tanto.»

E come se quella battuta fosse stata il segnale per l’entrata in scena di Samantha, sul portico risuonarono dei passi e la porta venne spalancata con una spallata. Shadow non la riconobbe subito, poi lei disse: «Non sapevo se volevi il tipo con le calorie o quella che sa di colla per tappezzieri perciò ho preso quella con le calorie» e lui la riconobbe: era la ragazza a cui aveva dato un passaggio sulla strada per Cairo.

«Hai fatto bene» disse Marguerite. «Sam, questo è il nostro nuovo vicino, Mike Ainsel. Mike, questa è mia sorella Samantha Black Crow.»
Io non ti conosco,
pensò Shadow con disperazione.
Tu non mi hai mai visto. Siamo due perfetti estranei.
Si sforzò di ricordare come aveva fatto a concentrarsi sulla neve, com’era stato facile: adesso la situazione era disperata. Tese la mano e disse: «Molto piacere».

Lei batté le palpebre, lo guardò meglio. Un attimo di perplessità, poi, riconoscendolo, cominciò a sorridere. «Ciao» disse.
«Devo controllare il forno» esclamò Marguerite con il tono nervoso di chi pensa che brucerebbe tutta la cena, assentandosi anche solo per un momento dalla cucina.
Sam si sfilò il piumino e il berretto. «E così saresti tu il vicino malinconico e misterioso» disse. «Chi l’avrebbe mai detto?» Aveva parlato a bassa voce.

«E tu» disse lui «sei Sam femmina. Possiamo parlarne in privato?»
«Solo se mi prometti che mi spiegherai cosa sta succedendo.»
«Promesso.»
Leon gli tirò una gamba dei pantaloni. «Me lo fai vedere adesso?» domandò, mostrandogli la moneta.
«D’accordo. Però ricorda che un grande mago non rivela a nessuno i suoi segreti.»
«Prometto» rispose Leon tutto serio.

Shadow prese la moneta con la sinistra e l’infilò nella destra del bambino mostrandogli in che modo si creava l’illusione di afferrarla mentre in realtà la si lasciava nell’altra mano. Poi gli fece ripetere il movimento da solo.

Dopo alcuni tentativi Leon riusciva a eseguirlo bene. «Adesso conosci metà del trucco» gli disse Shadow. «L’altra metà consiste nel concentrare e insieme attirare l’attenzione dove dovrebbe essere la moneta. Guarda. Se ti comporti come se fosse nella mano destra, nessuno baderà alla sinistra, anche se sei un po’ imbranato.»
Sam rimase a osservare la scena senza dire una parola.

«In tavola!» gridò Marguerite emergendo dalla cucina con una zuppiera di spaghetti fumanti. «Vai a lavarti le mani, Leon.»
C’era il pane croccante all’aglio, un’ottima salsa di pomodoro, le polpette piccanti. Shadow si complimentò con Marguerite per la cena.
«Una vecchia ricetta di famiglia» gli disse lei, «dalla parte còrsa.»
«Credevo che foste indiane.»

«Papà è cherokee» disse Sam. «Il nonno materno di Mag veniva dalla Corsica.» Sam era l’unica a bere il cabernet. «Papà ha lasciato la mamma di Mag quando lei aveva dieci anni ed è andato a vivere dall’altra parte della città. Sei mesi dopo sono nata io. Quando ha ottenuto il divorzio ha sposato mia madre e quando avevo dieci anni se n’è andato. Credo che un decennio sia il suo massimo di capacità di concentrazione.»
«Be’, sono dieci anni che è in Oklahoma» disse Marguerite.

«Invece nella mia famiglia materna erano ebrei dell’europa» continuò Sam, «venuti da uno di quei posti che fino a poco fa erano comunisti e adesso sono nel caos. Credo che alla mamma piacesse l’idea di sposare un cherokee, con tutto quel che ne consegue di etnico.» Bevve un altro sorso di vino rosso.
«La mamma di Sam è scatenata» aggiunse Marguerite con un tono che sembrava di approvazione.

