Difendere l’Italia - 1 di 3

Difendere l’Italia - 1 di 3

Salclem2
Ida Magli (1925-2016)

DIFENDERE L’ITALIAIda Magli (estratti)


copertina del libro


Capitolo 1. Dobbiamo accettare la distruzione dell’Europa?

Le speranze della scienza

La crisi attuale in realtà non è una «crisi». Si tratta, invece, del crollo di tutti i presupposti, quelli espliciti e consapevoli, ma soprattutto quelli impliciti, inespressi, sconosciuti alla maggior parte della popolazione, sui quali il sistema sociale e politico è stato fondato fino ad oggi. Un brevissimo sguardo su questi presupposti permetterà di rendersi conto facilmente di che cosa stiamo parlando e del fatto che nulla è recuperabile in Italia e in Europa di ciò su cui si reggeva il potere «democratico». Lo scrivo fra virgolette per segnalare ai lettori, come ha spiegato Gaston Bachelard nella sua Epistemologia,(1) che è cambiato il livello di comprensione di un concetto, ossia che il concetto di «democrazia», apparentemente tanto ovvio nella sua positività, lo dobbiamo assumere invece in forma critica per riuscire a individuare quale ruolo svolga nella decomposizione sociale in cui stiamo vivendo.

Ma a quale scopo questo sforzo di analisi e di approfondimento? Ebbene, anche se io sono convinta, come molti altri pensatori, che per la civiltà dell’Occidente sia giunta l’ora della fine, tanto da aver cercato di dimostrarlo nel libro pubblicato soltanto un anno fa e intitolato appositamente Dopo l’Occidente,(2) tuttavia è stata forse l’angoscia, l’eccesso di disperazione nel quale mi ha fatto sprofondare questa convinzione, a suscitare dentro di me tumulti di ribellione. Mi sono apparse così, all’improvviso, possibili vie di salvezza, complicati ma entusiasmanti progetti di resurrezione, folli sogni ad occhi aperti che però avrebbero potuto diventare realtà.

È stato in uno di questi momenti di abbandono alla speranza che mi è tornata vivissima alla memoria un’angosciosa domanda di Husserl: «Dobbiamo accettare il tramonto dell’Occidente come se si trattasse di una fatalità, di un destino che ci sovrasta?». È una frase che si trova nel saggio

L’idea di Europa,(3) uno degli innumerevoli libri che ho letto in questi lunghi anni di battaglia contro l’unificazione europea e che non mi sono serviti a nulla perché gli ideatori e costruttori dell’Ue – economisti, banchieri, politici – sono stati attentissimi a non lasciare aperto neanche uno spiraglio in cui potesse prendere piede il pensiero critico, la riflessione filosofica, o anche soltanto un dubbio. Eppure lo sconsolato interrogativo di Husserl mi è servito più di quanto non potessi immaginare perché mi è sembrato subito falso, sbagliato. La sua ricostruzione della storia filosofica d’Europa mi è apparsa vecchia, inutile perché ignorava le scienze umane, la ricchezza del sapere sviluppatosi dall’Illuminismo e che ne ha trasformato le certezze in un tipo di certezza del tutto diverso e questa volta davvero determinante: la scoperta che la strada del sapere non è mai «certa» perché la scienza cresce su se stessa mettendo continuamente in dubbio ciò che già sa, e la scoperta che l’Uomo come «universale», cui si riferiscono i filosofi, non esiste. È questo il dato fondamentale dell’antropologia che ha spiazzato il sapere aristotelico e quello teologico. L’uomo è «uomo», appartiene alla specie umana in quanto parla (è la parola il carattere distintivo della specie umana) e parla soltanto se sente parlare. Un certo numero di cosiddetti «sordomuti» è stato sempre presente in ogni società (l’incidenza statistica di questo gravissimo difetto genetico è quasi uguale ovunque) ma non si pensava che fossero muti perché non sentivano e anzi si associava di solito anche un certo deficit intellettuale a questo handicap. La situazione è cambiata da quando, intorno agli anni 1970- 80, ingegneri e chirurghi otorinolaringoiatri hanno messo a punto la tecnica dell’impianto cocleare con la quale si fanno giungere all’area acustica cerebrale di chi nasce sordo (dall’1 al 2 per mille in tutto il mondo) attraverso stimoli elettrici dei suoni significativi permettendogli così anche di acquisire la parola. L’impianto però deve essere eseguito il più presto possibile dalla nascita per ottenere l’attivazione della parola perché, passato il primo anno e mezzo di vita, il bambino sente ma ha difficoltà ad imparare a parlare. Questo dato ha comprovato in modo quasi sconvolgente (almeno per coloro che non vogliono arrendersi all’idea della caratterizzazione bioculturale della specie) che la natura ha affidato il linguaggio alla cultura.(4)

È un’affermazione ovvia, ma proprio perché ovvio, il linguaggio e le lingue non erano mai state studiate sotto questo aspetto fino alla nascita dell’Illuminismo e delle scienze umane. Alla straordinaria ricchezza che la conoscenza dei sistemi linguistici ha apportato al sapere sull’uomo, si sono aggiunti gli studi particolari che tutti gli antropologi hanno fatto con un amore straordinario, sia perché convinti che non si può capire nessun modello culturale se non se ne conosce la lingua, sia per il timore che sparissero, insieme ai piccoli gruppi in estinzione cui si erano avvicinati, anche le loro lingue. Franz Boas e Alfred Kroeber (solo per citare i più importanti) hanno dedicato quasi tutto il loro tempo a raccogliere frammenti di lingue, racconti mitici, ricordi di leggende, da ogni indigeno che trovavano sulla loro strada, nella speranza che dalla massa disordinata del materiale accumulato si potesse poi, analizzandolo col particolare metodo messo a punto dall’antropologia, ricostruire i sistemi sociali, le credenze, i costumi, gli affetti del particolare gruppo, degli individui che quella lingua avevano creato.(5) Si può affermare che tutte le conoscenze fondamentali sulle «strutture della parentela» che gli antropologi hanno accumulato, creando con questo argomento un settore specializzato della loro disciplina, sono scaturite dall’analisi del particolare termine con il quale ogni singolo individuo si rivolge, e deve rivolgersi, ad ognuno degli appartenenti alla propria famiglia, distinto per grado di consanguineità, per sesso, per acquisizione matrimoniale. Oggi abbiamo sotto gli occhi la prova di quanto il linguaggio sia strettamente collegato alle forme della società e le rispecchi, nella distruzione che l’Occidente sta mettendo in atto dei termini di base delle «strutture della parentela»: non più mamma, papà, zio, nonna ma genitore 1, genitore 2 e probabilmente nessun altro termine di parentela, ci si chiamerà per nome e basta… Questo dato sarà sufficiente all’antropologo di domani (ammesso che l’antropologia sopravviva) per dedurne che nell’Europa del Duemila si tendeva ad eliminare la collaborazione fra natura e cultura prevista dalla natura e a ostracizzarla dando luogo esclusivamente alle tecniche culturali per costituire gruppi pseudo-parentali senza legami di «sangue». E potrà anche essere sicuro così, questo antropologo, anche se non ne trovasse nessun’altra prova, di avere a che fare con una società omosessuale, l’unica che ha bisogno di distruggere il concetto di legame di sangue per potersi rappresentare come strutturata in «famiglia».

