La storia delle privatizzazioni

La storia delle privatizzazioni

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1.Le Autostrade ai Benetton senza farli pagare

di Carlo Cambi, 28 agosto 2018

Nella prima puntata sulla storia delle privatizzazioni, uno dei peggiori affari per lo Stato. Con un gioco di prestigio il gruppo veneto riuscì ad acquisire la rete recuperando tutti i soldi. Un'operazione complessa alla quale parteciparono l'Iri, Unicredit e Mediobanca.


Partiamo da un tweet di un presunto top manager e ovviamente molto democratico: Chicco Testa, gran frequentatore di Capalbio lido. È stato il privatizzatore di Enel, ma anche parlamentare del Partito comunista, è stato leader di Legambiente, ma anche tra i più accesi sostenitori del nucleare. Il «ma anche» è dovuto per rispetto del suo nume tutelare Walter Veltroni. Qualche giorno fa ha cinguettato: «Lo Stato incassa tra tasse e concessioni 9 miliardi, Autostrade ha un utile netto di 2 miliardi, se nazionalizziamo prendiamo 2 e perdiamo 9. Chi glielo spiega?». Già, chi glielo spiega che uno che non sa cos'è e come si calcola l'utile netto è stato al vertice dell'Enel? In realtà se lo Stato rinazionalizzasse Autostrade incasserebbe 11 miliardi all'anno: 9 più 2! 


Quella di Autostrade è stata l'ultima svendita di spessore. Come tutte le privatizzazioni è stata fatta con un'operazione che tecnicamente si chiama di leveraged buyout. Tradotto: compro indebitando la società. Regista dell'operazione è stato Gian Maria Gros Pietro, delfino di Romano Prodi e suo successore alla presidenza dell'Iri, che dopo un paio d'anni dalla vendita di Autostrade ai Benetton ne diventerà presidente. 


Gros Pietro arriva all'Iri nel marzo del 1997, non c'è rimasto molto da vendere e forse non c'è neanche tutta questa necessità di farlo. L'impegno preso da Beniamino Andreatta con Karel Van Miert nel 1993 di azzerare i debiti di Efim e di Iri è stato di fatto onorato: sono già stati incassati oltre 100.000 miliardi. In più Autostrade è una società che non perde, anzi dà guadagni allo Stato e soprattutto è strategica per lo sviluppo. Ma proprio questo sarà l'argomento di Gros Pietro che predica contro un deficit infrastrutturale del Paese e va dicendo in giro e in ogni dove che servono i privati per fare investimenti. A spalleggiarlo il direttore dell'Iri, Pietro Ciucci, che ad Autostrade vendute ritroveremo presidente dell'Anas. Insomma è una questione di «famiglia». 


In quel momento al vertice di Autostrade ancora irizzata c'è Giancarlo Elia Valori, che aveva già resistito nel 1994 all'idea di Prodi di vendere Autostrade. Ma Gros Pietro insiste e prova a mettere in vendita i caselli che generano sì un interessante cash flow, ma che hanno un problema: chi fissa le tariffe? Gli investitori esteri non si fidano del fatto che i prezzi siano di fatto in mano allo Stato, che in più ha anche il potere di controllo sugli investimenti. 


Nel frattempo nel 1998 a Palazzo Chigi sale Massimo D'Alema e nel 1999 Prodi si insedia al vertice della Commissione europea. L'Italia deve stare nel novero dei Paesi euro e a Gros Pietro dicono: tira su un po' di soldi. È lui che ha il pallino di Autostrade e fa un bando che dice: cessione del 30% a un socio forte, il 70% sul mercato. Il 22 ottobre 1999 al cda dell'Iri arriva solo una manifestazione d'interessi: è di Edizione srl, la finanziaria della famiglia Benetton. La proposta di una cordata australiana, messa in campo probabilmente per evitare accuse di favoritismi, svanisce come neve al sole. Edizione srl offre 5.000 miliardi (2,5 miliardi di euro), al collocamento sul mercato si conta di riavere altri 8.000 miliardi di lire (circa 4 miliardi di euro). Ma il punto è che ai Benetton vengono assicurate due cose: il sistema di determinazione tariffario non sarà cambiato, l'Anas non farà controlli sugli investimenti. Alessandro Danovi (Unibergamo) e Francesco Rubino (Bocconi) hanno dedicato uno studio ponderoso alla creazione di valore per Benetton e ne hanno concluso che «la privatizzazione della società Autostrade ha generato per gli azionisti un notevole valore, sia in riferimento a quanto emerso al momento dell'operazione in termini di prezzo pagato, sia ai ritorni successivi legati all'introito di una consistente remunerazione». Si certifica che i Benetton hanno pagato pochissimo Autostrade, ma soprattutto che, speculando sull'Opa, hanno fatto un vero affare. 


