Sinistra smascherata: il flagello neoliberista

Sinistra smascherata: il flagello neoliberista

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Massimo D'Alema (v. Video in basso)

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Legalità, Costituzione e invasioni barbariche


NUOVA FIGURA DEL LAVORATORE-CONSUMATORE

3. Migrazioni incontrollate

I flussi migratori, quando non seguono alcuna forma di controllo e pianificazione, sono responsabili di aumentare la competizione e mettere in concorrenza i lavoratori con lo stesso meccanismo utilizzato per i beni di produzione, abbassando il prezzo di mercato – che nel caso del lavoro è rappresentato dal salario – e minando così il potenziale potere monopolistico del lavoro.


L’economista contemporaneo Richard Wolff, analizzando l’andamento dell’economia statunitense, dichiara: “la lunga crescita dei salari reali negli USA è finita più di trenta anni fa a causa di una combinazione di: computerizzazione, delocalizzazione, entrata delle donne nel mercato del lavoro e una nuova ondata migratoria (soprattutto dal Sudamerica e dal Messico)”.


I capitalisti di Wall Street gioiscono alla scoperta di poter fermare i salari grazie a un’offerta di lavoro superiore alla domanda.


Se queste considerazioni possono sembrare tanto ragionevoli da risultare ovvie, spostando il piano da quello economico a quello etico-morale, la situazione cambia drasticamente. Si è andato infatti consolidando nell’opinione pubblica un vero tabù del razzismo, che impedisce di trattare il fenomeno migratorio da un punto di vista economico e di ricadute sociali legate al connesso aumento della disoccupazione e alla perdita graduale dei diritti da parte dei lavoratori.


L’inganno è sostanziale: razzista è chi crede nell’esistenza di gerarchie in base alle differenze biologiche delle razze; xenofobo è chi ha paura degli appartenenti a etnie diverse. Tacciare di simili fobie chi avanza un’analisi di tipo macroeconomico sulle dinamiche del lavoro è inappropriato e fuorviante.


Sotto mentite spoglie buoniste e umanitariste, il neoliberismo si serve di masse di individui disposti a tutto, che vanno a ingrossare la schiera dei disoccupati già presenti a livello locale, in quanto strutturali a un sistema legato ai cicli e alle afasie del mercato, che necessita di un certo livello di disoccupazione per non incorrere nell’inflazione.


Facendo leva sull’innato senso di colpa e di peccato, a sua volta amplificato dal substrato religioso-culturale, anziché rivedere tout court il sistema socio-economico globale, improntato su forme crescenti di disuguaglianza e di conflitto sociale, e intervenire concretamente nell’aiuto allo sviluppo delle aree geografiche depresse, l’accoglienza illimitata crea una forma inedita di colonialismo.


Il nuovo schiavismo non si basa su criteri di razza ma piuttosto di classe sociale. In nome di quei valori d’integrazione e modernizzazione osannati dal credo neoliberista viene incoraggiato il superamento delle radici storiche e culturali, tacciando di razzismo e xenofobia coloro che non si adeguano.


Attraverso una fine manipolazione, che tocca sentimenti irrazionali, l’opinione pubblica, sviata dalla questione economica e umanitaria, è stata dirottata su un umanitarismo di facciata.


I PARADOSSI DELL’ECONOMIA NEOLIBERISTA

Il paradosso del debito

Il paradosso del finanzcapitalismo è che trova nel caos e nella povertà terreno fertile, in quanto proprio la speculazione sui debiti e sulle sofferenze ne è la linfa vitale. Il suo funzionamento è regolato da meccanismi complessi, artificiosi, che si basano sulle applicazioni di modelli della fisica e della cibernetica. Nulla di più lontano dal cittadino e dall’economia reale, appannaggio di potenti lobby finanziarie che muovono le trame del sistema e di cui la politica è diventata portavoce.


Il segreto del suo successo? “Comprare quando scorre la maggiore quantità di sangue per le strade”. La paternità di questo motto va attribuita a Nathan Mayer Rothschild, il capostipite della potente dinastia finanziaria le cui origini si perdono nel tempo.


La strategia adottata dalla casata Rothschild e dai grandi gruppi finanziari internazionali ai tempi del neoliberismo senza ostacoli né frontiere è la stessa: sfruttare le debolezze del mercato e comprare nel momento di maggiore ribasso del prezzo del prodotto da acquisire.