Si è aggiunta alla consapevolezza linguistica la scoperta antropologica della «cultura». Questo termine è oggi talmente inflazionato e corrotto dall’uso non scientifico che se ne fa quotidianamente, da aver perso la forza epistemologica che invece possiede, e che ha trasformato la visione del mondo in quasi tutte le discipline. Volendo riassumerlo in poche parole possiamo intendere per cultura un «insieme complesso di costumi, di linguaggio, di tecniche, di significati, di valori, che caratterizza un gruppo umano, circoscritto nel tempo e nello spazio». Un insieme complesso implica – e questo costituisce la forza epistemologica di una definizione apparentemente banale – l’interazione fra i vari tratti del comportamento, un’interazione che non può essere valutata facendo semplicemente la somma dei singoli elementi che la costituiscono perché si integra in una «forma» particolare cui diamo il nome di «modello culturale».(6)

I filosofi, e Husserl ne è sotto questo aspetto uno dei rappresentanti più ottusi anche se è in buona compagnia (per esempio Nietzsche), non hanno preso atto quasi per nulla del concetto di cultura e sono rimasti «fermi» all’idea di un Uomo universale (analogamente alla teologia), così come sono rimasti fermi, forse inconsapevolmente, al dubbio sulla «trascendenza» che nei loro ragionamenti non manca mai perché o esiste ed è al di là dell’uomo, oppure non esiste e di conseguenza ogni sapere sull’uomo e dell’uomo è inutile. Insomma i filosofi, anche quando si dichiarano atei, assolutamente nemici del sacro e di una qualsiasi divinità, non riescono a «pensare», a vivere la trascendenza dell’uomo come tale, senza un al di là, quasi fossero proprio loro, i filosofi, incapaci di pensare la filosofia come pura «filosofia».

Di fronte alle disgrazie dell’Europa, i filosofi perciò non hanno saputo far altro che rinserrarsi nella filosofia, per disperarsi e al tempo stesso consolarsi perché loro, i filosofi, stavano comunque al di fuori, e non sono stati capaci di apprezzare l’ampiezza di orizzonti che le scienze umane aprivano sull’Uomo. Fenomenologia religiosa, antropologia culturale, sociologia, etnologia, storia, psicologia, psicoanalisi, psichiatria: tutti strumenti per comprendere l’Io, il singolo uomo insieme al gruppo e attraverso il gruppo, e per comprendere i popoli altri come «altri», non rifiutando di soffrire con loro pur sapendo che in realtà ci è impossibile «comprenderli».(7) Tutte le discipline dovevano quindi essere ripensate e ricostruite con al centro la «cultura», questo modo nuovo di concettualizzare l’ambiente in cui l’uomo vive e che è già manipolato dall’uomo fin dal primo momento in cui il neonato riesce a percepirlo intorno a sé perché possiede un nome, il nome che gli uomini gli hanno dato, culturalizzandolo, umanizzandolo. La stella, infatti, non è la stella, ma ciò cui ho dato il nome di «stella». Si può dire, tanto per fare un solo esempio del nuovo quadro delle scienze nato dal concetto di cultura, che tutto quanto l’archeoastronomia ha scoperto sull’«orientamento» degli antichi edifici è la prova più sicura di questo assunto, anche se si tratta di conoscenze che possediamo soltanto da pochi anni.(8) Senza l’antropologia, senza il concetto di «cultura» come totalità dell’ambiente pensato e creato dall’uomo, probabilmente gli astrofisici non sarebbero stati spinti a «curiosare» sul rapporto concreto, tanto concreto da poterlo misurare, dell’uomo con le stelle, con una determinata stella.

Malgrado tutte queste amare riflessioni sull’ottusa ignoranza e brutalità dei governanti che hanno cancellato le scienze umane dall’orizzonte dell’Europa per poterla uccidere, lo sconsolato interrogativo di Husserl è risuonato fortissimo dentro di me suscitando un’immediata risposta: no, no, qualche cosa si deve fare, qualche idea di salvezza la dobbiamo lanciare nel terribile mare di spietata contabilità creato dai banchieri e che ingoia tutto ciò che dà senso e valore all’umano. Dovremo pur rendere conto ai nostri figli e nipoti di non aver nemmeno tentato di reagire; di esserci lasciati calpestare come vermi, sprofondati in una totale vigliaccheria, senza neppure un urlo di rivolta. Qualcosa dobbiamo proporla, almeno per lasciare la testimonianza della consapevolezza, quella consapevolezza che è appunto, come ha affermato con forza Hans-Georg Gadamer, il carattere costitutivo della civiltà occidentale: «È qui e soltanto qui che è avvenuta la più importante delle rivoluzioni, l’apparizione di una presa di coscienza storica. Per coscienza storica intendiamo il privilegio dell’uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività delle opinioni… Avere senso storico significa pensare espressamente all’orizzonte storico che è coestensivo alla vita che noi viviamo e che abbiamo vissuta».(9)

Morire con le armi in pugno era la speranza degli eroi greci, la certezza degli eserciti romani, il grido appassionato dei patrioti risorgimentali. Oggi che tutto questo è stato quasi completamente dimenticato, o addirittura guardato, se non con disprezzo, con il distacco di una totale incomprensione, appare davvero assurdo sperare in un soprassalto di vitalità. Eppure è così. Bisogna tentare a tutti i costi di reagire all’omicidio-suicidio che, per la prima volta nella storia, viene compiuto non da nemici su un popolo vinto, ma dai suoi stessi capi, dai responsabili della sua esistenza. La vigliaccheria è sempre disgustosa, intollerabile; ma lo è incomparabilmente di più quando si configura come l’accettazione, anzi la collaborazione, da parte di coloro che comandano, del tradimento verso i propri sudditi. Non si riesce neanche a crederlo che siano proprio quelli che hanno il dovere di assicurare il presente e il futuro della Nazione, a cooperare invece alla sua fine. Perfino quel «Quoque tu, Brute?» che risuona da tanti secoli come il più tragico grido di incredulità e di dolore che sia stato mai lanciato nella storia davanti al tradimento, appare «nullo» oggi di fronte a ciò che ci sta accadendo. Non è una congiura di pochi contro un capo, di un figlio contro il padre, una congiura che non vede altra via d’uscita che l’assassinio: sono i padri, i capi, che hanno congiurato per giungere all’assassinio dei figli, dei nipoti.

Fa parte di questo tradimento, ma appare tuttavia sorprendente, nel silenzio che i potenti hanno conservato sui suicidi di questi anni, mai avvenuti con tanta frequenza in Italia, il silenzio della Chiesa. È un silenzio traditore sotto due aspetti: la mancanza della denuncia nei confronti dei politici che inducono, quasi costringono con le loro leggi alla disperazione e al suicidio i propri sudditi. Ha trovato il coraggio di farla qualche laico, questa denuncia, presentando esposti alle Procure della Repubblica per istigazione al suicidio contro il capo del governo, Mario Monti,(10) come mai non l’ha trovato la Chiesa? Ma soprattutto la mancanza – questa davvero la più grave e quasi non credibile – da parte dei sacerdoti del richiamo alla «speranza», virtù evangelica per eccellenza, che vieta il suicidio ai credenti. Lo vieta perché «essere uomini», sapere di poter pensare, capire, vedere, sentire, amare, soffrire, odiando la morte, è di per sé il fatto più bello che esista. Fa parte della creazione, della bellezza del mare, delle montagne, degli astri, dei colori, dei fiori, dei suoni… fa parte del mondo guardato con gli occhi dei poeti, con gli occhi d’amore di quello straordinario poeta che era Gesù di Nazaret. Speranza! Parola, sentimento bellissimo, che è sparito dall’orizzonte nel quale siamo stati rinchiusi, così come ne è sparita la bellezza.