La privatizzazione di Autostrade si svolge in questo modo. Edizione srl crea una società, la Schemaventotto, che il 9 marzo 2000 acquista dall'Iri il 30% di Autostrade spa per 2.566 milioni di euro. I soldi li mettono per una metà gli azionisti di Benetton e per un'altra metà le banche. Nel novembre del 2002 lanciano l'Opa sul capitale restante di Autostrade e, a chiusura, pagando meno di 7.000 miliardi di lire, Schemaventotto ha circa l'83% del capitale. I soldi glieli presta Unicredit e Mediobanca. A quel punto rivende un po' di azioni e incassa all'incirca 3.000 miliardi. Sostanzialmente alla fine dell'operazione i Benetton hanno comprato Autostrade recuperando tutti i soldi che avevano anticipato. Nel 2002 il governo ratifica tutte le operazioni finanziarie e si fa festa. Il 6 giugno 2002 Giancarlo Elia Valori lasciando la presidenza di Autostrade dà un pranzo di gala alla Casina di Macchia Madama a Roma. Fa servire pesce spada marinato, risotto con gamberi e fiori di zucca, spigole in crosta di patate e gelato al grand marnier, il tutto annaffiato da Arneis fresco per gli ospiti di riguardo: Gilberto Benetton, Gianni Mion (ad di Edizione holding), Gian Maria Gros Pietro (neo presidente di Autostrade), Vito Gamberale, Piero Gnudi (presidente dell'Enel e commercialista di Prodi) e Marcellino Gavio (l'altro signore delle autostrade italiane).


Tutto è a posto anche perché nelle more della privatizzazione si sono scordati (?) di fare due cose. La prima: rivedere il sistema di fissazione delle tariffe. La seconda: il sistema dei controlli. Per le tariffe c'è un'equazione ancora oggi utilizzata. È un po' complicata, ma ha l'X Factor. Non è uno show, semmai una slot machine: vince sempre il banco, cioè Autostrade. Il parametro X è il coefficiente in base al quale va garantita la remunerazione del capitale investito. Basta che Autostrade annunci un investimento per avere più soldi. Si capisce così perché, in 15 anni di gestione Benetton, Autostrade abbia fatto utili per 10 miliardi e oggi sia la terza società, certificato da Janus Enderson, a distribuire i dividendi per azione più ricchi: 63 centesimi. Quando era pubblica Autostrade era soggetta al controllo dell'Anas, ma privatizzata, è rimasta di fatto libera da qualsiasi vincolo. Ciucci diventato presidente Anas si guardò bene dal chiedere l'istituzione dell'Autorità di vigilanza, peraltro prevista all'atto della cessione. Così fino al 2013 nessuno ha controllato Autostrade e anche quando è stata insediata l'Autorità le sono stati conferiti poteri solo sulle nuove concessioni. 


Dunque Benetton e soci se ne stanno tranquilli tra due guanciali. Nel frattempo hanno continuato a crescere. Certo si sono comprati Abertis diventando il primo gruppo mondiale con oltre 11.000 chilometri gestiti e hanno continuato a guadagnare tantissimo. Ma c'è un'altra acquisizione molto interessante sempre in tema di privatizzazioni. È quella di Sat, le autostrade tirreniche che dovrebbero costruire la Livorno-Civitavecchia. L'autostrada non c'è, ma solo la promessa di farla ha garantito ad Atlantia l'adeguamento delle tariffe al rialzo. Per inciso: presidente di Sat è Antonio Bargone, ex deputato Pds, dalemiano di ferro già sottosegretario ai lavori pubblici nel primo governo Prodi e nel secondo D'Alema. Perché la storia continua... 

(Fonte: https://www.laverita.info/le-autostrade-ai-benetton-senza-farli-pagare-2599536370.html)


Romano Prodi

2.La guerra per banche persa da Prodi si è mangiata il nostro patrimonio

di Carlo Cambi, 29 agosto 2018

Il Professore, spalleggiato da Mario Draghi, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, sfidò Enrico Cuccia e provò a privatizzare gli istituti di credito. Ma fu una disfatta: gioielli svenduti a un decimo del valore e un sistema smantellato. Per la gioia dei tedeschi.


Potremmo chiamarla la guerra dei sedici anni: cominciata nel 1982 e conclusa nel 1998, con un prolungamento al 2006 quando Unipol – finanza rossa che ha ampiamente banchettato nella stagione del venditore Romano Prodi – cede a Bnp Paribas il pacchetto di Bnl. È la guerra per banche – Credito italiano, Comit (Banca commerciale italiana) e Banco di Roma, le banche d'interesse nazionale e Mediobanca, con a cascata due terzi del sistema creditizio, che era stato indispensabile per trasformare l'Italia da Paese sconfitto e agricolo in quinta potenza mondiale – condotta dalla Dc. Armò Romano Prodi come burattino, aveva in Beniamino Andreatta il grande burattinaio che riuscì a costruirsi alleanze interessate nel campo di Agramante. Lo stratega di tutto pro domo Bilderberg – i finanzieri senza volto che possono essere rappresentati dalla Goldman Sachs da cui sono passati Mario Draghi, Mario Monti e lo stesso Prodi – fu il rampante Draghi, come intendente s'ebbe Giuliano Amato e come gran cerimoniere Carlo Azeglio Ciampi. È una guerra di continui tradimenti che convinse gli ex Pci che per far cadere la conventio ad excludendum bisognava allearsi con la finanza. Se oggi i piddini sono ultraliberisti si deve proprio a quella guerra disgraziata che ha avuto un solo scopo: depatrimonializzare il sistema Italia per servirlo su un piatto d'argento alla Germania padrona d'Europa, che mal sopporta il protagonismo imprenditoriale di questi meridionali furbi, indebitati e gaudenti che sono gli italiani. 


