Difendere l’Italia - 2 di 3

Difendere l’Italia - 2 di 3

Salvatore Clemente
Ida Magli (1925-2016)

...continua


Eccomi qui, dunque, pronta a contraddire me stessa, a proporre di salvare l’Italia (e con l’Italia possibilmente tutte le Nazioni d’Europa) iniettandole nelle vene il suo stesso sangue. Da una parte, quindi, richiamare con forza alla memoria, al cuore degli italiani, la bellezza del loro territorio, lo straordinario paesaggio di questo pezzetto di terra che ha entusiasmato e commosso i viaggiatori di tutto il mondo e che forma un tutt’uno con le sue popolazioni. Riproporre al pensiero e allo studio degli italiani, contrariamente a quanto è stato fatto fino adesso, la grandezza della loro storia, della scienza, dell’arte, della musica, di tutte le loro capacità creatrici. Da un’altra parte, invece e simultaneamente, stimolare uno di quei soprassalti di libertà vitale che hanno contraddistinto l’Italia lungo lo scorrere dei secoli anche nei periodi più bui e che oggi può forse concretizzarsi addirittura con maggiore facilità che nel passato, malgrado ci sia stato tolto ogni diritto e perfino l’onore di portare le armi. Con maggiore facilità, perché siamo abituati a cambiare rapidamente abitudini e opinioni visto che oggi, contrariamente a quanto succedeva nell’antichità, il cambiamento è considerato un fattore positivo. Così come siamo pronti a mutare opinione su ogni cosa, convinti che questa sia una virtù della modernità, quella che permette di non perdere mai la speranza, così dobbiamo ricominciare a credere e a combattere per capovolgere la situazione di angosciosa agonia nella quale ci troviamo, e lavorare al ripristino della forza e dell’identità del popolo e della Nazione italiana.

È l’arida sterilità che i banchieri hanno creato intorno a sé, però, il fattore determinante, quello che dà la sicurezza della rinascita perché non può sussistere a lungo senza che da qualche parte si scateni il bisogno insopprimibile di tornare ad essere uomini, di riaffidarsi al pensiero, al cuore, allo spirito. Come ha detto Georg Trakl riassumendo alla perfezione, con l’intuito profetico che soltanto i poeti possiedono, la situazione che stiamo vivendo: « Un possente dolore nutre oggi l’ardente fiamma dello spirito».(17) È così, ne sono convinta: l’angoscia terribile nel vedere in quali misere condizioni sia stata ridotta l’Italia dai governi di questi ultimi anni, nel doverci vergognare di coloro che in teoria ci rappresentano, nel non poter aiutare tutti quegli italiani che hanno perso il proprio posto di lavoro, le proprie aziende, i piccoli redditi indispensabili alla vita quotidiana, nutre con disperata energia la fiamma di quello spirito che i banchieri credevano di avere spento.

Cerchiamo, dunque, di radunare tutte le forze possibili intorno al progetto di un secondo, di un nuovo Risorgimento, di rifondazione psicologica, sociale e culturale della Nazione Italia, cominciando dall’analizzare a fondo i motivi principali dello stato pre-agonico (o forse già agonico) in cui si trovano, insieme all’Italia, tutte o quasi tutte le Nazioni europee, in particolare quelle dell’area euro. È ovvio che soltanto conoscendo bene la situazione, potremo prendere delle decisioni. Decisioni gravissime e determinanti perché riguardano il modello culturale, la forma mentis dei popoli, la loro storia, la loro sensibilità individuale e collettiva, tutti fattori che impongono di piegarsi con il massimo di partecipazione sull’angoscia, sul dolore della malattia presente. Non vogliamo affatto rassegnarci a fare un «buon uso della malattia» in senso pascaliano, anzi: vogliamo farne un buon uso analizzandola e comprendendola scientificamente fin nelle sue cause profonde, per ucciderne i virus uno per uno con farmaci mirati, prima che tocchi a noi rimanerne uccisi. Senza questa analisi oggettiva e priva di veli, non sarebbe possibile formulare una diagnosi tanto vicina al vero da suggerire quello che si deve fare per mettere in atto tutte le indispensabili terapie.

Si tratta di una diagnosi difficilissima perché la realtà che stiamo vivendo ci sfugge nel suo vero significato. È una realtà terribilmente oscura, segreta, misteriosa, impossibile da interpretare sulla base della sola ragione, ma piuttosto simile a qualcosa di indeterminato che si presenta come una specie di fatale, cosmico indovinello: un «enigma». Un enigma, però, che non è l’Eroe, il «predestinato», a dovere e sapere risolvere, ma noi, uomini comuni che non sappiamo nulla e che pure siamo chiamati a diventare eroi. Diventare eroi proprio nell’epoca e nella società che ha affermato di non avere bisogno di eroi, anzi: che è fortunata, è felice una società che non ha bisogno di eroi.

A farci luce nell’oscuro meandro nel quale dobbiamo inoltrarci, abbiamo però, come abbiamo già accennato, uno strumento particolare, una lampada straordinaria: le scienze umane e la consapevolezza della storia.

(...)

Noi, dunque, (io stessa) ci troviamo oggi a «fare storia» ancora una volta così come sono stati sempre costretti a farla gli italiani: raccontarla e tentare di spiegarla nel momento stesso in cui la viviamo. Siamo, infatti, anche noi, come i tanti studiosi che ci hanno preceduto, sotto la dittatura di poteri stranieri, quelli euro-americani, e sotto la dittatura dei poteri italiani che sono, come sempre, umili servi degli stranieri e che ci odiano, come ci hanno sempre odiato, più di quanto ci odino gli stranieri.

Davanti a questa situazione siamo costretti perciò anche noi, come gli storici nostri predecessori, a narrare giorno per giorno, durante il loro svolgersi, le terribili disgrazie della nostra Patria e dei nostri fratelli. Questa volta, però, a differenza del passato quando ogni avvenimento, anche tragico, suscitava la speranza della libertà, della redenzione della Patria, ci troviamo a descrivere una storia tristissima, deprimente, incomprensibile, finale. «Incomprensibile» perché i poteri che perseguono la nostra morte si servono di un’arma assolutamente nuova: ci spingono a darci la morte da noi stessi. Ci ripetono di continuo, infatti, e ci convincono che siamo noi, intrisi del vecchio, spregevole razzismo, intrisi di un odioso «nazionalismo», con tutto il carico di negatività che è stato imposto al concetto di nazionalismo, ad uccidere gli altri. Una storia «finale» perché, uccidendo il proprio popolo, i governanti condannano a morte anche se stessi. È una scena di caccia, insomma, in cui tutti si accusano a vicenda di essere cacciatori e tutti sono invece simultaneamente anche selvaggina.