La Terza guerra mondiale

È il vedere quanto sia orrido il mondo nel quale i governanti ci hanno costretto a vivere, però, che non può non suscitare una reazione di rabbia.

Rabbia! Un’irrefrenabile rabbia deve spingere almeno a smascherare i traditori, a consegnarne i nomi alla storia. L’Occidente non è morto di morte naturale, consumato dall’inevitabilità dei cicli storici. Si è trattato di un genocidio, di un’uccisione compiuta deliberatamente dai suoi capi politici, dai suoi capi religiosi, in una forma tanto perversa da non essere mai stata pensata prima nella storia: l’Europa è stata spinta ad uccidersi. Tutto questo nel silenzio più assoluto. Nessuno ha parlato: né giornalisti, né sacerdoti, né intellettuali. Questa è forse la cosa più incomprensibile e più disperante: nessun intellettuale ha reagito facendo sentire la propria voce. Non ci sono più «intellettuali» – poeti, musicisti, artisti – in Europa, in Italia? Sembrerebbe impossibile; ma il fatto che non abbiano parlato proprio in una situazione nella quale soltanto loro sarebbero stati in grado di spiegare ai popoli le trame complicatissime di un progetto non «pensabile», non «credibile», quale quello della distruzione degli Stati e delle genti europee, è la prova ultima della morte imminente della nostra civiltà.

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Su questo punto ci fu il consenso di tutti i convegnisti e non mi fu difficile perciò giungere ad analizzare nella sua essenza «bellica» la profonda distruttività insita nell’unificazione europea, e a dimostrare che quella che stiamo subendo da parte dei nostri governanti è una vera guerra, la Terza guerra mondiale. Una guerra atroce, anche se per ora non si vede scorrere altro sangue se non quello dei suicidi, e che annienta le possibilità di vita più della guerra atomica (dalla quale gli uomini, i giapponesi, sono stati capaci di risorgere) perché è una guerra che vuole essere «finale», una guerra che vuole – e realizza – prima della distruzione fisica degli individui che ne sono i portatori, la distruzione della civiltà, della cultura, della storia d’Europa.

Una guerra, dunque, che io definisco «terza» proprio perché conto, denunciandola, che molti vi si oppongano impedendole di diventare «finale».

Questa Terza guerra mondiale è segreta, silenziosa, paralizzante come gas nervino, ed è già penetrata ovunque, senza essere stata dichiarata da nessuno perché i nemici sono i nostri stessi governanti, o meglio coloro di cui non conosciamo il nome ma che, nascosti dietro ai governanti, misteriosamente li dirigono. È stata messa in atto una violenza mentale di tipo nuovo, pur nella lunghissima storia delle violenze ideologiche, perché soffoca con le corde invisibili di un’assoluta pseudo-logica ogni possibile reazione dei sudditi. È soltanto quando non c’è più nessuno che osi ancora «pensare», infatti, che osi ancora credere, avere fiducia nel proprio sistema logico perché è quello dell’Uomo in quanto uomo, al di là dell’imposizione mentale dei potenti, che i popoli crollano. S’instaura, allora, una forma di delirio che, partendo dal gruppo direttivo, diventa collettivo, un delirio ben descritto da Georges Devereux presso le popolazioni etnologiche,(11) ma che possiamo almeno in parte riconoscere anche in molti fenomeni verificatisi prima d’oggi in diversi periodi del passato nella storia d’Europa.

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Il Laboratorio per la Distruzione

Un centro operativo, che chiamo «Laboratorio per la Distruzione» (Lpd per gli amanti delle sigle), esiste sicuramente, anche se non sappiamo dove sia collocato e quali siano gli uomini che vi lavorano. Se ne ha la prova nella sistematicità logica con la quale viene condotta, nei vari campi sociali, culturali e politici, la Terza guerra mondiale.

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Come dicevo, però, all’inizio degli anni Novanta le scienze umane sono state fatte sparire dall’orizzonte dell’informazione di massa, semplicemente con il silenzio, non parlandone più. All’improvviso i giornalisti hanno smesso di intervistare, come era diventato di prammatica per ogni fatto di cronaca, uno dei tecnici alla moda in questo campo; nessuno ha più dato rilievo alla pubblicazione di qualche nuova scoperta o qualche nuovo saggio degli autori più famosi. A stento è stata data la notizia nel 2009 della morte di Lévi- Strauss, l’autore del quale si erano nutrite generazioni intere di femministe, le stesse che adesso sono arrivate a posti di potere nel giornalismo, nella politica, ovunque. Dato l’enorme entusiasmo che le scienze umane avevano suscitato nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale fino presso a poco agli anni Novanta, il fatto che nessuno abbia fatto rilevare questa sparizione sarebbe «strano» se non rappresentasse la conferma che la sparizione è stata voluta. Le cattedre ovviamente sussistono, ma le loro scienze non fanno più notizia. Lo Stato, inoltre, è generosissimo nel fornire ai propri sudditi l’assistenza di psicologhe (la femminilizzazione delle professioni, come vedremo nei prossimi capitoli, ha un preciso significato), figure fisse, insieme agli insegnanti e ai medici, in tutte le scuole, nei tribunali, nelle Asl, ma si tratta di un servizio privo di risvolti critici. Come è noto, anzi, psicologia e psicoanalisi sono funzionali al mantenimento pacifico della società perché ricercano e trovano sempre all’interno dell’individuo le cause del suo malessere.

Contemporaneamente sono state eliminate dalle scuole, per ordine dell’Ue, antiche, nobilissime ed essenziali discipline come la geografia, la letteratura latina e greca con le lingue corrispondenti, riducendole tutte a fantasmi, innocui brandelli di un sapere inesistente. Perfino la storia, privata di tutti i contributi metodologici di cui l’epoca moderna l’aveva arricchita, sembra diventata un residuo d’altri tempi, impotente a dare agli uomini quella consapevolezza di se stessi che ne è (o dovrebbe essere) il frutto principale, conquista fondamentale della civiltà europea. Anche questo è stato deciso e messo in atto nel più completo silenzio. Sembra di vivere in una società di analfabeti, dove nessuno è in grado di valutare e di esprimere un giudizio su simili provvedimenti. Eppure anche soltanto il corpo insegnanti italiano (ma il decreto riguarda tutte le scuole dell’Ue) è costituito da circa un milione di persone. Come mai non hanno protestato, non hanno espresso e comunicato almeno ai giornali il loro parere su una decisione così grave? Di fatto i governanti, provvedendo a educare tutti con le scuole di Stato, hanno dettato anche il tipo di insegnamento cui i sudditi debbono essere sottoposti, tipo d’insegnamento che possiamo riassumere nel dato che segue: gli studenti debbono studiare in modo da non imparare nulla, o quasi nulla. Per prima cosa non debbono imparare a «pensare», a che cosa serva «pensare», a che cosa serva «conoscere»; di conseguenza, debbono imparare tutto senza imparare nulla su di sé, sulla propria vita, sul proprio ambiente, sul proprio gruppo, sulla propria storia, sulle istituzioni e sul potere che le regge, attuale o passato che sia. Sembra evidente che tutto questo sia stato programmato in vista dell’ideologia di chi comanda in Europa, o almeno di quello che si suppone sia questa ideologia: l’omogeneizzazione mondiale, la formazione di persone tutte uguali: i «cittadini del mondo».