«Sai dov’è, adesso?» chiese Sam. Shadow scosse la testa. «In Australia. Su Internet ha conosciuto un tizio che vive a Hobart. Quando si sono incontrati lo ha trovato disgustoso, però la Tasmania le è piaciuta molto e quindi adesso vive lì con un gruppo di donne, insegna a fare i batik e cose del genere. Non è forte, alla sua età?»

Shadow disse di sì e si servì altre polpette. Sam raccontò che gli inglesi avevano cercato di portare gli aborigeni della Tasmania all’estinzione e che quando avevano fatto una catena umana intorno all’isola per prendere i sopravvissuti in trappola c’erano finiti soltanto un vecchio e un bambino malato. Spiegò a Shadow che i tilacini, i lupi del deserto, erano stati tutti uccisi dai contadini preoccupati per le pecore, e che negli anni Trenta qualche uomo politico si era accorto che i tilacini andavano protetti, però ormai non ce n’era più mezzo. Finì il secondo bicchiere di vino e si versò il terzo.

«Allora» disse all’improvviso, con le guance arrossate, «parlaci della tua famiglia. Come sono, gli Ainsel?» Sorrideva con malizia.
«Siamo molto banali» rispose Shadow. «Nessuno di noi si è spinto fino in Tasmania. Dunque frequenti l’università di Madison… Come ti trovi?»
«
Sai com’è
» disse lei, «studio storia dell’arte, storia del movimento femminile e con ogni probabilità mi fondo da sola le mie sculture in bronzo.»
«Quando sarò grande farò le magie.
Puf

» disse Leon. «Mi insegni, Mike Ainsel?»
«Certo. Se alla mamma non dispiace.»
«Mags, dopo cena, mentre tu metti a letto Leon, mi faccio portare da Buck Stops Here per un’oretta» annunciò Sam.
Marguerite non rispose con l’alzata di spalle che ci si sarebbe aspettati. Girò la testa e sollevò un sopracciglio.
«Mike mi sembra un uomo interessante» continuò Sam. «E abbiamo un sacco di cose di cui parlare.»

Marguerite guardò Shadow, impegnato ad asciugare con un tovagliolo di carta una macchia immaginaria di pomodoro sul mento. «Be’, siete adulti» disse in un tono di voce che sottintendeva il contrario, oppure che, anche nel caso lo fossero davvero, non avrebbero dovuto essere considerati tali.

Dopo cena Shadow aiutò Sam in cucina, asciugando i piatti, e poi fece vedere un trucco a Leon contandogli i penny nella manina: ogni volta che il bambino apriva la mano e contava le monete ne trovava sempre una in meno del previsto. E l’ultimo penny — «Stringilo eh! Stringilo forte!» — quando Leon aprì la mano scoprì che era stato trasformato in una moneta da dieci centesimi. Gli strilli lamentosi di Leon «Ma come hai fatto? Mamma, ma come fa?» lo seguirono fin nel corridoio.

Sam gli diede il cappotto. «Vieni» disse. Il vino le aveva arrossato le guance.
Fuori era freddo.
Shadow si fermò a prendere il
Minutes of the Lakeside City Council
e a infilarlo in un sacchetto della spesa. Poteva darsi che giù al Buck ci fosse Hinzelmann, e voleva fargli vedere la pagina in cui si parlava di suo nonno.
Percorsero il vialetto fianco a fianco.

Lui aprì la porta del garage e lei cominciò a ridere. «Oddiosanto» esclamò vedendo la 4-Runner. «La macchina di Paul Gunther. L’hai comprata tu. Oddiosanto.»
Shadow le aprì la portiera, poi fece il giro e salì. «La conosci?»
«Sì, un paio d’anni fa, una volta che sono rimasta un po’ da Mags. Sono stata io a convincere Paul a dipingerla di rosso.»
«Ah. Fa piacere avere qualcuno con cui prendersela.»