Omicidi-suicidi

Le pagine che seguono sono dunque quasi soltanto delle «note di diario», appunti e pensieri messi sulla carta nei giorni tragici che hanno posto le premesse alla fine della storia e della civiltà in Italia. Il che significa in realtà la fine della storia e della civiltà in tutta l’Europa dato che è l’Italia ad averle dato inizio, ad averla concretamente costruita, metro per metro, città per città, da Parigi a Lione, da Francoforte a York, a Londra, a Siviglia, ad Oporto, con l’immensa opera ingegneristica e civilizzatrice dei romani in ogni campo. I 75.000 chilometri di strade costruite dai Legionari formano un tutt’uno con la scoperta e la civilizzazione del mondo allora conosciuto (Victor Wolfgang von Hagen, Le grandi strade di Roma nel mondo, Newton Compton, Roma 1978; Pierre Grimal, La civilisation romaine, Arthaud, Paris 1968). L’Europa è vissuta e si è nutrita della lingua latina, delle strutture giuridiche, militari, politiche, amministrative create da Roma e che ne hanno garantito lungo il passare dei secoli, attraverso il cristianesimo, la sopravvivenza fino al XIX secolo. È questa storia che i nostri governanti hanno deciso di cancellare, fingendo che non sia mai esistita.

Racconteremo questa fine perciò attraverso lo smarrimento di coloro che la stanno vivendo; che la stanno vivendo senza comprenderla, consapevoli di non comprenderla e che per questo non vedono altra soluzione che l’uccidersi. Le migliaia di suicidi avvenuti in Europa in questi ultimi anni rappresentano appunto il grido di una disperazione che non è la povertà, la disoccupazione, la fame ad aver provocato, come potrebbe sembrare in apparenza, ma l’impossibilità di capire quello che sta succedendo; impossibilità di capire perché i governanti odino tanto i propri sudditi, i propri fratelli, da volerli morti; da spingerli, anzi, a darsi la morte. Nella Società di France Télécom si sono suicidati, nel tempo intercorso dall’inizio della crisi nel 2008 alla sua prima ristrutturazione nel maggio 2010, 50 dipendenti fra dirigenti e tecnici. Secondo il rapporto trasmesso dall’Ispettorato del Lavoro alla giustizia francese, questi suicidi sono stati la diretta conseguenza della soppressione di 22.000 posti di lavoro e del trasferimento in altre sedi e in altre città di 10.000 dipendenti, effettuato dall’azienda in questo periodo.

È già qualcosa, però, che in Francia sia stata effettuata questa inchiesta e che sia stato riconosciuto un rapporto di causa-effetto fra la crisi e i suicidi. In Italia, nulla di tutto questo. Nessuna istituzione – né la magistratura, né il Parlamento, né la Chiesa – ha fatto sentire la propria voce per mettere in rilievo e trovare una qualche responsabilità alla tragica catena dei suicidi iniziata negli ultimi mesi del 2011. Si era appena installato il governo Monti ed erano cominciate ad arrivare le cartelle dell’Inquisizione fiscale, subito organizzata con la creazione di un nuovo Tribunale per la ricerca e la condanna degli eretici: «Equitalia». Il Laboratorio per la Distruzione è attentissimo nel trovare i nomi giusti da inculcare, senza che se ne accorgano, nella mente dei sudditi: Equitalia è un nome che sembra una specie di presa in giro a coloro che ne sono rimasti annientati fino al suicidio. Questo tribunale, però, ha accompagnato giustamente la nascita del governo dei banchieri: sottrarsi al fisco è comportamento ereticale, analogo al sottrarsi ai dogmi. Le istituzioni, perciò, hanno concordemente ignorato il succedersi angosciante dei suicidi indotti dalla crisi, e non è stata mai cercata o individuata la responsabilità di qualcuno, o almeno i giornali non ce ne hanno informato. Suicidi eclatanti come quello del segretario del San Raffaele, Mario Cal, uomo di fiducia dell’opera di don Verzè, non hanno avuto, almeno a livello d’informazione giornalistica, nessun seguito. Nell’unico caso in cui la stampa ha dato notizia di un’inchiesta della magistratura, quello del suicidio del dirigente del Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, la conclusione è stata che si trattava di un suicidio volontario. Niente e nessuno ve lo aveva spinto. Come è possibile credere che, in una crisi terribile come quella che ha travolto il Monte dei Paschi di Siena, non soltanto dal punto di vista degli ammanchi finanziari, ma da quello dell’immagine, del nome della più antica istituzione bancaria d’Italia, un giovane funzionario, sposato e padre, si getti dalla finestra del suo ufficio, l’antichissimo edificio del Monte dei Paschi, alle 11 del mattino, dopo un’ultima telefonata che non sappiamo a chi sia stata fatta, senza un motivo? È più probabile pensare che, come nel caso di altri suicidi, si sia reso conto di ritrovarsi solo di fronte a un’eventuale situazione di disonore perché nessuno dei dirigenti, degli amministratori, dei responsabili politici si era addossato una qualche responsabilità riconoscendo le proprie colpe.

(...)


Storia dell’odio

I sudditi sanno bene che sono i governanti, con le loro decisioni, a provocare la storia, quindi anche i suicidi, quando ne fanno parte. Sanno che è falsa l’affermazione: «la storia siamo noi». Un’affermazione che viene ripetuta con enfasi ogni giorno anche attraverso programmi scolastici televisivi cui è stato dato questo titolo proprio per ingannare i cittadini, nello stesso modo con il quale sono state immesse nell’aria le innumerevoli menzogne sulla democrazia e il potere del popolo. Nessuno lo sa meglio degli italiani, invece, che la storia l’hanno sempre creata i governanti, i capi. Nessuno lo sa meglio degli italiani perché sono stati per tanti secoli sudditi del potere più forte che sia mai esistito, quello dei Papi-Re. Non ci si deve meravigliare di questa affermazione visto che soltanto un Papa (Gregorio VII) ha potuto affermare senza che nessun altro potere osasse contraddirlo, che un Papa può «giudicare tutti e non può essere giudicato da nessuno».(18) Del resto sarà sufficiente ricordare, a titolo di conferma, che era la parola del Papa a decidere a quale Nazione spettasse il diritto a possedere una o più delle nuove terre che venivano scoperte o conquistate. La verità, perciò, è che la storia l’hanno creata sempre i governanti. Perfino quando, nello scoppio di qualche rivolta, è sembrato che i primi agenti fossero stati i sudditi, in realtà erano stati i capi, i detentori del potere, i veri agenti in quanto erano state le loro azioni a costringere, a spingere i sudditi alla ribellione.

Anche oggi sono i governanti che creano la storia. Si tratta di una storia stranissima, incomprensibile, angosciosa, una storia che non si è mai verificata prima d’oggi e che quindi viene narrata adesso per la prima volta: la storia dell’odio. Un odio totale. Un odio che assomma quello verso un Paese, uno Stato, una Nazione, a quello verso ogni singolo, povero, fragile essere umano che ne fa parte. Si tratta degli esseri più fragili, più miseri, più piccoli perché adesso sono «soli», «individui», nel senso pieno del termine in quanto già privati del gruppo, dell’appartenenza a un popolo, a una società, a una Patria.