È obbligatorio, pertanto, insegnare ai ragazzi quale sia la verità sul sesso stabilita dal Potere. Non quella che il bambino vede, sente, tocca su di sé da quando è nato, quella della natura che ha fornito il pene e l’utero per la prosecuzione della specie, Dna diversi fra maschi e femmine, così come ha fornito gli occhi per vedere, i polmoni per respirare, ma quella del gender (termine che non viene mai tradotto vista la sua ambiguità). Che poi è ovviamente quella imposta dagli omosessuali «maschi» e che proprio in questi giorni l’Italia ha approvato: si è maschi o femmine, o anche trans, se l’individuo crede o pensa o desidera, o «sente» di esserlo. Il Consiglio d’Europa, come abbiamo visto, ha fornito la traccia obbligatoria per tutti. Al Policlinico di Bari si effettuano cambiamenti di sesso con 170.000 euro a intervento forniti dalla Regione Puglia (il cui presidente Nichi Vendola non ha mai nascosto la sua omosessualità), stanziamento che naturalmente serve a incrementarli. Perché si vogliono rendere più frequenti e «normalizzare» i cambiamenti di sesso caricandone la spesa sulle spalle della società? La spiegazione va cercata nel loro desiderio di integrazione (cosa che vedremo meglio più avanti). Le tecniche chirurgiche odierne facilitano questo scopo, anche se si tratta di operazioni di per sé molto complesse, e che lasciano sempre, o quasi sempre, conseguenze negative fisiche e psicologiche.

Una cosa, però, la si può dedurre con sicurezza da questi comportamenti e deve apparire chiara a tutti: nella direzione di senso impressa all’Europa dal Laboratorio per la Distruzione l’uguaglianza finale non sarà soltanto quella delle idee, della lingua, della religione, della Patria, ma anche fisica.

L’uguaglianza che si persegue, però, è il più possibile «indistinta», di cui il modello è il «trans», in cui in apparenza è il maschio che assume qualche tratto di femminilità, ma di fatto non lo «aggiunge», non lo «somma» alla virilità perché, come l’opinione popolare ha sempre pensato, il maschio, pur quando continua a possedere e a far funzionare il pene, di fatto non è più «maschio» e non è «femmina». Insomma nella natura le forme ambigue sono errori e la cultura ha sempre cercato di correggere gli errori della natura o di evitarli. È soltanto in questo modo, infatti, che ha potuto sviluppare la scienza e la tecnica. L’omosessuale presenta già comportamenti «ambigui» dal punto di vista della mascolinità culturale: il «trans» li fissa fisicamente oltre che culturalmente, anche se ha bisogno della cultura per riuscirci. Quello che abbiamo davanti oggi, dunque, in Occidente, è il mondo della non-forma che pretende di diventare modello prevalente sulla forma. È ciò cui tende il Laboratorio per la Distruzione: nulla è più debole della nonforma. Come è ovvio, sul grigio cui si sta riducendo l’Europa, debolissimo di per sé, vincerà il «nero».

Si tratta, dunque, di preparare i giovani a non appartenere a nulla, a non identificarsi in nulla, a non sapere orientarsi sessualmente ma anche geograficamente, come è stato affermato con semplicità eliminando la geografia dagli insegnamenti scolastici: a che servirebbe visto che il pianeta appartiene a tutti? Perfino della psichiatria e del problema dei malati di mente, di cui si era discusso in Italia con grande passione dal ’68 in poi a causa delle teorie di Franco Basaglia sulla necessità di chiudere i manicomi e di liberare i pazienti da una vita presso a poco carceraria, adesso non si sente più parlare. Non esistono più malati di mente? Come si curano? Come se la cavano i parenti nell’assisterli? Non lo sappiamo. È evidente che l’informazione in proposito è stata messa a tacere.

Ci sono del resto molti altri argomenti, fino a poco tempo fa all’ordine del giorno nell’interesse dei mezzi di comunicazione di massa e dell’attenzione degli italiani, sui quali è sceso un assoluto silenzio per motivi che non è difficile comprendere e interpretare dal punto di vista della «direzione di senso» impressa all’Europa dal Laboratorio per la Distruzione. Si possono citare, fra questi, i trapianti d’organo, trionfo della possibilità d’uguaglianza fisica, riguardo ai quali sembrerebbe non esista alcun problema. Non si parla più né della tesserina di cui si diceva che ogni cittadino sarebbe stato fornito, corrispondente ad un preciso elenco nelle Asl, né del consenso espresso esplicitamente alla donazione. Sembra a dir poco strano che tutto funzioni bene in un’organizzazione così complessa e problematica come quella dei trapianti in un Paese come l’Italia dove non facciamo altro che lamentarci delle carenze organizzative in ogni campo e dove è altrettanto strano che non se ne parli, esaltandolo, nel caso il sistema dei trapianti fosse davvero un’eccellenza. Del resto non si parla mai neanche dei crimini connessi alla «fame di organi» e all’orribile mercato che vi si è saldamente instaurato. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato ufficialmente l’esistenza di questo mercato, specificando che, per quanto riguarda i trapianti di rene, la compravendita accertata è di uno su dieci. Ma la realtà è molto più tragica. In Mozambico sembra sia frequente il rapimento dagli orfanotrofi di bambini che vengono smembrati per strappare gli organi. Questa denuncia è stata fatta qualche tempo fa da suore missionarie cattoliche che hanno scritto appositamente al Vaticano per denunciare la sottrazione di bambini dai loro istituti e il ritrovamento dei corpicini espiantati nei cassonetti della spazzatura. Ne ha parlato per due giorni «L’Osservatore Romano», quotidiano ufficiale dello Stato del Vaticano, ma poi è sceso come al solito il silenzio. La «notizia» che due cittadini francesi e un italiano sono stati linciati dalla folla nel Madagascar perché riconosciuti come trafficanti di organi è sparita l’indomani dai quotidiani senza che venisse data nessuna ulteriore informazione. Non c’erano prove, si è detto, che fossero veramente trafficanti di organi e la rabbia della folla è stata suscitata dal ritrovamento del corpo di un bambino di otto anni con delle orride mutilazioni perché in Madagascar i bambini sono sacri. Rimane il fatto, però, che se la popolazione si è convinta che si trattava di trafficanti di organi al punto di ucciderli pur non avendone le prove, significa che questo è un argomento all’ordine del giorno e che di traffico di organi ve ne deve essere molto. Erano i giorni dell’immenso lamento funebre per i morti nello sbarco a Lampedusa, quelli per i quali il Papa ha gridato, insieme a Capi di Stato e Capi di governo piangenti e sdegnati: «Vergogna!» Vergognati tu, Papa, vergognatevi voi, governanti, della vostra complicità con il silenzio nel crimine più orrendo che gli uomini abbiano mai commesso.