L'Italia è stata offerta da Romano Prodi per pochi spiccioli (solo dagli errori nella privatizzazione delle banche c'è un mancato incasso tra i 10 e i 15 miliardi di euro), ma certo non solo da lui, all'Europa come bottino della guerra per banche. La Dc, già negli anni Ottanta, cominciava ad avere carenza d'intelletto ed eccesso d'appetito nei suoi alti vertici, ma soprattutto mal sopportava che l'imprenditoria diventasse del tutto autonoma dal potere politico. Se oggi il Monte dei Paschi di Siena è stato rinazionalizzato perché la sinistra non si straccia le vesti come fa nell'ipotesi di Autostrade? Perché Confindustria, che dovrebbe guardare meglio i bilanci del Sole 24 Ore sulla banca senese, costata al contribuente più di 5 miliardi, tace e strilla invece in difesa dei Benetton? Se ci sono state le ruberie e gli scandali di Banca Etruria, se la Bce in Italia impera è perché ci sono i frutti avvelenati di quella guerra. 


Prodi non la vinse, ma anche il capitalismo italiano ne uscì con le ossa rotte, perché le grandi famiglie – in realtà una sola: gli Agnelli che come i veri reali d'Italia hanno mostrato un eccesso di pavidità – decisero un armistizio e i vassalli si accomodarono in una sorta di pax retribuita. Luigi Abete ne è l'emblema: tipografo che vive di commesse pubbliche, si ritrova presidente di Confindustria nel 1992 per la rinuncia di Cesare Romiti e finirà per diventare presidente di Bnl (Banque national du travail). La Banca nazionale del lavoro è uno degli effetti collaterali. 


La guerra per banche si scatenò anche per episodi marginali, ma i conflitti cominciano sempre con uno sparo a Sarajevo. Romano Prodi, per dirne una, aveva un problemino aperto con la neonata Nomisma – il suo think tank bolognese – finanziata da Bnl e controllata dal Tesoro di cui era ministro Beniamino Andreatta, che ricevette un mega contratto dal ministero degli Esteri mentre Prodi era presidente di Iri e di Nomisma stessa. Andreatta doveva evitare che lo scandalo Ambrosiano-Ior travolgesse Giovanni Bazoli, che con il nuovo Banco ambrosiano veneto stava operando per evitare che la finanza vaticana fosse toccata dalle inchieste. Lo stesso Bazoli chiedeva un posto al sole nell'alta finanza. Cominciò così il conflitto che si combatté principalmente attorno a Mediobanca. 


Il nemico del sistema Prodi era Enrico Cuccia. Occorrerà dire in premessa che formalmente Mediobanca era un istituto di mediocredito, poi divenuto merchant bank partecipata da Banca commerciale italiana e Banco di Roma (due delle Bin che Prodi privatizzerà, controllate dal'Iri). Non ha mai fatto intermediazione, solo finanziamento. Fu fondata da Enrico Cuccia e da Raffaele Mattioli, che era già presidente di Comit, lo zoccolo duro dell'industria italiana, vero lievito della crescita economica post bellica dell'Italia e dell'intellighenzia economica laica e antifascista: Ugo La Malfa ne era stato un suo alto dirigente. Dopo lo scandalo dell'Ambrosiano (1977-1982) Cuccia voleva a ogni costo sfilare Mediobanca dalle due banche e privatizzarla. La Dc sapeva che se fosse accaduto tutto il sistema industriale privato le sarebbe sfuggito di mano. Tra il 1979 e il 1982 la Dc impose in Mediobanca Fausto Calabria come presidente, la pensione a Cuccia e soprattutto nel 1982 nominò Romano Prodi presidente dell'Iri. Cuccia capì che la privatizzazione non sarebbe passata. Così organizzò una cordata estera, capofila la francese Lazard, e nel 1985 tornò in consiglio di Mediobanca. Nel 1986 Cuccia ripresentò il progetto di privatizzazione: Banco di Roma, dipendente dalla Dc, disse no, Credito italiano disse sì, la Commerciale era divisa e Prodi cacciò il presidente di Comit, ma nel frattempo a presiedere Mediobanca era arrivato Antonio Maccanico, che con l'appoggio di Francesco Cossiga (e le continue minacce dei repubblicani, sia dentro l'Iri con Pietro Armani, sia al governo con Giovanni Spadolini di far saltare il banco), che tesse la tela con il Psi, fu varato il progetto di privatizzazione. 


Prodi – il privatizzatore – aveva perso proprio su una privatizzazione. Ma lo schema creditizio immaginato dalla Dc non poteva saltare. E così si riprese a tessere la tela. Prodi si prese, grazie a Mario Draghi e a Giuliano Amato una sua prima rivincita. Draghi da direttore generale del Tesoro affiancò Giuliano Amato nella riscrittura della legge bancaria. È indispensabile in questa fase trovare chi farà credito a chi vuole comprarsi lo spezzatino delle privatizzazioni inventato da Romano Prodi nella sua prima presidenza Iri, quando regalò l'Alfa agli Agnelli – sperando d'ingraziarsi anche Cuccia, che non era uomo da esercitare gratitudine – e tentò di donare la Sme a De Benedetti (che Cuccia non ha mai potuto sopportare). Nel 1990 il nuovo testo della legge bancaria sancisce che la banche diventano Spa e che il controllo passa nella mani delle neonate fondazioni. Due anni più tardi Andreatta avverte che l'Italia avvierà le privatizzazioni: un bottino da 180.000 miliardi. 