Tutta la forza di quest’odio, dunque, è concentrata nello sforzo di indurre ad uccidersi coloro che cercano di vivere. Il senso di falsità che aleggia ovunque e che tutti percepiscono oggi in Europa, in Italia, proviene soprattutto da questa specie di «sacra rappresentazione», di spettacolo teatrale, che assolve alla funzione primaria per la quale lo spettacolo è nato: dare consapevolezza, oggettivandolo, dell’esistenza del Potere, della forza del Potere, imponendone il «timore» perché il Potere è, esiste di per sé, consiste in se stesso e si manifesta come trascendente perché è potenza che dà e che induce alla morte. Per non riconoscerne la primaria essenza di odio gli uomini l’hanno proiettato e oggettivato nel Sacro, nelle Divinità, in un Dio (Rudolf Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1966). Adesso, però, che in Europa, in Italia, il Sacro si è logorato al punto che i Papi si «dimettono», tolgono il «sacro» dalla propria persona come si tolgono l’abito liturgico alla fine della cerimonia, l’odio è apparso, fascinans et tremendum, sul palcoscenico della verità. È l’odio dei potenti, l’odio di coloro che governano, che nessun Dio nasconde più agli occhi dei sudditi: per questo i sudditi si uccidono.

(...)

Gli uomini sono forniti di un solo strumento valido per vivere: la capacità logica. Non avrebbero mai potuto affrontare la potenza della natura se non l’avessero utilizzata decifrandone le leggi con l’intelligenza, con la sistematicità della ricerca «causa-effetto», dato che non potevano vincerla con la forza. Di fronte ad una situazione come quella odierna in cui i popoli sono spinti dai leader a vivere e ad agire contro se stessi, contro ogni proprio interesse e scopo, le reazioni possibili sono quelle cui assistiamo ormai da mesi: aderire passivamente, lasciandosi condurre come ciechi verso la catastrofe, oppure darsi la morte, darla anche ai propri figli perché è a loro che è stato tolto il futuro. Sono quelli che si uccidono i più consapevoli: più consapevoli dell’assurdità logica in cui viviamo e che gridano ad altissima voce quale sia la situazione. Non c’è possibilità di ribellarsi in una democrazia così «perfetta» come quella italiana, come quella europea, dove anche i comunisti, anche le Sinistre, stanno dalla parte dei più ricchi, dei banchieri, quelli che derubano i poveri, che fanno pagare ai poveri gli ammanchi che sono stati loro a provocare giocando e perdendo i soldi dei clienti e che mantengono il «segreto» sulla fine programmata dell’Europa, governando tutti insieme. Se ne vantano: quale maggior democrazia che «le larghe intese»?

Si uccidono, dunque, questi italiani, per il non-senso perfino della morte che pure sono costretti a darsi; per la mancanza di ciò che ha sempre simbolizzato l’atto estremo del suicidio: la forza dell’uomo, la sua grandezza nella sconfitta finale. Non sono intellettuali, non sono poeti: piccoli pensionati che non riescono a pagare l’affitto della casa dove abitano, piccoli imprenditori che non riescono a pagare i debiti della propria azienda o le tasse imposte da un fisco implacabile. È questo l’aspetto più sconvolgente della morte che stiamo vivendo: quello della «loro» morte. L’abisso fra il suicidio che ci addolorava ma non ci sorprendeva di chi, come l’intellettuale, in fondo con la morte ha un dialogo costante, l’ha inscritta nell’orizzonte del suo pensiero, è stimolo alla sua poesia, alla sua riflessione di vita, e il suicidio di chi ha svolto in silenzio la sua piccola attività quotidiana, senza simbolismi, senza trascendenze e che sorprende tanto da non riuscire a dirne neanche una parola. Quanto coraggio, quanta dignità, quanta terribile disperazione in questi suicidi! La disperazione di chi sa che anche la propria morte non vale nulla, non cambia nulla… Non farà notizia, nessuno la commenterà. I debiti non si cancelleranno: passeranno agli eredi; l’azienda fallirà ugualmente e i dipendenti rimarranno ugualmente senza lavoro. Cosa c’è di più normale? I capi, i governanti, i banchieri non se ne accorgono neppure. Non una parola, non uno sguardo sui suicidi.


«Ce l’abbiamo fatta!»

È perfino ridicolo, grottesco, ma in realtà rispondente soltanto allo spirito di chi ha assolutizzato il denaro facendo il banchiere, che pretenda la morte in nome del denaro, come stanno facendo i banchieri in nome del debito pubblico. Un’assolutizzazione infame. Tanto infame quanto quella dei governanti che obbediscono ai loro ordini e che gridano, come ha gridato Enrico Letta il 5 luglio 2013: «Ce l’abbiamo fatta!». Esultava perché le autorità finanziarie europee avevano cancellato le procedure di condanna nei confronti del debito pubblico italiano. Ce l’abbiamo fatta? E le migliaia di imprenditori suicidi (8000 alla fine del 2012), i milioni di disoccupati, la disperazione dei cittadini oppressi dalla crisi, la Nazione senza futuro, senza illusioni, senza figli, tutto questo è forse racchiuso in quel «Ce l’abbiamo fatta»?

Il 5 luglio 2013 è dunque una data che gli italiani non dovranno dimenticare mai. La data dell’infamia di questi governanti che dovrebbero essere condannati molto più gravemente di quelli che hanno trascinato i popoli alla rovina con le guerre. Più gravemente perché questi l’hanno fatto per tradimento, per uccidere i propri popoli.

I governanti, però, di tutto questo non parlano. Non parlano né di se stessi, da quando si sono volontariamente ridotti alla sola funzione di dire di sì alle decisioni dei banchieri, né dei banchieri e del loro tirannico modo di governare i popoli. Un silenzio che dura da troppo tempo anche perché, da quando la crisi ha raggiunto il suo culmine con il terribile anno 2011, il tempo, come abbiamo già notato, sembra diventato inafferrabile, impossibile da padroneggiare. Tutti si aspettano che siano gli esperti, i politici a traghettare i sudditi, ridotti alla veste di «ombre», lungo la strada che porta alla luce. I politici, però, sanno bene che questa strada non esiste perché l’unica possibile comporterebbe rimettere in questione l’unificazione europea, il dominio dei banchieri, cosa che nessuno osa neanche porre di fronte a sé. Ripetono perciò che «si vede la luce in fondo al tunnel», ma è il tunnel che non è per nulla un tunnel, un corridoio da percorrere per raggiungere una meta: è invece la situazione, è la realtà.


Capitolo 2. Fine dei simboli e delle rappresentanze

Il Papa si dimette

Mentre scrivo queste righe, nella soleggiata mattina del 5 marzo 2013, le due istituzioni principali sulle quali si è retta l’Italia fino ad oggi espongono alla mite luce romana i propri ruderi. Ruderi nuovi, frammisti ai consueti ruderi del Palatino e del Colosseo integrati da tanti secoli nel paesaggio: è crollato il Parlamento; è crollato il Papato.

(...)