Il silenzio sul mercato di organi è dovuto naturalmente, oltre al fatto che è proibito ovunque dalla legge, al suo aspetto più grave: l’indispensabile coinvolgimento di professionisti di cui non piace pensare che siano dei terribili criminali. Espianto ed impianto richiedono necessariamente: ambienti sterili, strumentazione apposita, chirurghi, anestesisti, infermieri. Di costoro non si parla mai né, almeno che io sappia, è stato mai processato nessuno per trapianti illegali. Non si parla mai, del resto, almeno a livello d’informazione nei giornali, neanche dei risultati di questa «tecnica», salvo per casi eccezionali, come si fa invece doverosamente per ogni campo della scienza medica. Le statistiche (che si può supporre vengano normalmente stilate) non compaiono nei mezzi di comunicazione di massa. I fallimenti sono numerosi, ma i giornalisti si sono resi conto ormai da tempo che dei trapianti conviene non parlare, né nel bene né nel male, così da farli dimenticare del tutto come avviene per ciò che è normale e quotidiano. Altrimenti potrebbero venire alla luce i gravissimi problemi che i trapianti hanno portato con sé, problemi di etica professionale per i medici, problemi che implicano la responsabilità nei confronti della società come la moltiplicazione di malattie genetiche dovuta alla procreazione da parte di persone che sono sopravvissute con il trapianto e che non si fanno scrupolo di mettere al mondo figli con la loro stessa malattia e pertanto bisognosi anch’essi di trapianto (cosa molto frequente nelle patologie cardiache). Insomma i «trapianti» sono l’emblema della società degli «uguali». Sono perciò protetti da tutti e in ogni modo possibile, ma per prima cosa con la tecnica del «silenzio» su ciò che potrebbe risvegliare qualche dubbio, qualche soprassalto critico perfino nella massa degli «informi». Gli agenti della Terza guerra mondiale hanno scelto, con il silenzio, il sistema più astuto per tenere tranquillo un mondo come il nostro che è convinto di essere informatissimo e che anzi la sua virtù principale sia appunto quella di un’assoluta libertà d’informazione.

(...)

Dunque oggi, in base alle certezze inculcate dai governanti e dal Laboratorio per la Distruzione, si è giunti alla convinzione che saremo veramente liberi soltanto quando non possederemo più nulla di ciò che definisce e caratterizza la vita di ogni essere umano e di ogni popolo: la propria identità, il proprio territorio, la propria lingua, il proprio gruppo, la propria storia. È questo, perciò, l’aspetto più evidente della Terza guerra: il ribaltamento del sistema logico. Se ogni individuo sa, come tutti gli uomini sanno con assoluta certezza da tempo immemorabile, quale sia la fragilità di una specie che la natura ha affidato completamente alle sue capacità cerebrali e alla formazione di un gruppo per poter vivere, o meglio per poter parlare, è folle e stupido convincersi del contrario. Così pure: ogni uomo sa che sarebbe vissuto malissimo se non avesse avuto accanto a sé una madre la cui voce riusciva a calmarlo fin dal suo primo pianto perché ne riconosceva il suono già a lungo sentito nel silenzio ovattato dell’utero; ogni uomo sa che sarebbe vissuto malissimo se non avesse avuto un luogo suo sul quale aprire per la prima volta gli occhi e riconoscerne l’orizzonte; se non avesse avuto dei familiari intorno a sé che l’hanno aiutato a vivere fino a quando non è stato in grado di provvedere a se stesso; se non avesse avuto e non avesse anche da adulto una società con la quale condividere la lingua, la forma mentis, i costumi, i valori, gli ideali, le speranze; entro la quale poter ridere, scherzare, giocare, insomma «fidarsi». Del resto lo stesso uomo sa anche che la solidarietà è un’eccezione e che la gelosia, l’invidia, l’egoismo, l’aggressività, sono la norma e sempre pronti a scatenarsi contro di lui. Com’è possibile che adesso debba credere l’opposto? Che starà benissimo soltanto quando non possederà nulla di ciò che fino adesso gli è sembrato indispensabile e positivo? Che i miliardi di persone sconosciute che affollano il pianeta saranno sempre solidali con lui e che lui deve fidarsene?

Fa parte delle nuove armi della Terza guerra mondiale diffondere queste convinzioni illogiche e deliranti, ma gli italiani, pur accorgendosi di vivere già adesso con estremo disagio anche nel proprio ambiente di cui percepiscono una nuova ostilità, non riescono a individuare come azioni di guerra tutto ciò che viene deciso contro di loro. È il concetto di «guerra» che glielo impedisce perché implica (ha sempre implicato fino ad oggi) l’azione di un «nemico» o di uno straniero come nemico. Eppure questa nuova, strana «guerra» interna al gruppo, la si vede proiettata chiaramente negli spettacoli cinematografici e televisivi che sono ormai quasi tutti centrati sul «giallo». Appena si preme il telecomando si viene aggrediti da qualcuno con la pistola in pugno. È per questo che tutti l’hanno sempre in mano e non la possono abbandonare: i «nemici» siamo noi. Quando la «guerra» era la guerra con gli stranieri, le armi in tempo di pace si appendevano al chiodo, le porte del tempio rimanevano chiuse. Adesso bisogna invece averle sempre pronte: i «nemici» sono quelli di casa, quelli del marciapiede di fronte o del portone accanto, quelli del posto di lavoro, negozio, fabbrica, ufficio, e i generali, i capi di Stato maggiore sono i detectives, gli ispettori e le ispettrici di polizia, i quali vincono sempre la singola battaglia (il singolo episodio) perché è ovvio che la guerra, questa guerra, non finisce, non può finire. È talmente assolutizzata l’idea che l’unica guerra possibile e lecita è quella interna al gruppo, che il maggior numero di programmi televisivi è fondato sulle battaglie degli ispettori di polizia. L’ispettore di polizia sembra che debba essere ormai l’eroe-ideale, l’unico tipo di riferimento proposto alla nostra società. Passiamo dal commissario Cordier a Colombo a Derrick per non parlare del fedelissimo cane-commissario Rex.

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Eppure non si riusciva a vedere il centro del problema, ossia che il nemico era in casa, che gli ordini per l’uccisione degli italiani venivano dai dirigenti, dai capi, dai governanti; che la sfrenatezza sessuale era incitata, voluta, immessa come un virus contagioso nella società per affrettarne la fine. Spettacoli, pubblicità, moda femminile, omosessualità con tutte le sue varianti: il discorso sul sesso, l’invito al sesso è onnipresente, e ha eliminato qualsiasi differenza. Il Consiglio d’Europa si è preoccupato di mandare a tutte le Nazioni dell’Ue le linee guida per spiegare a ogni cittadino d’Europa, nelle scuole e fuori dalle scuole, che cosa siano, come debbano essere chiamati, quali diritti abbiano i Lgbt, ossia lesbiche, omosessuali, trans.

Adesso però che la fine è vicina, si sente il bisogno almeno di parlare, di rivelare che l’avvento dei banchieri è intollerabile a tanti, anche se è vietato lamentarsene. In un’Europa che si vanta di aver eliminato la condanna a morte per qualsiasi individuo, anche se reo dei più gravi delitti, quale giustificazione potremo avere per avere accettato in totale silenzio ed obbedienza che fossero condannati a morte i popoli? Non avevano saldato il debito con i banchieri? Questo, infatti, è stato affermato, ed anche se viceversa le sue cause sono così numerose e complesse che quasi nessuno osa parlarne, è certo tuttavia che sono stati i banchieri ad innescare la miccia della fine. Sì, sono stati i banchieri, ed anche questo fatto testimonia l’incongruità di ciò che sta succedendo. Forse non ci eravamo accorti di essere nelle mani dei banchieri fino a quando non abbiamo visto le corde con le quali ci stavano impiccando. Non ce n’eravamo accorti proprio per l’abisso che separa la civiltà dell’Europa, la civiltà del pensiero, del diritto, della scienza, della musica, dell’arte, dagli adoratori del denaro.