Gli gnomi della finanza si scaldano: George Soros – il benefattore dei migranti – lancia l'offensiva sulla lira e l'Italia, finite le privatizzazioni, porterà a casa la metà del valore ceduto. Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, benedice la legge, ma tre anni più tardi farà un passo ulteriore che sfascia di fatto il sistema. Divenuto presidente del Consiglio l'11 giugno del 1993 fa decadere per le banche il divieto di possedere più del 15% del capitale di industrie. Il giorno prima la Banca d'Italia manda a tutti gli istituiti di credito una lettera in cui dice che i prestiti concessi a società dell'Iri sono a rischio zero, perché garantito dallo Stato. È il grimaldello per vendere agli amici degli amici, finanziando le privatizzazioni con i soldi delle banche che peraltro sono di proprietà dell'Iri.


Nel 1993 Romano Prodi torna presidente dell'Iri per finire il lavoro. Lui conosce un solo modo: svendere a pezzi al peggior offerente. Ma nel governo Ciampi ci sono due tosti: Pietro Barucci e Paolo Savona, che resterà per sempre nemico giurato di Prodi. Barucci dice no all'idea di Prodi di creare delle public company (cedere le banche Iri con soglie di possesso di azioni bassissime) e Savona, che è ministro dell'Industria, si oppone fermamente alla cessione a spezzatino. Ciampi farà una mediazione ponendo il tetto al 3%. 


Si arriva così alla vendita delle tre banche. Nel dicembre 1993 la prima a passare di mano è il Credito italiano. Neanche a farlo apposta l'advisor è Goldman Sachs, che valuta la banca 2.700 miliardi. Merrill Lynch appena un anno prima l'aveva valutata tra gli 8.000 e i 9.000 miliardi. Cuccia mette insieme una cordata e si piglia la banca. Poi tocca a Comit. Prodi lavora ancora all'idea di public company e prova a venderla in America, per questo chiama i suoi amici della Lehman Brothers, che stimano la banca poco sopra i 2.000 miliardi (due anni prima fu valutata tra i 10.000 e 12.000 miliardi). Ma Ciampi ha fretta e nel 1994, anno del centenario Comit, va all'asta. Stesso schema: Mediobanca fa banco! 


Scottato, Prodi fa la finta privatizzazione del Banco di Roma che sarà fuso – grazie agli effetti della legge Amato – con la Cassa di Risparmio di Roma e con il Santo Spirito. Nasce Banca di Roma, il feudo di Cesare Geronzi che finanzierà lo spezzatino della Sme e la vendita di Telecom. Al termine di questa storia succederà che il Credito italiano andrà a rafforzare Unicredit, che poi assorbirà anche Banca di Roma, e Comit finirà complice di Bazoli in Intesa San Paolo, avviando una sorta di bulimia di acquisizioni. Alcune fatali come quella di Mps con Antonveneta. 


Al termine di queste svendite anche la Banca d'Italia diventa di fatto privata. Il disegno perfetto di consegnare l'Italia mani e piedi all'Europa è compiuto ricavando dalle banche meno del 20% del loro vero valore. Dirà, al termine delle svendite, Sergio Siglienti, sardo come Savona, presidente della Banca commerciale: «Due sono le versioni: o il presidente dell'Iri era d'accordo con Cuccia o Prodi era ingenuo o qualcosa di più… Io propendo per la seconda». 

(Fonte: https://www.laverita.info/la-guerra-per-banche-persa-da-prodi-si-e-mangiata-il-nostro-patrimonio-2599858814.html)


Romano Prodi

3.Con la grande abbuffata della Sme l’Iri ha liquidato il futuro degli italiani

di Carlo Cambi, 30 agosto 2018

L'agroalimentare tricolore è stato regalato per quattro spiccioli agli «amici» Carlo De Benedetti e Sergio Cragnotti. Il regista? Il solito Romano Prodi.


Gira in Rete il filmato di una ragazza saggia, per quanto arrabbiata, che apostrofa Romano Prodi: «Non possiamo dimenticare che lei, come presidente dell'Iri, ha svenduto il patrimonio economico italiano. Lei partecipò in prima persona alla nascita dell'euro, come premier e come presidente della Commissione europea. Lei ha svenduto il nostro futuro in cambio di cosa? Abbiamo ottenuto la libertà di andare all'estero a fare i camerieri o di vivere una vita di precarietà e miseria. Le chiedo che riconosca i suoi errori e magari ci chieda anche scusa». Vale più di un trattato sulle privatizzazioni il grido di «Cristina, di Rethinking economics di Bologna» perché questa è tutta la verità sul disastro che Romano Prodi, con l'ottima compagnia di Mario Draghi, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti, ha provocato all'Italia. 