Il Papa ha dato le dimissioni? L’incredulità è stata tale che in un primo momento perfino i giornalisti hanno pensato di aver capito male. In fondo Ratzinger l’aveva detto in latino, in un discorso tenuto nel chiuso di un consesso cardinalizio… poteva darsi che ci fosse stato un equivoco. Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano «il Giornale», afferra il telefono e mi grida: «Ida, Ida, hai sentito? Davvero questo è dopo l’Occidente!». Non faccio in tempo a rispondere: «Certo, certo, è dopo l’Occidente», quando arriva la conferma dell’Ansa: era vero. Il Papa aveva dato le dimissioni.

(...)


Ricatti vaticani

Dopo il primo momento di incertezza e di sgomento per l’annuncio delle dimissioni dato da Ratzinger in modo assolutamente repentino, nessuno ha creduto ai motivi di stanchezza e di vecchiaia («ingravescentem aetatem») con i quali ha cercato di spiegarle. Veri o non veri che fossero questi motivi, era chiaro a tutti che aver comunicato al mondo le dimissioni in forma ufficiale, dato il consesso cardinalizio cui si era rivolto e la lingua latina che aveva utilizzato, senza aver minimamente preparato in qualche modo in precedenza né la gerarchia ecclesiastica né l’opinione pubblica in generale, dimostrava almeno due cose: o che questa decisione fosse stata presa all’improvviso sotto la spinta di qualcuno o di qualche cosa che ve l’aveva costretto, oppure che Ratzinger avesse deliberatamente scelto di sottolineare l’eccezionalità del suo gesto traumatizzando il mondo proprio col non averlo lasciato in nessun modo prevedere. Il buon senso, infatti, avrebbe voluto che cominciasse parecchio tempo prima delle dimissioni a mancare ripetutamente a qualche impegno pubblico e facesse circolare la voce di qualche suo malessere in modo da rendere più credibile un gesto così grave e le motivazioni che ne ha dato. Ratzinger invece ha voluto sferrare un pugno allo stomaco di tutti, e rendere il colpo il più forte possibile con la sorpresa. Questa volontà, evidente fin dall’inizio, si è andata poi sempre più confermando per il modo con il quale ha imposto la coesistenza di due Papi tanto sulla scena del mondo quanto nello Stato del Vaticano.

(...)

Se si pensa che nel perimetro dello Stato del Vaticano vivono poche migliaia di persone,(19) la densità e la gravità dei fatti criminosi e senza dubbio la più alta al mondo. Sara sufficiente elencare soltanto i più importanti di questi fatti verificatisi negli ultimi cinquant’anni: la «strana» morte nel 1978 di Papa Luciani (Giovanni Paolo I, l’ultimo di nazionalità italiana) sulla quale il Vaticano non ha permesso nessun accertamento. Sarebbe bastata infatti un’autopsia (cosa che si fa sempre di fronte alle morti improvvise) per togliere qualsiasi dubbio. La morte nel 1998 di una giovanissima guardia svizzera, Cedric Tornay, contemporaneamente a quella del suo capo e della moglie di cui il Vaticano non ha permesso alla polizia italiana di occuparsi, ma che quasi certamente è dovuta ad un legame omosessuale. La soluzione ufficiale data dal Vaticano non è credibile, ma tutti hanno fatto finta di crederci, salvo la madre del ragazzo che giustamente vorrebbe che fosse fatta giustizia. Tornay è stato infatti accusato di aver ucciso il suo comandante con la moglie e di essersi suicidato in base a una motivazione del tutto ridicola: una promozione non avuta. La scomparsa di una ragazza, cittadina vaticana, Emanuela Orlandi, la scomparsa di un’altra ragazza, Mirella Gregori, il ritrovamento nella basilica di Sant’Apollinare del corpo di Renatino De Pedis, appartenente alla famosa Banda della Magliana. Il coinvolgimento mai chiarito di Roberto Calvi con gli affari dello Ior. A tutti questi avvenimenti si può aggiungere il ferimento di Wojtyła, rimasto sempre oscuro al di là delle dichiarazioni di Ali Ağca e le dimissioni di Ratzinger.

Coadiuvati dai giornalisti della stampa e della televisione italiana, diventati all’improvviso nei loro untuosi commenti i più devoti dei cattolici, ancora una volta cardinali e vescovi hanno messo in atto tutto l’armamentario del Sacro per trascinare la gente alla commozione e al di là della commozione fino a un vero e proprio stato onirico.

(...)

Il trauma era stato superato? Probabilmente sì, ma nella direzione di senso voluta dal Laboratorio per la Distruzione: un Papato pesante ma fintamente «leggero», adatto alla globalizzazione, che si troverà d’accordo con qualsiasi sacerdote di qualsiasi religione. I due dati più importanti sono il fatto che è un gesuita e il nome che si è dato: Francesco. Con l’elezione di un gesuita al soglio pontificio è stato compiuto il più grave colpo di Stato che si sia mai verificato nella pur lunga e travagliata storia del Papato. Ma si è trattato, di fatto, di una decisione disperata, quella che in genere gli Stati prendono quando tutte le vie normali di governo sono fallite e i politici consegnano ai militari, ossia alla forza delle armi, tutto il potere affinché siano essi a combattere la battaglia suprema, quella della salvezza o della sconfitta totale. I gesuiti sono nati come una milizia (la «Compagnia» di Gesù) allo scopo di sostenere e difendere il Papato, obbedendo ai suoi ordini perinde ac cadaver; è questo il loro compito per il quale pronunciano un voto particolare, in aggiunta ai voti di castità, povertà e obbedienza consueti in tutti gli Ordini religiosi. Per questo nessun gesuita è stato mai eletto Papa, ed anzi in origine non venivano neanche nominati cardinali proprio perché non partecipavano alla sfera diretta del potere papale. Precauzioni normali in ogni sistema di governo, le stesse per le quali nelle Costituzioni moderne, compresa quella italiana, si tengono separati i poteri della magistratura e delle forze armate da quelli dei politici.

(...)


Dialogo e accomodamento

Esaltato con entusiasmo da tutti, il finto parroco di campagna Bergoglio fa discorsi banali e che ovviamente proprio per questo piacciono subito e vengono ripetuti con una sorta di nuova allegria da tutti i mezzi d’informazione, visto che non pongono problemi d’interpretazione come è sempre successo con l’inevitabile impianto teologico dei discorsi dei Papi. Grida, dunque, accompagnato da immediati applausi, rivolgendosi ai giovani nella Domenica delle Palme del 24 marzo: «Non fatevi rubare la speranza!». Cosa di più truffaldino, di più vigliacco, nella terribile crisi attuale in cui non si vede un futuro per nessuno ma soprattutto per i giovani, che rivolgersi ai sudditi invece che ai potenti? Non sono forse i potenti, governanti, banchieri, economisti, che hanno rubato e rubano la speranza ai giovani? È lo spirito di un gesuita che già si rivela: il principio dell’«accomodamento» se lo sono inventato i figli di Ignazio, uomo che lo usava già in vista degli scopi di propaganda evangelica che si proponeva. È «santo», Ignazio di Loyola, ma la sua vita è poco conosciuta in Italia ed è difficile trovare qualche cattolico che gli sia devoto o che si rivolga a lui per chiedere qualche grazia, il dono di una guarigione o qualcosa di simile. Fra la devozione ad Ignazio e quella a Padre Pio c’è un abisso. Bergoglio si è guardato bene dal darsi, come Papa, il nome di Ignazio o quello di qualche altro santo gesuita, sebbene siano numerosissimi. Chiamarsi «Francesco» è stata una mossa abilissima, questa sì degna di un figlio di Ignazio.