Possiamo a ragion veduta affermare che il finanzcapitalismo è un’economia basata sulle sofferenze, intese in senso finanziario e umano.


Gli strumenti finanziari sono governati per lo più da astratti algoritmi matematici che poggiano su formule incapaci di collimare con la realtà. Questo ci dà idea della precarietà dell’attuale sistema economico, soggetto a crisi continue e foriero di disastri socio-economici.


I maggiori responsabili dell’affermarsi di questo sistema distorto e criminale sono i politici, venuti meno al loro compito di tutelare le fasce deboli e di assicurare il benessere sociale. La politica si è messa al completo servizio dell’economia prima e della finanza speculatrice poi.


L’insostenibilità di tale modello, completamente alieno dalla scienza economica, viene tenuta in piedi da un manipolo di globocrati, con soluzioni artificiose e sofisticate che posticipano e dilatano il problema.


Per avere una misura di quanto stia avvenendo in termini reali, già nel 2009 il FMI ha stimato che per sanare i conti delle istituzioni finanziarie sarebbero occorsi circa 12 trilioni di dollari, ossia un quinto del PIL dell’intero pianeta!


I piani di risanamento che vengono imposti dalle autorità economiche (dove abbiamo assodato che per economia si intende metonimicamente finanza) prevedono continui tagli ai bilanci degli Stati e alla spesa pubblica. Il genio perverso insito nel finanzcapitalismo è riuscito in un’opera manipolatoria dell’opinione pubblica assai più sopraffine di quello del consumismo: “camuffare il debito privato delle banche in debito pubblico degli Stati”.


Per i salvataggi dei frequenti fallimenti finanziari sono state imposte alle popolazioni ricette dolorosissime, che sono andate ad aggravare un’economia reale già agonizzante. Mentre la precarietà e la povertà aumentano, in pochi anni i gruppi salvati dagli Stati sono diventati il doppio in termini di attivi, senza contare le mille diramazioni della finanza ombra.


L’assoggettamento della politica al profitto della finanza è tale che è difficile discernere tra i due ambiti, divenuti ormai a porte girevoli, per cui è frequente che capi di colossi finanziari vadano a ricoprire ruoli di primissimo piano politico.


Per le stesse leggi del libero mercato e della concorrenza che regolano l’economia, anche la politica, ripudiato ogni interferenza e vincolo da parte dello Stato e della collettività, ha spontaneamente raggiunto il suo “ordine naturale”. Alle esigenze di benessere del territorio preferisce quelle della finanza globale, che non ha origine né residenza fisica, essendo la speculazione sul denaro per sua natura immateriale.


Così i centri di potere diventano le grandi istituzioni politico finanziarie, che hanno sedi internazionali rappresentative e nessun contatto con le popolazioni di cui sono formalmente esponenti, in modo perfettamente speculare alla distanza del finanzcapitalismo dall’economia reale.


Come la finanza anche la massa diviene un’ombra, un conglomerato di individui fantasma che ignorano la natura del moloch finanziario ma allo stesso tempo con il loro tributo sacrificale lo tengono in vita.


La trappola della moneta unica

Nel giorno di ferragosto del 1971 il presidente americano Nixon con uno storico proclama dichiara la cessazione della convertibilità del dollaro in oro, smantellando così ogni rapporto tra denaro e riserve auree e mettendo fine al regime di Bretton Woods.


Nato dalle sue ceneri, il sistema monetario moderno prevede che la moneta – cosiddetta fiat – sia priva di ogni valore intrinseco.


La caratteristica distintiva della moneta è quella di rappresentare l’unità di misura convenzionale del valore dei beni, così come il chilogrammo lo è del peso e il metro della grandezza. Essa inoltre è l’unico mezzo accettato dallo Stato per la riscossione dei tributi, impedendo così alla popolazione la creazione di un eventuale mezzo di compravendita alternativo.


Lo Stato ha il monopolio della valuta, che monetizza attraverso le banche centrali e immette sul mercato per gli investimenti nella spesa pubblica e nei servizi sociali per i cittadini: poiché la carta e i bit elettronici sono risorse illimitate, il suo unico vincolo di spesa dovrebbe essere definito dalle risorse umane e ambientali. A differenza delle famiglie e delle imprese, infatti, essendo detentore della valuta, non è sottoposto all’oneroso vincolo del pareggio di bilancio, per il quale le entrate (tasse) dovrebbero uguagliare le uscite (spesa pubblica), situazione non solo impossibile ma assolutamente deleteria per il benessere della popolazione. Ciò, è evidente, non vuol dire che i governi siano legittimati a sottoscrivere spese folli, emettendo moneta a loro piacimento: l’attenzione alla produttività e al contenimento dell’inflazione, all’innovazione e alla corretta redistribuzione sono vincoli ineludibili, come il rispetto dell’esauribilità di alcune risorse materiali e immateriali.