La svendita dell'agroalimentare dell'Iri è però un capitolo a parte: è la summa del disastro e una tavola ben apparecchiata per gli amici degli amici: Unilever, Benetton, De Benedetti, passando per tutto il sottobosco affaristico prima Dc e poi ulivista. Il caso Sme è la plastica rappresentazione dell'incapacità di quelli che sono diventati personaggi dal sapere economico mitologico, «prenditori» protetti da Confindustria e foraggiati da un sistema bancario complice, in azione dal 1985 al 1994. All'ombra della Sme – un agglomerato che andava da Motta a Cirio, da Bertolli ad Autogrill, dai surgelati ai supermercati, che nel 1985 fatturava oltre 800 miliardi di lire e dava utili consistenti – si sono consumate vendette, scontri tra cooperative e industrie, il tutto in un turbinare di carte bollate che hanno seguito – in Italia la giustizia va così – il corso degli eventi politici. Più si consolidava l'idea dell'Ulivo con Prodi conducator, più i tribunali si occupavano non del disastro prodotto dal Professore, ma di chi lo aveva contrastato. Dalla svendita Sme sono derivati i due più grandi scandali finanziari della Repubblica italiana: il crac di Parmalat e Cirio, che hanno messo sul lastrico oltre 100.000 risparmiatori, con un buco di oltre 4 miliardi di euro, dando un colpo mortale alla credibilità internazionale del sistema finanziario italiano. I risparmiatori saranno i veri pelati di Stato, altro che le conserve che Prodi ha svenduto a Sergio Cragnotti, senza passare dal via. Ma ovviamente oggi nessuno ne parla più perché protagonisti di quei casi furono Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, protettissimi dalla Dc e molto amati da Prodi. Complice ne fu Cesare Geronzi, il padrone di Banca di Roma (abbiamo visto ieri che fu creata apposta per fare da pronta cassa per le svendite prodiane) condannato a 4 anni al termine di un processo durato 15 anni. Dalla disgraziata svendita della Sme è derivata la perdita di centralità del nostro agroalimentare. Ed è bene sapere che se c'è il caporalato al Sud, se chi produce latte non ce la fa a tirare avanti, se la grande distribuzione è diventata intoccabile e strozza gli agricoltori, se Francia e Spagna hanno fatto banco sulle nostre eccellenze agroalimentari, tutto questo va sul conto di questa operazione. 


La storia è complessa e ci vide lungo Bettino Craxi che al di là della damnatio memoriae costruita dagli ultimi epigoni del Pci, diventati improvvisamente liberisti, ebbe a dire nel 1997 dall'esilio di Hammamet: «Si presenta l'Europa come una sorta di paradiso terrestre; l'Europa per noi, nella migliore delle ipotesi, sarà un limbo, nella peggiore sarà un inferno. La cosa più ragionevole era pretendere la rinegoziazione dei parametri di Maastricht. Perché se l'Italia ha bisogno dell'Europa, l'Europa ha bisogno dell'Italia e l'Italia è un grande Paese». Sembra la chiosa alla protesta di Cristina e Craxi fu colui che impedì che Prodi regalasse a Carlo De Benedetti tutto l'agroalimentare italiano per una cifra quattro volte inferiore al valore poi realizzato (probabilmente meno della metà del valore reale).


Tutto ebbe inizio nell'aprile del 1985 quando Bruno Visentini, repubblicano, viene avvertito da Giancarlo Elia Valori (il grande capo della Sme irizzata) che Prodi, arrivato a presiedere l'Iri già dal 1982, voleva fare un regalo a Carlo De Benedetti e battezzò l'affare come «quel pasticciaccio brutto di via Veneto». C'era il leit motiv alimentato bene da Prodi che comprava pubblicità sui giornali: lo Stato non può né sfornare i panettoni né fare i pelati, nonostante Pietro Armani, vicepresidente dell'Iri in quota Pri, e Giancarlo Elia Valori dimostrassero, bilanci alla mano, che la Sme si avviava a produrre buoni utili. Ma nel frattempo Carlo De Benedetti con la Cir si era comprato la Buitoni-Perugina per 160 miliardi. Un anno dopo la rivenderà alla Nestlé per 1.600 miliardi e si guadagnerà il soprannome di CoBaVe che sta per Compra baratta e vendi. Che il gruppo Buitoni-Perugina sia stato poi spolpato non interessa più a nessuno. Prodi ha in testa il modello tedesco e per inseguirlo distruggerà l'economia italiana. Così vuole dare la Sme a De Benedetti per costruire un solo polo dell'agroalimentare. I due si mettono d'accordo in gran segreto – Prodi avvertirà solo Clelio Darida, allora ministro dc delle Partecipazioni statali – per una cifra ridicola: De Benedetti offre meno di 1.100 lire ad azione quando la quotazione è di 1.270. Il 29 aprile del 1985, nelle stanze di Mediobanca, Prodi e De Benedetti firmano, presente Enrico Cuccia, il preliminare d'acquisto: la Buitoni-Perugina rileva dall'Iri il 31% di Sme per 397 miliardi e un ulteriore 13% di azioni  viene valutato 100 miliardi.