(...)

La visita che Napolitano, presidente della Repubblica italiana, ha compiuto ufficialmente il giorno 8 giugno 2013 al nuovo Papa ha testimoniato che il gesuitismo era al potere. Napolitano era accompagnato, evidentemente per un esplicito accordo con il Vaticano, dal nuovo ministro degli Esteri, Emma Bonino, figlia prediletta di Pannella e massima realizzatrice delle sue battaglie per il divorzio, per l’aborto, per il libero consumo delle droghe, ossia per tutto quello che la Chiesa cattolica condanna come massima colpa verso Dio. Bergoglio le ha offerto la mano con un sorriso, significativamente ripreso dai fotografi a ratificare il definitivo superamento, in Italia e in Europa, delle lunghe campagne della Chiesa in difesa dell’etica cattolica.

(...)

La prova più evidente di come i politici siano invece ancora chiusi nel bunker del proprio potere e piegati su se stessi esclusivamente allo scopo di mantenerlo, l’ha data Napolitano con la grottesca e sopraffattoria invenzione dei «saggi». Questi signori del potere antico, che è soltanto lui, Napolitano, con l’implicita assolutezza del suo giudizio che nessuno può mettere in dubbio, a ritenere e definire «saggi», appaiono viceversa come vecchi vestiti stinti, tirati fuori dal baule riposto in soffitta da chissà quante generazioni, e che dovrebbero coprire con la loro presenza il vuoto di azioni politiche creato da Napolitano stesso.

Da quando ha chiamato al governo Mario Monti, facendo saltare le regole della democrazia, Napolitano recita a soggetto incappando, con l’assolutezza del suo giudizio, in un errore dopo l’altro. La terribile crisi economica che imperversa dal novembre del 2011, è diventata sempre più grave con i provvedimenti montiani perché privilegiano la salvezza della moneta unica, ossia del dio Euro e dell’Ue, sugli interessi degli italiani, e costringe perciò il presidente della Repubblica a non vedere e a non sentire nulla di quello che accade intorno a lui per difendere le proprie scelte ai suoi stessi occhi. L’Italia sembra diventata così una specie di brigantino Bounty, pilotato verso l’abisso da un comandante ormai furioso e che fa mettere ai ferri chiunque lo inviti a guardare la bussola. Non affidando a nessuno il compito di formare un governo perché non fornito in partenza della maggioranza, Napolitano dimostra fino a che punto i politici siano piegati ciecamente sul mantenimento del proprio potere: si è inventato delle regole e adesso nessuno le può cambiare.

(...)

Le tempestose vicende politiche che hanno accompagnato i giorni della rielezione in extremis di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica, sono servite, però, a confermare molte cose che già sapevamo sui detentori del potere politico, anche se forse non avevamo sospettato fino a che punto giungesse l’odio e lo spirito di vendetta che li animano. Hanno confermato soprattutto il fatto più grave di cui abbiamo già parlato: che esiste un soprapotere che guida tutto e tutti nascostamente verso mete preordinate. Avendo studiato per diversi anni gli scopi e le tecniche di questo sopra-potere, che ho chiamato «Laboratorio» (non sapendo in realtà di che cosa si tratti effettivamente), sono giunta alla conclusione, come abbiamo già visto, che un ristrettissimo gruppo di persone si è accordato per organizzare una struttura molto intelligente e pluriforme che persegue in prima istanza, in vista di scopi apparentemente mondialisti, la distruzione degli Stati nazionali e della civiltà europea, ed è quindi, non soltanto un «laboratorio», ma quel «Laboratorio per la Distruzione» che abbiamo imparato a conoscere attraverso gli avvenimenti che provoca o che detta.(20) Non si identifica, dunque, né con il Bilderberg, né con la Trilateral Commission, né con l’Aspen Institute, né con nessun altro dei Club di cui si fa ormai da tempo il nome sottovoce ma che hanno perso tutta la loro aura di mistero. Si deduce abbastanza agevolmente, dall’abbandono della segretezza che fino a pochi anni fa contraddistingueva queste associazioni, che il gruppo di comando non si trova più lì. Né può essere il «governo mondiale» tout court lo scopo finale, anche se è proprio questa la meta indicata da tutti gli osservatori delle società segrete (Epiphanius, Massoneria e Sette segrete, Contro Corrente, Napoli 2002.). Probabilmente il governo mondiale è lo «strumento» di cui ci si vuole servire, ma rimane «strumento» per qualcosa che non conosciamo. L’unica cosa certa, per ora, è che, sotto le vesti del Bilderberg e degli altri Club dell’area occidentale, il «Laboratorio per la Distruzione» ha preso il comando dei governi e dei politici d’Europa ai quali è delegato soltanto il compito di realizzare, in totale asservimento, l’omogeneizzazione e l’unificazione dei popoli e degli Stati, distruggendoli nell’unificazione europea. Vittime ignare e indifese nelle mani di governanti traditori etero diretti, che sanno e che non sanno, ma che in ogni caso sono talmente accecati dalla passione esclusiva del proprio potere da non riservare neanche un pensiero al popolo di cui sono responsabili, gli italiani non hanno vie d’uscita.

Il quadro è davvero terribile. Nella giornata di sabato 20 aprile 2013, tutta occupata dalle operazioni per l’elezione del presidente della Repubblica, i politici hanno votato, parlato, discusso ininterrottamente, seguiti minuto per minuto, passo per passo, dai loro sacerdoti – i giornalisti – ma non una sola volta è stato evocato da alcuno il suicidio avvenuto poche ore prima di un imprenditore del Nord-Est, Fermo Santarossa, a capo di un’importante azienda di costruzione di mobili, che ha preferito uccidersi piuttosto che licenziare, costretto dalla crisi, cento dei suoi operai. Si è ulteriormente allungata così l’impressionante serie di suicidi avvenuti da quando, con il governo Monti, salvare la moneta «euro» è diventato per gli italiani il dovere supremo cui bisogna sacrificare ogni bene, compresa la vita. Rimanere nell’euro, infatti, è come la conquista del Santo Sepolcro per i crociati: impossibile rinunciarvi. Nel nuovo secolo, dunque, quel Duemila che era stato atteso con tanta speranza di assolute novità, quello che era stato inaugurato e benedetto da un solenne Giubileo, voluto con tutte le sue forze dallo stesso Romano Prodi che adesso ne esce sconfitto, si ripresentano, sia pure in brandelli, le vecchie categorie del Sacro. La fenomenologia sacrificale, che ne rappresenta il carattere centrale, si manifesta, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, attraverso la formazione di una nuova, impensabile categoria di «martiri»: quelli che offrono la propria morte al dio Euro.