Quando si realizza un’unione monetaria, ogni Paese che ne prende parte rinuncia alla propria sovranità monetaria, e quindi al monopolio sulla propria valuta, per adottarne una comune. Questo tipo di unioni sono assai infrequenti a livello globale, ad eccezione di alcuni Stati africani e isolette caraibiche: quello europeo, per numero e peso economico dei Paesi coinvolti, rappresenta un caso eccezionale.


Col Trattato di Maastricht del 1992 viene presa la decisione di adottare una moneta unica e si procede alla creazione della Banca centrale europea. I tecnocrati di Bruxelles stabiliscono i criteri economici di convergenza che i Paesi che aspirano ad accedere nell’unione monetaria sono tenuti a rispettare.


L’unione monetaria comporta la rinuncia alla politica di flessibilità dei cambi tra regioni diverse, strumento economico fondamentale per riequilibrare un’economia colpita da un cambiamento imprevisto della domanda/offerta aggregata.


Secondo gli economisti neoliberisti di Bruxelles l’elevata mobilità e l’alto grado di apertura tra regioni sono in grado di garantire la prosperità e la stabilità economica.


Così, il primo gennaio del 2002, i diciannove “virtuosi” d’Europa abbandonano la propria valuta per passare all’Euro. Venuta meno la sovranità monetaria, l’unica autorizzata a emettere moneta diventa la BCE (Banca Centrale Europea), che lo fa ricorrendo ai mercati di capitale privato, ossia le grandi banche di investimenti internazionali.


Al pari di un cittadino comune, lo Stato è costretto a prendere in prestito il denaro da spendere dai mercati finanziari internazionali, che applicano un tasso d’interesse da loro stabilito. Per poter effettuare spesa pubblica, ossia garantire ai cittadini quei servizi essenziali come la sanità o l’istruzione senza dover ricorrere all’offerta privata, è costretto sia a indebitarsi sia a tassare in modo gravoso i cittadini stessi. Così la spesa a deficit, che in un governo responsabile e onesto è funzionale al benessere economico del Paese, con la moneta unica diviene una zavorra, che arricchisce il mercato del capitale privato internazionale togliendo soldi dalle tasche, sempre più vuote, dei cittadini, sempre meno tutelati.


Alimentando con grande abilità retorica il falso assioma secondo il quale il bilancio statale deve seguire gli stessi principi di quello familiare o aziendale, è stato introdotto il cappio del pareggio di bilancio. Per far fronte al pagamento del debito e degli interessi maturati gli Stati, in particolare quello italiano, si sono immessi in una spirale nefasta di tagli alla spesa e (s)vendita degli asset pubblici, che alimentano il circolo vizioso della disoccupazione e della miseria.


Possiamo con cognizione affermare che l’euro è stato uno dei più grandi successi dell’affermazione dei principi neoliberistici.

Fonte:

Ilaria Bifarini, Neoliberismo e manipolazione di massa - Storia di una bocconiana redenta, Youcanprint, Roma 2018


Sinistra smascherata

Sinistra smascherata: il flagello neoliberista - https://youtu.be/JTZE1rZzHuU


La storia delle privatizzazioni


Di Maio

Sul Mes i grillini perdono la faccia. E i pezzi

di Maurizio Belpietro, 12 dicembre 2019


«Cambiamo il mandato della Bce e diciamo no al fondo monetario europeo». La minaccia potrebbe essere uscita dalla bocca di un irriducibile sovranista, tipo Alberto Bagnai o Claudio Borghi, leghisti duri e puri che da sempre fanno la guerra all'euro. E invece no, a pronunciare il giuramento solenne di opporsi alla tecnocrazia di Bruxelles e ai suoi meccanismi perversi sono stati i leader del Movimento 5 stelle, quando ancora c'era da rinnovare il Parlamento europeo. Anzi, i grillini non si sono limitati a dichiarare guerra al Fondo salva Stati e all'istituto centrale bancario in campagna elettorale: lo hanno anche scritto. Il testo lo si può trovare ancora lì, sul Blog delle stelle, il portale di Beppe Grillo. Postato l'8 aprile del 2019, poco più di un mese prima che si votasse, il messaggio è presentato come l'europrogramma del Movimento, sotto un titolo che si può definire esplicito: «Più lavoro e meno vincoli di bilancio, cambiamo il mandato della Bce».