Giorgio Napolitano,  allora comunista, fa il diavolo a quattro e parla di furto, Craxi si mette di traverso e blocca tutto. Si organizza una cordata alternativa composta da Silvio Berlusconi, Ferrero e Barilla. La vendita sfuma e ne nasce un contenzioso che va avanti 13 anni e su cui si incardinerà anche il famoso «processo Sme» che terrà il Cav imputato per quasi 10 anni. Secondo la Procura di Milano aveva comprato le sentenze per impedire il trasferimento della Sme a De Benedetti. Cesare Previti e il giudice Renato Squillante furono condannati, Berlusconi completamente assolto. Ma nessuno ha invece indagato sulla seconda vendita di Sme. Si materializza nel 1993 quando alla presidenza dell'Iri c'è Franco Nobili che ha deciso di vendere a pezzi: Italgel, Gs e Autogrill, Cirio-Bertolli-DeRica. Scoppia Tangentopoli, Antonio Di Pietro arresta Nobili, che resta in galera due mesi e poi viene completamente scagionato, ma tanto basta per far tornare all'Iri Romano Prodi. E lui, trovandosi lo spezzatino preparato da Nobili, si bea della vendita della Sme. Ma fa colossali errori ed enormi favori. Il primo favore è per la Nestlè: gli dà Italgel per 680 miliardi quando Nobili aveva già concordato 750. Il secondo lo fa ai soliti Benetton. Ci sono in ballo gli Autogrill e i veneti, che già pensano ad Autostrade e si portano a casa i ristoranti insieme ai supermercati Gs. Ai Benetton vanno anche i ristoranti Ciao, il marchio Pavesi e proprietà immobiliari. Tutto per 740 miliardi. Rivenderanno i supermercati al gruppo francese Carrefour – di fatto aprendo le porte dell'Italia alla grande distribuzione d'Oltralpe per 5.000 miliardi di lire.


Secondo due procure, Perugia e Salerno, ai Benetton alla fine sono rimasti in tasca poco meno di 5.000 miliardi di lire e la rete Autogrill. Ma lo scandalo vero è la privatizzazione della Cdb (Cirio-Bertolli-De Rica). Prodi la mette a bando per un valore di 380 miliardi, la metà di quello stimato dagli advisor. Si fa avanti subito la Granarolo (Legacoop), ma Prodi sa già a chi vuole vendere. Il Pci cerca d'impallinarlo ma lui resiste: i pomodori sono per Cragnotti, il latte per Tanzi, ma serve un intermediario per non farla troppo sporca. Compare così Carlo Saverio Lamiranda di Acerenza, pupillo di Ciriaco De Mita. La sua cooperativa Fisvi raggruppa produttori di pomodori e ha un capitale sociale di 50 milioni di lire. Eppure Prodi prosegue con Lamiranda, che si fa dare da Cesare Geronzi una fideiussione da 50 miliardi. Prodi assegna alla Fisvi le quote e prima che la finanziaria delle coop agricole lucane abbia pagato una sola lira Lamiranda gira la Bertolli (il più prestigioso marchio di olio d'Italia) alla Unilever per 253 miliardi. Unilever, di cui Prodi è stato consulente fino a poco prima di tornare all'Iri, rivenderà poi agli spagnoli guadagnandoci un centinaio di miliardi. Con i soldi di Bertolli, Lamiranda paga la prima tranche all'Iri, poi costituisce con Cragnotti la Sagrit girandogli la Cirio. L'affare viene fatto, presente Prodi, nell'ufficio di Cesare Geronzi, che di fatto presta a Cragnotti, via Lamiranda, i soldi per comprare la Cirio e il latte. Cragnotti poi girerà a Parmalat il latte, realizzando una plusvalenza fittizia che è alla base del crac di Cirio e Parmalat. 


Lamiranda resta con pochi spiccioli, ma soprattutto finirà processato: il classico pesce piccolo che paga per tutti. Il 24 febbraio del 1996 Prodi riceve un mandato di comparizione dal pm romano Giuseppe Geremia per abuso d'ufficio. Geremia a novembre chiederà il rinvio a giudizio, ma di quel procedimento si sono perse le tracce. Come nessuno ha mai indagato su quanto denunciato dal Telegraph. Secondo il quotidiano britannico nel 1994 Unilever fece un bonifico di 4 miliardi alla società di studi economici Asa di Romano Prodi e della moglie Flavia, via Goldman Sachs. Perché? A nessuno è interessato saperlo. Come a nessuno è interessato sapere che dalla privatizzazione a spezzatino inventata da Nobili lo Stato incassò più di 2.000 miliardi: dieci anni prima Prodi voleva dare la Sme a De Benedetti per una cifra quattro volte inferiore. Ma soprattutto a nessuno interessa che, smembrata la Sme, la grande distribuzione oggi non è più italiana: la Parmalat è di Lactalis e la Bertolli è degli spagnoli. E tutti lucrano sui nostri agricoltori. Ha ragione Cristina: «Hanno svenduto il futuro in cambio di che cosa?».

(Fonte: https://www.laverita.info/con-la-grande-abbuffata-della-sme-liri-ha-liquidato-il-futuro-degli-italiani-2600163223.html)


Romano Prodi e Massimo D'Alema

4.Così i predoni rossi si papparono Telecom

di Carlo Cambi, 31 agosto 2018

La chiamarono la «madre di tutte le privatizzazioni». In realtà fu un dono di Romano Prodi e Massimo D'Alema agli amici della «gauche caviar». Ernesto Pascale fu l'unico a opporsi, ma il Prof lo fece fuori e l'azienda finì a Colaninno. Un pessimo affare per l'Iri e per il Paese.


Fu «la madre di tutte le privatizzazioni», la svendita di Telecom. A Palazzo Chigi sedeva quella che Guido Rossi, grand commis di Stato e avvocato nel recinto della gauche caviar, noto agli italiani per aver passato a tavolino uno scudetto dalla Juventus all'Inter, battezzò come l'unica merchant bank che non parla inglese. Il capo era Massimo D'Alema, i consiglieri più stretti Claudio Velardi, Fabrizio Rondolino, Giuliano Ferrara. Commissario politico Marco Minniti. Furono loro a favorire la finanza creativa della «razza predona» dei bresciani, i Colaninno, gli Gnutti che avevano come sponsor politico Pier Luigi Bersani , come sponda efficace nella finanza rossa Giovanni Consorte (Unipol) e in quella bianco sporco Gianpiero Fiorani, dominus della Popolare di Lodi: che significa crac Parmalat, scandalo Antonveneta, «furbetti del quartierino». 