Quali orribili analogie, però, suscitano i chierici della moneta! Siamo arrivati al punto di coltivare il sacro demonico senza più neanche credere al demonio. Il demonico è questo: essere costretti a testimoniare con la vita il valore assoluto del denaro, «sterco del Diavolo», secondo un vecchio detto. Eppure, visto che non ci ribelliamo all’adorazione dell’euro, che non gridiamo con tutte le nostre forze che nulla è più immorale, più infame, che erigere un altare ad una moneta e offrirgli il sacrificio di tante vite costrette ad immolarsi per lui, saremo noi ad essere condannati. Nessuno ci potrà assolvere.

Siamo abituati, ormai, all’indifferente silenzio di Mario Monti e di Giorgio Napolitano davanti a questi suicidi; ma non abbiamo potuto fare a meno di notare che, nelle accaloratissime discussioni sulla scelta dell’uno o dell’altro candidato alla presidenza, protrattesi per tanti giorni, politici e giornalisti non hanno mai neanche accennato all’Europa e al dio Euro, come se non fossero queste le cause fondamentali della crisi.

(...)

Adesso era giunto il momento della presa diretta del potere politico, collocando al governo uno dei loro, senza più camuffamenti di nessun genere: l’Italia avrebbe finalmente rivelato a tutti quale fosse la meta prefissata dal Laboratorio per la Distruzione. Questa meta può essere riassunta in tre punti principali: la distruzione dei popoli in quanto «popoli» in Europa cominciando dal mettere in luce come positivo e lodato da tutti il mescolamento di africani e orientali fra gli italiani; eliminare dichiaratamente il primato dello «Stato» attraverso la sottomissione del bilancio alla Banca centrale europea, quindi di tutte le banche centrali.

Tutti questi «passaggi» erano in gestazione già da molti anni: il governo Letta, come abbiamo detto, è servito esclusivamente a gridare in faccia al mondo che la meta era stata raggiunta e raggiunta in Italia, ossia nella Nazione fondamento imprescindibile dell’Unione e che rappresenta e riassume agli occhi di tutti la bellezza, l’arte, la civiltà, la storia europea.

La presenza di una grande massa di africani e orientali negli Stati d’Europa, dalla Francia alla Germania, dall’Inghilterra alla Spagna, al Belgio, alla Danimarca, alla Svezia, è una realtà di cui i governanti parlano poco e malvolentieri proprio per non spaventare i sudditi, con la complicità dei giornalisti che anch’essi ne parlano poco, ma si tratta di masse ormai prevalenti nei quartieri e nelle periferie delle grandi città ovunque. Sarebbe sufficiente fare un solo percorso nelle metropolitane di Parigi, di Roma, di Londra per vedere quasi soltanto persone di colore. Dei tribunali islamici che gestiscono le cause della giustizia per i musulmani in Germania si è lamentata più volte Angela Merkel, senza riuscire a fermarli, ma si sa che sono presenti ovunque c’è un numero sufficiente di musulmani e che l’America ne riconosce la legittimità. Lo stesso vale per la poligamia e per tanti altri aspetti del costume coranico che la civiltà romana e cristiana aveva messo al bando. Sul pericolo che comporta per la civiltà europea la presenza di questa massa enorme di stranieri, ha messo in guardia il presidente Putin in un discorso tenuto al Convegno sui destini dell’Europa e dell’Unione doganale euroasiatica tenutosi a Valdaj, l’unico politico che riesca a guardare oggettivamente e con giusta preoccupazione al degrado europeo. D’altra parte che sarebbe toccato alla Russia conservare qualche residuo della civiltà europea, soprattutto dell’identità cristiana dell’Europa, era facilmente prevedibile.(21) Ciò di cui però neanche Putin riesce a convincersi è che questo degrado è voluto, sollecitato, spinto verso la meta finale con tutta la violenza del loro potere dai politici stessi dell’Europa. Una cosa è credere che siano stati compiuti e che si compiano degli errori, ben altra cosa è sapere che sono i governanti ad uccidere consapevolmente i propri popoli e a distruggere le proprie Nazioni.

(...)

Il tradimento verso la Nazione Italia da parte dei politici e dei loro partiti è totale. Il Pdl in primis visto che ha favorito l’insediamento del governo Monti e successivamente quello del governo Letta. Il governo Monti ha provveduto alla prima fase, indispensabile al passaggio dell’Italia sotto la direzione dei banchieri in vista del governo mondiale, quella della «bancalizzazione» dello Stato. Il territorio italiano si è coperto di innumerevoli agenzie bancarie; i cittadini sono stati obbligati ad aprire ognuno un conto corrente, alimentando quindi le banche e mettendosi sotto il controllo del governo per ogni movimento di denaro. Per la seconda fase, quella direttamente alle dipendenze dell’Ue, il partito di Berlusconi ha organizzato il governo delle cosiddette «larghe intese», insediando finalmente i comunisti al governo. È un governo che fa vergogna ad una Nazione che presume di essere democratica e civile visto che vi si trovano ministri privi di specifiche qualifiche ed esclusivamente amici dei partiti. È, infatti, ministro dei Beni culturali una persona che ha, come titolo di benemerenza, la protezione di Massimo D’Alema. I Beni Culturali significano «l’Italia», il suo patrimonio unico al mondo, quello che fa dell’Italia in realtà il testimone e il custode della storia e delle opere dell’Occidente. Come è possibile offendere in tal modo gli italiani? Le migliaia di studiosi di tutte le discipline, dall’archeologia alla storia, dalle lingue classiche antiche alla filologia, alla critica d’arte, alla musica, che hanno dedicato la propria vita, la propria intelligenza a queste conoscenze? E il ministro della Salute? La signora Beatrice Lorenzin non possiede neanche il minimo titolo richiesto dallo Stato per esercitare una professione. Ci si rende conto di che cosa significhi essere a capo dell’organismo più specializzato e più importante per la vita di sessanta milioni di persone? Essere a capo di migliaia di professionisti: medici, ricercatori, biologi, chimici, clinici, professori universitari, infermieri, che in termini di competenze specifiche si trovano al massimo livello del sapere, della responsabilità etica, delle scelte e delle decisioni più difficili perché comportano la vita e la morte? Il titolo di questo ministro, quello che espone nel suo sito personale, è di essere un «politico». Per valutare la coscienza intellettuale ed etica della persona che ha accettato tale nomina non si trovano le parole. Ma per quanto riguarda i partiti che le hanno proposte, il Capo del governo che ha fatto queste scelte e il Capo dello Stato che le ha approvate, non si può fare altro che ripetere che i nostri governanti disprezzano e odiano l’Italia e gli italiani.