L’eliminazione dell’Europa

È stato facile. Troppo, troppo facile. Hanno in mano l’arma assoluta, la creazione del denaro, e l’hanno usata con la spietatezza, non di chi minaccia, non di chi vuole intimorire, ma di chi vuole distruggere l’Europa.

Era il loro scopo fin dal primo momento, fin da quando hanno cominciato a fingere di costruirla. Nel momento stesso in cui è stata decisa la Comunità economica europea, è cominciata la distruzione. Distruzione dei prodotti particolari, specifici dei singoli Paesi, e distruzione dei popoli particolari, delle singole Nazioni. La parola «comunità» è stata usata dolosamente, non nell’accezione antica e cara ai popoli, per indicare l’«insieme» politico e solidale di un gruppo fedele ai propri connotati di origine, ma in quella comunista dove si annientano le differenze. Con la motivazione che si trattava di «omologare il mercato» abbiamo assistito, troppo stupiti per renderci davvero conto di quello che stava succedendo, allo sterminio delle nostre migliori mucche, all’eliminazione di montagne delle nostre splendide arance, e simultaneamente, con l’abbattimento dei confini e l’invasione di immigrati, non soltanto dall’Est dell’Europa ma anche e soprattutto africani e mediorientali, alla cancellazione dell’identità italiana ed europea.

Testimonianza irrefutabile di quello che sembrava follia e che invece era realtà: così come le mucche e le arance, anche i popoli d’Europa dovevano essere omologati e distrutti.

Ma dobbiamo guardare anche ad avvenimenti precedenti l’istituzione della Comunità europea, per capire davvero quello che è successo e che sta succedendo. È stato con la fine della Prima guerra mondiale che il progetto distruttore ha preso forma, con la costituzione della Società delle Nazioni, che si trasformerà in Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) dopo la Seconda guerra mondiale. Lo scopo da raggiungere, quindi, un nuovo ordine mondiale e un governo mondiale, era già chiaro da molto tempo. I più importanti rappresentanti dei Paesi alleati vincitori del conflitto e di quelli neutrali, tutti massoni, si erano riuniti a Parigi, nella sede massonica di rue Cadet nei giorni 28-30 giugno del 1917 per discutere dei problemi del dopoguerra, dei quali il più importante era naturalmente quello di trovare un mezzo per impedire lo scoppio di altri conflitti. Fu deciso allora qualcosa di molto diverso dal vecchio sistema dei trattati di alleanza fra gli Stati: i pochi signori che dirigono il mondo si sarebbero messi insieme di persona per realizzare un programma di «pace» fondato sull’eliminazione delle differenze e l’omologazione dei popoli. Il «piano», se vogliamo chiamarlo così, era diviso in due parti: la prima parte, non rivelata ai popoli, era il perseguimento della mondializzazione con un centro di governo unico. Conseguenza: per rendere possibile governare tutti i popoli nello stesso modo da un centro unico, bisogna che i popoli siano omogenei, con gli stessi bisogni, gli stessi desideri, e soprattutto il più possibile «passivi». Come fare per omogeneizzarli? Il sistema più efficiente è quello di mescolarli fra loro perché mescolandoli se ne disintegrano gli «elementi» fondativi(12) psicologici, culturali e, attraverso i rapporti sessuali e la procreazione, l’omogeneizzazione diventa genetica. La seconda parte consisteva nell’organizzazione dello strumento principale per «mescolare» i popoli: lo spostamento di enormi masse da un territorio all’altro, da una Nazione all’altra d’Europa. Il piano era dettato, con chiara evidenza, dalla certezza, da parte dei signori di rue Cadet, della propria onnipotenza e dal disprezzo assoluto verso le singole persone e verso i popoli, oggetti, esclusivamente oggetti, da spostare sul tavolo da gioco. Bisogna precisare, affinché non ci siano illusioni da parte di nessuno, che sono oggetti tutti, sia quelli obbligati a spostarsi, i cosiddetti «migranti», in perversa analogia con gli uccelli, sia quelli obbligati a rimanere fermi, subendo l’invasione. Rimaneva un punto, forse il più difficile da risolvere: gli uomini, tutti gli uomini, sia singoli individui che popoli, ritengono di essere diversi dagli altri individui e dagli altri popoli e, per omologarli, dobbiamo eliminare non soltanto le differenze concrete ma anche il sentimento di diversità. Dato che ci crediamo diversi perché siamo affezionati alla nostra famiglia, alla nostra terra, alla nostra lingua, alla nostra storia, alla nostra Patria, alla nostra moneta, alla nostra indipendenza, ai nostri capi, ai nostri compatrioti e riteniamo che questi affetti siano tanto importanti da combattere contro chiunque possa metterli a rischio, bisognerà cancellare questi sentimenti e queste appartenenze, fare del pianeta la terra di tutti cancellando dalla mente dei popoli i saperi pericolosi, cominciando da quello geografico in modo che nessuno sappia più se è italiano o congolese. Invece del mappamondo faremo una bella sfera, magari dipinta tutta di celeste, senza nessuna indicazione né di terre né di mari. Tutti saranno semplicemente «cittadini del mondo».

(...)

Il frutto di questa grande trovata è stato la nascita della Società delle Nazioni e l’inizio della Terza guerra mondiale: quella contro i popoli, contro le Nazioni, contro le identità. Gli strateghi però erano quasi tutti gli stessi responsabili del Trattato di Versailles che, con il suo intento punitivo nei confronti dei tedeschi e con le ingiustizie commesse verso gli alleati di minor peso, in primis l’Italia, aveva posto le condizioni per dare adito ai nuovi conflitti che sfoceranno nella Seconda guerra mondiale. Il brillantissimo progetto fu, perciò, necessariamente accantonato, anche se la Seconda guerra fu guidata dall’Inghilterra e soprattutto dagli Stati Uniti d’America in modo che alla fine l’Europa potesse essere plasmata secondo il progetto unificatore che non era ancora stato possibile realizzare. Fu, infatti, questo uno dei principali motivi per i quali Churchill non volle mai concedere un armistizio a Hitler sebbene gli fosse stato chiesto insistentemente più volte.(13) L’America a sua volta condusse bombardamenti distruttivi, spietati, contro gli uomini, contro la Cultura, contro la Storia, contro l’Arte, senza alcuna giustificazione strategica di carattere militare. Fu per questo che, con un terrificante bombardamento, la città di Dresda venne distrutta in ventiquattro ore insieme ai suoi abitanti e che fu abbattuto, suscitando l’orrore e lo sconforto del mondo intero, il centro più antico e sacro della cultura monastica, l’abbazia di Montecassino.

Uno scopo, quindi, c’era: cancellare per sempre la storia e la civiltà d’Europa, radendone il più possibile al suolo le testimonianze architettoniche e uccidendo il maggior numero dei suoi portatori-testimoni. Per questo la guerra non finiva mai. Si fermò soltanto quando non ci fu più nulla da distruggere e gli uomini furono ridotti a poche, misere larve spaurite in cerca soltanto di un rifugio dove nascondersi. L’America dichiarò allora, sganciando contemporaneamente l’atomica come firma inoppugnabile della sua dichiarazione, che l’Europa, insieme ai suoi nefandi figli, non esisteva più e che adesso, nell’uguaglianza universale, era lei la padrona del mondo. Il mondo sarebbe stato tutto uguale a lei.