La finanza creativa consisteva nel comprare senza tirare fuori un soldo indebitando le aziende da acquistare. Si può fare solo se chi vende lo concede: e la merchant di Palazzo Chigi stese tappeti rossi. Si chiama leveraged buyout. Roberto Colaninno che ha un figlio, Matteo (l'altro sta in azienda), parlamentare del Pd dal 2008, un caro ragazzo che fa la morale a tutti, è lo specialista principe di queste operazioni: si è comprato così l'Olivetti estromettendo Carlo De Benedetti (e solo questo è da record) con cui scalò Telecom e nello stesso modo ha conquistato la Piaggio, divenendo il quarto produttore al mondo di veicoli a due ruote e uno degli uomini più ricchi del continente. Tanto per avere ancora un'idea di cosa è stata la grande abbuffata della telefonia pubblica basti dire che Colaninno è riuscito a tenere per sé le proprietà immobiliari della Stet facendone un business collaterale.  


Attorno a Telecom ci sono state furbizie di capitale degli Agnelli (con meno dell'1% del capitale volevano comandare), furibonde lotte di potere tra Franco Bernabè, Marco Tronchetti Provera e lo stesso Guido Rossi. Perché la «madre di tutte le privatizzazioni» ha partorito due volte. Una prima volta con Romano Prodi a palazzo Chigi, determinando una minusvalenza mostruosa per lo Stato. Una seconda volta con l'assalto della «razza predona», regnante D'Alema, che ha prodotto un enorme arricchimento per gli amici degli amici. Oggi Telecom è in mano a Vivendi (Vincent Bolloré, dunque Francia) per il 23,94% del capitale e un altro 55,48% è di investitori esteri. Prima di essere «privatizzato», l'agglomerato Telecom valeva all'incirca 140.000 miliardi di lire (78 miliardi di euro). Dalla privatizzazione l'Iri ottenne meno della metà. Quando era pubblica, la galassia Telecom aveva 120.000 dipendenti. Oggi sono meno di 50.000. L'indebitamento era sotto il 30% rispetto al fatturato, oggi è pari al 100%. Da pubblica investiva 10.000 miliardi di lire all'anno (5 miliardi di euro) ed era presente in 20 Paesi? Da privata investe meno di 4 miliardi ed è presente ormai solo su tre mercati. Ma soprattutto, quando era pubblica, Telecom era un centro di ricerca all'avanguardia del mondo. Così oggi quando non vi prende il cellulare avete diritto ad arrabbiarvi tre volte: perché da contribuenti avete finanziato le telecomunicazioni in Italia, da cittadini siete stati impoveriti con la privatizzazione e da clienti il servizio latita.


Prodi l'ha voluta svendere, D'Alema ha compiuto l'opera. E per l'Italia è stato un altro tramonto. Che più o meno cominciò così. Roma a primavera nel pomeriggio tardo ha una luce d'infinito: l'aria è soave, le ombre s'allungano in sfumature cremisi. Le 18: appuntamento insolito per un'intervista. Dall'altra parte del telefono la risposta: «Il tramonto s'addice a questo incontro».


Stet: ottavo piano d'un palazzo incerto nell'architettura tra burocrazia e futuro. Incontrai Ernesto Pascale pochi mesi prima del suo «licenziamento». Se penso a certi manager di oggi la differenza è abissale: passammo una buona mezzora a discettare sui macchiaioli. Lui aveva passione per la pittura e firmava i suoi quadri come Paracelso. Lo presentavano come un boiardo, ma aveva costruito con la Stet la più moderna compagnia di telecomunicazioni d'Europa. La verità è che aveva carattere d'acciaio e intelletto fino, modi garbati a contrasto con la sua figura erculea e però aveva una certa ritrosia a «obbedire agli ordini». Per questo Prodi lo odiava e fece da premier ciò che non gli era riuscito da presidente dell'Iri: licenziò Pascale per distruggere definitivamente la Stet. Che significava far arretrare il Paese di vent'anni. Curioso no? Prodi che ogni piè sospinto parla di innovazione! In quell'intervista Pascale mi confessò che si sentiva un po' come il suo maestro Biagio Agnes (il creatore della Rai): giubilato in vita. E aveva un grande rimpianto: «Ora spazzeranno via tutto, compreso Socrate». 


Socrate era il progetto di cablaggio di tutta Italia con fibra ottica: Pascale lo aveva messo a punto con il Cselt, il centro di ricerca sulle telecomunicazioni che tutta Europa ci invidiava. Ed è stato forse il primo motivo del suo licenziamento. Agnes lo aveva avvertito: «Te la faranno pagare». Perché Pascale un errore l'aveva fatto: si era messo in proprio nel dialogo con l'Italia. 