Capitolo 3. Nuovo Risorgimento

Una Patria: modello italiano contro modello ugualitario

È indispensabile lavorare su tutti i fronti, come abbiamo detto, sapendo che, contro la ricostruzione dell’Italia come Stato nazionale e degli italiani come «popolo» – un popolo cosciente della propria identità, della propria storia, delle proprie capacità creative –, è stata eretta una barriera fortissima, visibile e non visibile, costituita all’esterno da tutte le forze dell’omologazione e dell’uguaglianza universale e, all’interno, dai nostri stessi governanti, dai leader dell’informazione e dalle gerarchie della Chiesa. Ma costituita anche dal nostro stesso modello culturale, fondato ormai in ogni settore su valori e su strutture ugualitarie e che, per la logica intrinseca che lo sostanzia, fa scattare, anche senza che nessuno lo provochi, il dispositivo dell’uguaglianza in ogni campo, tutte le volte che se ne presenta l’occasione.

Bisognerà, quindi, puntare sulla trasformazione di queste strutture sapendo che è necessario un continuo e intelligente lavoro critico con il quale non smettere mai di individuare e di tener conto delle ricadute di questa trasformazione anche nei settori apparentemente più lontani e diversi fra loro, perché un modello culturale è formato appunto da un insieme interrelato e interdipendente di costumi, di comportamenti, di tratti, la cui forza è data dalla loro sistematicità logica. Un lavoro, però, che per dare risultati concreti richiede molta volontà, molto tempo e la collaborazione, o almeno il consenso, dei politici, dei giornalisti, degli opinionisti, di coloro che si trovano alla guida della società. Come ottenerlo? Convincendo di queste tesi qualche politico abbastanza potente per incidere sulle istituzioni? Formando un movimento politico o un partito in grado di giungere al governo? Con una rivoluzione violenta? Impossibile dare una risposta. Quello che però si può provare a fare subito è la creazione di un movimento politico-culturale che cominci a far conoscere queste idee e contemporaneamente aggreghi un ristrettissimo gruppo di leader che programmi e guidi a mano a mano tutti i settori della vita sociale e culturale della Nazione verso questa meta.

(...)

È necessario tendere ad un Nuovo Risorgimento, per prima cosa convincendoci che si tratta di una battaglia all’ultimo sangue, molto più difficile di quella dell’Ottocento. Prima di tutto perché non conosciamo coloro contro i quali vogliamo combattere. In secondo luogo perché, come abbiamo potuto vedere dalle analisi fatte nelle pagine precedenti, bisogna combattere contro opinioni e tendenze mondiali profondamente introiettate dagli individui e dai popoli. L’Italia, come sappiamo, ne rappresenta un esemplare perfetto: il comunismo è al governo perché l’ugualitarismo e il mondialismo sono la realizzazione dell’ideologia comunista.

Tendere a un Nuovo Risorgimento significa perciò recuperare una Patria, una Nazione, un’identità precisa, diversa da tutte le altre, quella italiana.


Identità e identità italiana

Bisogna avere il coraggio di affrontare il discorso tabù: l’identità. L’identità non è data e non può essere stabilita dallo Stato. Non è lo Stato che crea un popolo, ma un Popolo che crea lo Stato. Le discussioni sulla questione della cittadinanza da concedere o non concedere agli immigrati e che attualmente sono diventate molto accese a causa della istituzione nel governo Letta di un ministero per l’Integrazione degli immigrati sono del tutto fuor di senso.

L’identità non si acquista, e nessun potere la può né vendere né regalare, tanto meno «imporre». L’identità è strettamente connessa, fa parte della «cultura» di un popolo e della «personalità di base» di ogni individuo che appartiene a quella cultura. Identità e cultura sono quindi un patrimonio che l’individuo possiede geneticamente allo stato potenziale alla nascita, così come possiede la capacità di parlare, capacità che si attiva, come la lingua, attraverso il gruppo che vive, parla, gestisce intorno. La lingua è anch’essa frutto di una lunga costruzione culturale, ne riflette i significati, i modi con i quali quel determinato popolo percepisce il suo ambiente e vi reagisce, la sua sensibilità ai suoni, ai colori, agli odori, al paesaggio che conosce fin dalla prima volta che ha aperto gli occhi. Se tutti i viaggiatori, gli scrittori, i poeti, i linguisti, i filosofi hanno rilevato, con ammirazione, la «musicalità» della lingua italiana, è perché l’armonia fa parte del modello culturale italiano, è perché nessun popolo ha creato tanta musica quanto il popolo italiano, è perché la percezione dei suoni è intrinseca al modo di sentire i ritmi, le altezze, le gradazioni dei sentimenti e delle emozioni degli italiani.

Insomma, la personalità di base di un popolo è ciò che costituisce la struttura della personalità di ogni individuo che appartiene a quel popolo.

Come si spiegherebbe altrimenti la ricchissima produzione musicale degli italiani, dei tedeschi e la quasi nulla produzione musicale degli inglesi che pure appartengono alla civiltà europea, alla sua storia, alla sua religione, alla sua tecnica? È evidente che i popoli del nord-ovest europeo producono meno musica di quelli del nord-est (non solo Germania e Austria, ma anche Ungheria, Polonia). L’Italia, in ogni caso, per quanto riguarda la produzione musicale costituisce un fatto eccezionale. D’altra parte la capacità genetica musicale è l’unica della quale (almeno ad oggi, visto che è praticamente vietato fare ricerca sull’eredità genetica della cultura) abbiamo prove troppo evidenti per essere smentite. L’«idea» musicale non la si può apprendere con lo studio.

(...)


Populismo di genere

Si è stabilita nell’aria, senza che nessuna legge l’abbia prescritta, una forma di «populismo di genere» in base al quale non si può esprimere (ma neanche pensare) alcun giudizio negativo né nei confronti delle donne in generale né di una donna in particolare. Contemporaneamente si è diffusa l’abitudine, da parte di chiunque detenga un potere, di collocare il maggior numero di donne in tutti i posti e gli incarichi possibili, raggiungendo così due nobili scopi in una volta: il corale elogio per aver scelto e promosso il sesso femminile e la sicurezza che qualsiasi cosa si faccia o si decida attraverso di loro, nessuno oserà criticarla. Ne abbiamo un esempio illuminante sotto gli occhi: nel governo Letta non soltanto le donne sono molto numerose, ma sono stati affidati a persone di genere femminile i settori più «difficili», ossia quelli da gestire esplicitamente contro gli italiani e nella direzione euromondialista per la quale il governo stesso è nato. Ministro degli Esteri, come abbiamo già notato, è una persona, la signora Emma Bonino, che è stata chiamata proprio per sottolineare con assoluta determinazione e con violenza la nuova faccia dell’Italia, una Nazione che propaganda nel mondo, attraverso l’immagine e il comportamento del suo ministro degli Esteri, l’abolizione della Nazione, l’aborto, le unioni libere, l’omosessualità, la droga, il mondialismo. C’è poi un ministero, quello per l’«Integrazione» degli immigrati, cui è preposta una persona, non soltanto di sesso femminile, ma, affinché fosse chiaro che si trattava di una integrazione contro gli italiani, un’africana, che si vanta della sua pelle nera e della sua origine congolese. Nessuno ha osato protestare di fronte a un simile affronto alla civiltà italiana e alla Nazione italiana tanto sono ormai passivi i cittadini davanti al potere dei governanti. È certo, però, che si è trattato di una scelta ben motivata da parte del governo in quanto serve da rompiflutto; in seguito, superato il primo impatto, agli italiani potrà essere imposto senza traumi anche un ministro africano di sesso maschile.