Arrivato in strada scese per andare a chiudere il garage, poi tornò al volante. Sam lo guardò in modo strano, come se tutta la sua sicurezza stesse abbandonandola. Shadow allacciò la cintura e lei disse: «D’accordo. È stato stupido da parte mia, vero, salire in macchina con un assassino psicopatico?».
«L’altra volta sei arrivata sana e salva.»

«Hai ammazzato due uomini. Sei ricercato dall’Fbi. E adesso scopro che vivi sotto falso nome porta a porta con mia sorella. A meno che Mike Ainsel non sia il tuo vero nome.»
«No» rispose Shadow con un sospiro. «Non lo è.» Detestava ammetterlo, era come perdere qualcosa di importante, abbandonare Mike Ainsel negando di essere lui, era come dire addio a un amico.
«Li hai uccisi tu?»
«No.»

«Sono venuti a casa mia, hanno detto di averci visti insieme. E uno dei due mi ha mostrato una tua foto. Come si chiamava… Cappello? No, Città. Era come nel
Fuggitivo.
Io ho risposto che non ti avevo mai visto.»
«Grazie.»
«Perciò dimmi che cosa sta succedendo. Mantengo il segreto, se tu mantieni il mio.»
«Non conosco nessun segreto che ti riguardi.»

«Be’, sai che l’idea di dipingere questa macchina di rosso è stata mia, e quindi sono colpevole di aver condannato Paul Gunther a diventare oggetto di derisione e disprezzo da parte di tutta la zona, costringendolo a lasciare la città per sempre. Credo che fossimo piuttosto fumati» ammise.
«Dubito che sia un grande segreto» disse lui. «A Lakeside lo sapranno tutti. È una tonalità di rosso da strafatti.»

E poi, molto in fretta, e a voce molto bassa, lei disse: «Se vuoi uccidermi ti prego di non farmi soffrire. Non dovevo venire in macchina con te. Sono così cogliona, cazzo. Ti posso identificare. Merda».
Shadow sospirò. «Non ho mai ucciso nessuno. Davvero. Adesso andiamo al bar e beviamo qualcosa. Oppure, a un tuo ordine, faccio inversione e ti riporto a casa. In un caso o nell’altro spero che non chiamerai la polizia.»
Attraversarono il ponte in assoluto silenzio.
«Chi ha ucciso quei due?»

«Se te lo dicessi non mi crederesti.»
«Ti crederò.» Adesso sembrava arrabbiata. Shadow si domandò se portare la bottiglia di vino a cena fosse stata una buona idea. Certo in quel momento la vita non era un cabernet.
«Non sarà facile.»
«Io posso credere a qualsiasi cosa. Non hai idea di quello che riesco a credere.»
«Ah sì?»

«Credo in cose reali e in altre che non lo sono e credo in altre cose ancora che nessuno sa se sono reali o no. Credo in Babbo Natale e nel coniglietto di Pasqua e in Marilyn Monroe e nei Beatles, in Elvis e Mister Ed. Guarda… credo che gli uomini siano esseri perfettibili, che il sapere sia infinito, che il mondo sia nelle mani di un cartello bancario segreto e che gli alieni vengano a trovarci regolarmente, alieni bravi e tutti rugosi che assomigliano ai lemuri e alieni cattivi che mutilano il bestiame e vogliono rubarci l’acqua e le donne. Credo che il futuro sia preoccupante e che un giorno la Donna-Bufalo-Bianco tornerà a prenderci tutti a calci nel sedere. Credo che gli uomini siano soltanto bambini troppo cresciuti con gravi problemi di comunicazione e che il declino del sesso in America coincida con la chiusura dei drive-in. Credo che gli uomini politici siano dei disonesti senza principi e credo che siano comunque preferibili all’alternativa. Credo che quando verrà il grande terremoto la California affonderà nell’oceano, mentre la Florida si dissolverà, inghiottita dalla follia, dagli alligatori e dalle scorie tossiche. Credo che il sapone antibatterico stia distruggendo la nostra capacità di resistenza alla sporcizia e alle malattie e che quindi un giorno verremo tutti annientati da un banale raffreddore come i marziani nella


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