Con le trattative per il nuovo assetto dell’Europa e con le truppe americane stanziate stabilmente in innumerevoli basi sparse ovunque, ma soprattutto nel Mediterraneo e sul territorio italiano, dal Veneto alla Toscana a Napoli alla Sicilia, il vecchio progetto mondialista era già a buon punto. C’era però un’aggiunta importante che ancora non era stata messa in luce: la «pace». Bisognava diffondere ovunque la convinzione che c’era una meta da raggiungere, un ideale da realizzare. Il processo dell’uguaglianza e dell’omogeneizzazione, al quale tutti dovevano lavorare con la massima alacrità, ne rappresentava soltanto lo strumento. Bisognava realizzare una «pace» essenziale, una pace non più intesa come uno stato di non-guerra, ma come un valore in se stesso. Una nuova «cultura», insomma, comune a tutti gli uomini e da perseguire da parte di tutti, popoli e governanti. Bisogna riconoscere che nessuno ha capito e utilizzato il concetto antropologico di «cultura» meglio degli operatori nascosti nel Laboratorio per la Distruzione. Senza il concetto antropologico di cultura il progetto della Terza guerra mondiale non avrebbe avuto senso.

La Società delle Nazioni, trasformatasi in Onu alla fine della guerra, si attrezzò per dirigere e sostenere questi scopi in maniera molto concreta ed efficiente, mettendo in atto diverse strutture esplicitamente di livello sovranazionale come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ma soprattutto impegnandosi ad eliminare ogni forma di «razzismo» e di «xenofobia». Questi sono i termini principali del nuovo Dizionario universale, gli unici «peccati» proclamati come tali per la coscienza degli uomini del Duemila: razzismo e xenofobia. La Chiesa si è accodata al codice laico e Bergoglio ha provveduto ad «accomodare» (il principio dell’«accomodamento», come vedremo, è il caposaldo dell’azione dei gesuiti) la gravità dei peccati, confortando divorziati e omosessuali: il sesso non sarà più lo spauracchio dei cattolici. Il vero, anzi unico metro di misura della cattolicità sarà l’«accoglienza».

Si trattava di una premessa alla volontà di spingere il più possibile le migrazioni da un Paese all’altro, essendo questa l’arma principale per giungere in breve tempo alla disintegrazione delle singole culture e all’abbattimento delle differenze fra i popoli. Non conosciamo i nomi di coloro che ci lavorano ma esiste sicuramente un centro direttivo, fornito di imponenti mezzi psicologici, propagandistici e finanziari, che sollecita e aiuta milioni di persone ad abbandonare il proprio Paese, l’Africa soprattutto, per dirigersi verso l’Italia e l’Europa. Contemporaneamente sono state date le istruzioni opportune a tutte le istituzioni politiche, sociali e religiose, per predisporre i popoli oggetto dell’invasione al «dovere dell’accoglienza», con un martellamento incessante da parte degli strumenti di comunicazione di massa, dei politici e, almeno per quanto riguarda l’Italia, anche con una predicazione aggiuntiva e intimidatoria da parte della Chiesa. Nel 1975, con una «preveggenza» sorprendente e sospetta, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha predisposto, con la convenzione numero 143, le condizioni da osservare da parte di tutti gli Stati che la firmino, «sulle migrazioni in condizioni abusive, e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti», convenzione che l’Italia ha firmato e il Parlamento ha ratificato con la legge numero 943 del 30 dicembre 1986. È il trattato che pone fine alle «identità».


Il primato dei banchieri

Gli esponenti più autorevoli di questo nuovo assetto ideale del mondo erano in gran parte gli stessi che avevano in mano le strutture principali della finanza mondiale, Rothschild, Rockefeller, le monarchie d’Europa, persone il cui interesse è esclusivamente l’accumulo del denaro e il dominio sul mondo attraverso il denaro. Come sia possibile che i detentori del potere politico, i capi delle religioni più importanti, quali l’ebraismo, il buddhismo, il cristianesimo, il confucianesimo, siano d’accordo con un tale progetto al punto di collaborarvi, come stanno facendo nell’unificazione europea, senza parlarne esplicitamente ai popoli, è un problema che mi angoscia da molto tempo e al quale ho dedicato molte delle mie energie andando di persona a interrogare cardinali, politici, giornalisti, industriali senza riuscire ad ottenere una risposta, come ho raccontato nel saggio La dittatura europea.(14) Con il passare del tempo, però, la catastrofe che si avvicina è diventata evidente a molte altre persone ed è ormai del tutto certo che si sta cercando di cancellare politicamente, culturalmente e fisicamente la civiltà europea dallo scenario del mondo. Coloro che continuano a tacere ne portano adesso la responsabilità personalmente, politici-giornalisti-scienziati-artisti-religiosi, in quanto spetta a loro almeno suscitare e sostenere la discussione pubblica e costringere tutti a riconoscere che, quali che ne siano i motivi e le buone intenzioni, il risultato sarà comunque la cancellazione dei popoli e delle culture europee.

È assurdo. Dobbiamo gridarlo ad altissima voce che è assurdo. Dobbiamo inventare un modo per sgominare gli assassini dell’Europa, che l’uccidono, privandola di tutto ciò che possiede di meglio, a cominciare dall’indipendenza e dalla sovranità. Togliere a un popolo la sovranità della moneta significa, infatti, togliergli tutta la sovranità. Non soltanto in concreto, dato che uno Stato in tanto è «sovrano» in quanto è solvibile per definizione, ossia è in grado, fabbricando la moneta, di assicurare sempre il pagamento di tutto ciò che acquista, che realizza e mette in atto; ma gliela toglie anche simbolicamente, come immagine del suo potere. La moneta, infatti, è lo strumento di comunicazione che ha portato sempre e ovunque il nome e la faccia di chi comandava. Faraoni, Monarchi, Dittatori, Imperatori, Papi: una volta assunto il potere, tutti hanno per prima cosa fabbricato la propria moneta, imprimendovi il proprio nome, il proprio simbolo, la propria immagine, la data del loro imperio. I nostri archeologi, i nostri storici sono stati sempre tanto sicuri di questo comportamento che, anche quando mancavano altri documenti, hanno ricostruito la storia passata, fissandone gli avvenimenti e le date, solo sulla base delle monete o dei frammenti di monete cercati e raccolti con la massima cura come i reperti più preziosi.(15)

L’azione di possesso e di conquista più violenta che i proprietari della Banca centrale di Francoforte potessero mettere in atto è stata quella d’imporre contemporaneamente a centinaia di milioni di uomini di adoperare una moneta nuova, creata dal nulla, non appartenente né al proprio né a nessun altro Stato, e che vuole ingannare coloro che l’adoperano non riportando, come appunto è stato sempre fatto e come sarebbe doveroso e necessario, la «faccia» e il nome dei Rothschild, dei Rockefeller, dei vari sovrani d’Europa, di Mario Draghi, insomma di coloro che ne sono i proprietari e che non vogliono far sapere ai popoli che l’adoperano di chi siano sudditi. Tanto meno, poi, vogliono che si sappia che sono quasi totalmente le stesse persone che possiedono tutte le banche centrali per cui, non soltanto sono gli unici veramente «solidali» fra loro, ma governano il mondo nel modo più semplice e più efficace che sia possibile immaginare: attraverso i titoli di Borsa.