Quando nel 1992 la Sip, che era la proprietaria dei telefoni, viene fusa con Italcable e Telespazio e la Stet, da sola finanziaria, diventa società operativa per favorire le privatizzazioni volute da Giuliano Amato per accontentare Beniamino Andreatta (che voleva entrare nell'euro ad ogni costo), Pascale, che trasloca da amministratore delegato di Sip alla medesima carica in Stet, pensa di chiudere il cerchio: produce dai telefoni alle idee per i telefoni e fa nascere Stream, la prima pay tv d'Italia. Il progetto del cablaggio serviva a connettere tutta Italia cercando di superare le infinite difficoltà che l'orografia del nostro Paese pone ai collegamenti.


Mi disse in quell'intervista: «Non so se Enrico Mattei abbia avuto la stessa sensazione, ma io ho provato a imitarlo». Mattei era stato chiamato per chiudere l'Eni, ma la rilanciò fino a farla diventare il contraltare delle sette sorelle. E così voleva fare Pascale: sapendo che volevano privatizzare lui provò a dimostrare che le telecomunicazioni pubbliche erano una risorsa tecnologica, economica e scientifica del Paese. Sottovalutando però una cosa. La classe politica era cambiata. E pure gli interessi esterni. Pascale peraltro controllava con Stet anche giornali e agenzie di stampa e governava su un impero da 14.000 miliardi di fatturato e 130.000 dipendenti. Ai tempi della prima presidenza Prodi ebbe uno scontro furibondo con il Professore, che voleva in tutti i modi controllare direttamente la telefonia e già pensava di venderla. Nel 1993, quando Prodi tornò alla presidenza dell'Iri, Pascale sapeva che ci sarebbe stata guerra: l'Olivetti aveva fatto nascere Omnitel e De Benedetti picchiava duro contro Stet. Quel giorno Pascale mi rimproverò bonariamente: «Sono quattro anni che il suo giornale (Repubblica, ndr) mi fa la guerra, ma almeno oggi deponiamo le armi». Poi arrivò un caffè e mi confidò: «Vuol sapere come va finire? Faranno un pacco regalo per gli amici e il Paese farà un balzo indietro di vent'anni. Ma diranno che è il futuro. Perché devono trovare i soldi per entrare nell'euro. Il tempo sta scadendo e si vendono l'argenteria. Ah, quando scende guardi se non hanno già cambiato la targa. Si chiamerà Telecom Italia». 


Da lì a qualche settimana Repubblica uscirà con il titolo «La madre di tutte le privatizzazioni». Romano Prodi, come preconizzato da Pascale, confeziona il pacchetto regalo e offre sul mercato azioni Telecom a 10.980 lire (6 euro) e tira su 13 miliardi di euro. L'idea è costituire la solita public company confidando però sul fatto che le famiglie del capitalismo italiano s'impegnino. Carlo Azeglio Ciampi è ministro del Tesoro e ha promesso che l'Italia avrà i requisiti per stare nell'euro: deve fare cassa. Tutti sperano che Mediobanca dia una mano. Ma a conti fatti gli Agnelli, con l'Ifil, comprano un misero 0,60%. Il «nocciolino duro» è troppo fragile per governare una società che tutti hanno interpretato come la gallina dalle uova d'oro. Macina utili, agisce ancora in monopolio, distribuisce un utile che con l'11% del fatturato, genera 7,5 milioni di risorse finanziare all'anno. Ma l'equilibrio non regge; in un anno la Telecom cambia tre presidenti: Guido Rossi, Gian Mario Rossignolo e Vito Gamberale e dopo otto mesi senza guida arriva Franco Bernabè


In quei mesi Colaninno prepara il piano. A Palazzo Chigi sale Massimo D'Alema. Colaninno, che ha preso in mano l'Olivetti dal 1996 (Carlo De Benedetti resta maggiore azionista fino al 1998),  lancia un'Opa sulla totalità del capitale Telecom per 102.000 miliardi di lire. Parte di quei soldi li trova vendendo Omnitel e Infostrada a Mannesmann, il che vuol dire privare l'Italia di due asset strategici.


Ad ogni modo Colaninno ha in mano un assegno in bianco da 60 miliardi di euro di alcune banche. Bernabè organizza la resistenza cercando di fare una contro Opa con l'appoggio di Deutsche Telekom, ma all'assemblea degli azionisti che deve approvare il contropiano Palazzo Chigi (che aveva ancora una rilevante partecipazione di minoranza) non si presenta. Proverà Draghi a fermare l'operazione, ma anche lui viene battuto. Franco Bernabè scrive anche ai dipendenti avvertendoli che Telecom sarà comprata indebitandola e che il futuro si presenta incerto, ma alla fine Colaninno la spunta. 


L'Italia entrerà nell'euro e questo è quello che interessava alla politica. Allo Stato non arriveranno altri soldi, ma ora sono affari dei privati. E infatti Colaninno farà un sacco di quattrini. Per comprarsi tutta la società indebita Telecom e attraverso Olivetti la controlla. Poi concentra il controllo di Olivetti in un'altra società: la Bell. Sarà questa piramide a consentire nel 2001 (quando a Palazzo Chigi torna Silvio Berlusconi) a Marco Tronchetti Provera di impadronirsi di Telecom comprando meno del 10% delle azioni. La vita di Telecom da quel momento sarà un vorticoso giro di scatole cinesi. Diventerà il bancomat del capitalismo italiano. E l'ora giusta per parlarne resta quella del tramonto.  

(Fonte: https://www.laverita.info/cosi-i-predoni-rossi-si-papparono-telecom-2600488636.html)


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