Otto mesi fa i grillini sembravano dunque avere le idee chiare a proposito di ciò che si dovesse fare per risollevare il Paese. La prima mossa riguardava la banca centrale, che secondo loro, pur di garantire un tasso d'inflazione inferiore al 2 per cento, metteva a repentaglio la stabilità dell'eurozona. «La nostra proposta» scrivevano quando ancora non era in vita il Conte bis e il premier si dichiarava orgogliosamente populista, «prevede che la crescita economica e la piena occupazione vengano inseriti tra gli obiettivi della Bce». Tradotto, facciamola finita con i parametri di Maastricht: l'austerity ci ha reso tutti più poveri e dunque ora dobbiamo sostituire il rigore con la crescita, costringendo la Banca centrale a finanziare lo sviluppo, pompando liquidità nel sistema. 


Già qui le promesse stridono con ciò che è venuto dopo, con il governo giallorosso e le genuflessioni del ministro dell'Economia al totem di Bruxelles. Basti dire che ieri il presidente del Consiglio ha perorato la causa europea con un accorato appello, dicendo al Parlamento che non è il momento di divisioni fra Stati. Un invito che portava con sé un unico messaggio: dobbiamo chinare il capo e fare ciò che ci chiede la Ue.


In effetti in Parlamento ieri sono stati in molti ad abbassare la testa. Anzi, a dimenticarla a casa, visto che durante il dibattito in Aula si sono eclissati, restituendo agli italiani l'immagine di un emiciclo semideserto mentre parlava Giuseppe Conte. Il vuoto dell'aula di Montecitorio durante la discussione non ha però poi impedito agli onorevoli di votare a favore della riforma del Mes, che è passata con qualche decina di voti di scarto. E dire che fino ad aprile il Movimento 5 stelle era convinto che il Meccanismo europeo di stabilità fosse una specie di sciagura per il nostro Paese. Leggere per credere che cosa si sosteneva sul sito ufficiale del movimento: «Così come è concepito, il Fme può diventare uno strumento di punizione per gli Stati in difficoltà». Segue analisi di ciò che con l'intervento del Fondo salva Stati è successo in Grecia e solenne impegno a sostenere misure e strumenti che affrontino le cause profonde della crisi. I grillini giurano sul blog che modificheranno i principali regolamenti e le direttive che impongono misure di rigore per sostituirli con meccanismi di condivisione del rischio. Conclusione: «I falchi dell'austerity sono avvertiti». Non so quale sia l'avvertimento che i pentastellati hanno spedito a Bruxelles. Ma a giudicare dal voto di ieri, il messaggio inviato, più che una minaccia, appare una resa incondizionata. Rispetto alle dichiarazioni bellicose delle passate settimane, con il voto in Parlamento i grillini hanno infatti alzato bandiera bianca, rassegnandosi a una sconfitta su tutta la linea. Il Mes, che prima era giudicato un serio pericolo per il nostro debito pubblico, con il sì di Camera e Senato è stato praticamente accettato. 


Oh, certo, col voto di ieri 5 stelle e Pd hanno vincolato il governo a tornare a riferire. Ma nella realtà c'è ben poco da dire, perché il rinvio tecnico della sottoscrizione dell'accordo europeo non è stato ottenuto per consentire le modifiche, ma semplicemente per permettere all'Italia di ingoiare meglio la pillola. Le polemiche, gli allarmi e la stessa promessa dei grillini di un cambiamento delle regole, in realtà sono state spazzate via dall'approvazione della risoluzione. Di fatto il Parlamento ha accettato i diktat europei, cedendo davanti alla minaccia di una crisi di governo. Del resto, c'era da aspettarselo. È bastata qualche indiscrezione sulla possibilità di una conclusione anticipata della legislatura e come d'incanto gli onorevoli si sono attaccati alla poltrona. Il formidabile collante delle elezioni, infatti, funziona meglio dell'Attack.

(Fonte: https://www.laverita.info/un-movimento-fondato-sullattrazione-per-le-poltrone-2641572837.html)


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