L’euro, dunque, è una moneta che, nel momento stesso in cui ha cominciato a circolare, ha prepotentemente affermato, come ogni moneta ha sempre fatto, che i possessori delle banche erano adesso i padroni d’Europa e che, tanto più i sudditi diventavano poveri, tanto più loro si arricchivano. E tuttavia in segreto. Con la complicità inspiegabile (o almeno che sembra inspiegabile) dei governanti, dei politici, dei giornalisti di tutta l’Europa, che hanno così conficcato il pugnale del tradimento nelle spalle dei propri fratelli. Un tradimento avvenuto però con la complicità del silenzio anche da parte del resto del mondo, questa sì più che spiegabile visto che tutti guardano pieni di speranza all’autodistruzione ed eliminazione dell’Europa dal campo di battaglia per il potere mondiale.

Moneta e Parola sono la stessa cosa: strumenti di comunicazione concreta e simbolica. Se non c’è qualcuno che li «traduce», scambiandoli, non servono a nulla, non valgono nulla. Ma non servono a nulla anche se non c’è qualcosa che dà consistenza al loro «valore» e lo garantisce. L’oro? Sì, per parecchio tempo, il corrispettivo concreto del valore della moneta più «forte», il dollaro, è stata la cosa più preziosa, l’oro. Ma siamo già nei tempi moderni. Nel più antico passato sono state le «donne» la cosa più preziosa, la prima moneta di scambio: «Io do una delle mie donne a te, tu dai una delle tue donne a me», come dice Lévi-Strauss spiegando l’origine del patto di solidarietà fra i gruppi umani quando hanno rinunciato a farsi la guerra.(16) La «comunicazione» oggi in Occidente non avviene quasi più perché i maschi l’hanno interrotta, come vedremo meglio a proposito dell’omosessualità, rifiutando la donna come strumento e come garanzia-oro dello scambio. D’altra parte la teoria di Lévi-Strauss si basava su un dato che, soltanto fino a pochi anni fa, tutti hanno sempre ritenuto incontrovertibile: l’istinto sessuale maschile. Anche quello femminile, ovviamente, che induce le donne a cercare di attrarre il maschio con il loro comportamento, ma il maschio può possedere le donne sia che lo vogliano sia che non lo vogliano, per cui l’unica cosa che conta davvero è che il maschio lo voglia. L’istinto ovviamente è dettato dalla natura e ha come unico scopo il mantenimento della specie. Dunque il possesso delle donne per garantire la procreazione. La comunicazione, lo scambio si è bloccato nel momento in cui i maschi hanno rifiutato le donne. Volendo riferirsi alle teorie freudiane sul rifiuto del «dare» da parte del bambino, sulla stitichezza come sintomo di questo rifiuto, si potrebbe facilmente individuare nel primato dei banchieri, della loro avidità di denaro, il corrispettivo del rifiuto omosessuale del «dare» nella comunicazione con la società, la sterilità del coito. E sarebbe facile, anzi doveroso, dedurne la falsità della moneta «euro», che dimostrerebbe di essere priva di valore nel momento stesso in cui noi smettessimo di adoperarla. Non ha né donne né oro dietro di sé.

(...)

L’omologazione è perseguita imponendo silenziosamente l’uso di una nonlingua, quell’anglo-americano che non è il prodotto di nessun popolo, non è il frutto secolare ed epigenetico della cultura di un popolo, della sua intelligenza, della sua storia, della sua riflessione concettuale sulla vita, sul suo territorio-paesaggio di appartenenza, sui suoi rapporti con gli altri uomini. È proprio per questo motivo, quindi, che il Laboratorio per la Distruzione lo immette e lo fa circolare «nell’aria», obbligando tutti i popoli d’Europa a diventare «meticci», sudditi colonizzati. Li priva così dello strumento essenziale e indispensabile per «pensare», per pensare davvero, per conoscere e formulare concetti, per creare scienza, filosofia, letteratura, arte, poesia.

Tutte le ricchezze del pensiero umano che ogni popolo d’Europa ha donato al mondo lungo il corso di secoli fecondissimi di una straordinaria civiltà attraverso la propria specifica lingua, pur discesa da una sola fonte, la lingua latina e l’estensione dell’Impero romano, apparterranno ad un passato che presto scomparirà anche dalla memoria e che sarà cancellato dai nuovi abitatori d’Europa: gli africani. Su questa sparizione non si debbono avere dubbi, non ci possono essere dubbi: nessun conquistatore lascia mai in vita la cultura, le opere, la religione, la storia di coloro che lo hanno preceduto. Tanto più quando sono gli stessi abitanti dei territori conquistati a favorire la distruzione. Noi ne abbiamo sotto gli occhi la prova: c’è già adesso un ministro africano a governare gli italiani. Nessuna conferma, più di questa, di quanto i governanti italiani, e in particolare Enrico Letta e i suoi alleati, odino gli italiani, ne pregustino la morte, infliggendo loro, con un anticipo di diversi decenni, l’ignominia di essere dominati da stranieri, dagli africani, e sappiano con certezza, vedendone l’inizio, come sarà disprezzata e distrutta la loro civiltà da parte di popoli che nei lunghi millenni passati da quando sono nati (si vantano che il più antico reperto della specie Homo Sapiens sia stato ritrovato in Africa) non hanno dato nessun contributo al pensiero umano.

L’omologazione è perseguita, inoltre, imponendo identici programmi di studio e di esami nelle scuole di tutta Europa, ovviamente nella pseudolingua inglese e attraverso l’uso di test e di questionari che, come vedremo meglio nel capitolo dedicato alla scuola, è funzionale alla selezione dei mediocri, escludendo chiunque sia dotato di un maggiore quoziente intellettuale e di conseguenza della possibilità e della capacità di spirito critico. Ma non basta. Per mettersi al sicuro da qualsiasi elemento imprevedibile, il Laboratorio per la Distruzione ha provveduto, con uno strumento di omologazione raffinato, il «politicamente corretto», ad impedire ogni conoscenza che non sia passata prima attraverso il condizionamento della de-privatizzazione, dell’informazione di massa. Il «politicamente corretto» è ovviamente la più efficiente delle censure perché prima di essere una censura, è un «lavaggio del cervello», tende – e riesce – a costringere il pensiero a vedere e a percepire in maniera allucinatoria la realtà attraverso definizioni e concetti precostituiti. Noi quindi lo dovremo combattere in ogni campo, per prima cosa definendolo sempre per quello che è, anche se non abbiamo, pur nella lunghissima storia di governi tirannici sperimentati nel passato, un termine adatto: onnipotenza del potere, dispotismo del linguaggio, lavaggio del cervello, censura?

Insomma dobbiamo inventare, creare, realizzare un mondo opposto a quello già creato dall’Ue e che ci sta uccidendo. Dobbiamo mettere in atto sistemi politici, economici, culturali, del tutto diversi da quelli che ci sono stati imposti, avendo di fronte a noi un solo scopo: vivere. E vivere una vita che valga la pena di essere vissuta, per noi e per coloro che verranno dopo di noi.

continua...


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