(...)


Inculturazione al femminile

L’Occidente femminilizzato rappresenta la migliore garanzia per il Laboratorio per la Distruzione: pace, uguaglianza, omogeneizzazione intellettuale al basso sono assicurate. Femminilizzazione significa dunque sicurezza che non ci saranno critiche? Che il Potere ha oggi nella maggioranza delle donne, così come li ha avuti in passato la Chiesa, i suoi migliori soldati? Non sembra che ci possano essere dubbi in proposito. Le donne si sono lamentate fin dagli inizi del femminismo di non poter cambiare nulla della situazione della società perché non avevano il potere. Bisogna constatare che adesso che ce l’hanno sono tanto passive quanto lo erano le casalinghe: non dicono una parola contro le istruzioni impartite dall’alto neppure nella scuola, che pure è totalmente nelle loro mani.

Se prendiamo ad esempio i due volumi Dialogo con la storia e con l’attualità di Antonio Brancati-Trebi Pagliarani e LetterAutori di Beatrice Panebianco, Mario Gineprini e Simona Seminara, uno edito da La Nuova Italia, l’altro da Zanichelli, adottati per l’anno 2013, ci rendiamo subito conto di quale sia il «metodo» prescelto. Volumi grossi e pesanti,(22) carta lucida e pagine piene di illustrazioni con accanto piccole didascalie. Notizie flash per cui in una pagina c’è praticamente un secolo, senza che il lettore faccia la minima fatica: non deve né pensare, né capire. Insomma: la storia è, la pittura è, il Papato è. Nient’altro. Un «metodo», se vogliamo dargli questa dignità, che risponde al metodo del questionario, imposto come forma d’esame dall’Ue in tutte le discipline. La capacità di ragionare, di criticare, di approfondire è esclusa. Volutamente esclusa.(23)

Alcune discipline fondamentali perché l’uomo possa dirsi e riconoscersi «uomo», quali la geografia, come abbiamo visto sono state eliminate da ogni tipo di scuola per decisione dell’Ue, una decisione prontamente messa in atto nelle scuole italiane dai ministri dell’Istruzione dell’epoca. Non c’è stata la minima discussione pubblica, la minima incertezza: l’aveva deciso l’Europa e Maria Stella Gelmini, del governo Berlusconi, ha obbedito. Qualcuno si è forse chiesto il motivo di una tale assurdità? Ci sono forse, a Bruxelles, insigni scienziati a dirigere il «sapere», e il metodo del sapere, per i milioni di esseri umani che ne dipendono? Maria Stella Gelmini ha forse chiesto un parere, una spiegazione, ai titolari delle cattedre universitarie italiane dove la geografia è conoscenza fondante in se stessa e per decine e decine di altre discipline e ricerche scientifiche? Dall’alto della sua superba ignoranza, un politico non ha bisogno di conoscere nulla, lo sappiamo bene: la geografia non serve, punto e basta.

Non si creda, però, che dietro alle decisioni, apparentemente assurde, dei governanti d’Europa, non vi siano sempre delle motivazioni ben precise. L’abbiamo detto ormai molte volte, ma bisogna ripeterlo perché c’è una resistenza fortissima, anche da parte delle persone più attente e critiche a crederlo: tutto, assolutamente tutto quello che si decide nell’Ue è diretto alla distruzione della civiltà europea, allo svuotamento della capacità critica dei cittadini, e ovviamente l’ignoranza delle scienze fondamentali è uno dei migliori strumenti per raggiungere questo scopo.

(...)

Non abbiamo ricerche specifiche sugli effetti psicologici e sociali di questo sistema d’inculturazione, né sulle femmine né sui maschi, ma possiamo tentare qualche deduzione sulla base della logica e della realtà sociale che oggi ci troviamo di fronte. Il risultato più evidente è l’emersione a livello di valore assoluto dell’omosessualità maschile, fenomeno che non si è mai verificato in nessuna società, né del passato né odierna, e che caratterizza oggi esclusivamente la società occidentale segnalandone la libido moriendi. L’altro risultato, anch’esso tanto evidente da non aver bisogno di particolari dimostrazioni, è la sicurezza delle donne di essere «migliori» dei maschi e la loro assunzione di un comportamento sessuo-aggressivo senza remore, senza freni, sia fisicamente che intellettualmente. Bisogna anche aggiungere che la società si è subito impadronita di questo nuovo «tema» culturale, con la fame di novità «a oggetto donna» che affligge sempre i mezzi d’informazione e di spettacolo, usandolo, sfruttandolo, caricandolo al massimo nella direzione del sesso e della violenza. Si è creato così quel circolo stimolo-risposta che finisce con l’accrescere di continuo l’intensità del fenomeno stesso, tanto nella rappresentazione quanto nella realtà. Non c’è film o telefilm, non c’è gioco o dibattito televisivo dove le donne non siano protagoniste quasi assolute, esibendosi sessualmente nella più ricercata erotizzazione dell’abbigliamento e al tempo stesso nella violenza dello sguardo e della pistola in pugno che ha cancellato con un colpo solo l’immagine della «donna ideale». Chi potrebbe ormai più cantare: «Tanto gentile e tanto onesta pare»?

(...)

Il territorio della Repubblica italiana appartiene al popolo italiano. Nessuno ha il diritto di venderne una qualsiasi parte, né lo Stato, né i Comuni, né la Chiesa né qualsiasi altro istituto, fondazione, ente pubblico o privato (i politici – lo ripetiamo – ne sono soltanto gli amministratori).

(...)

Il rapporto fra densità demografica e territorio incide sulla natalità. È la natura che provvede in linea di massima a far aumentare o diminuire la natalità in funzione della densità. Naturalmente per quanto riguarda la specie umana si aggiungono, ai meccanismi messi in atto dalla natura, molti altri fattori dipendenti dalle scelte volontarie che compiono gli uomini, ma queste scelte non possono prescindere dai dati naturali (quali appunto lo spazio nel quale un gruppo si trova a vivere) che vanno assunti a livello di ragione con tutto quello che il sistema logico razionale comporta. È evidente che, se la natalità diminuisce, come è drasticamente diminuita in Italia negli ultimi vent’anni, sotto la soglia del rischio di sopravvivenza, questo succede non soltanto per l’enorme divario fra la ristrettezza del territorio e la popolazione, ma anche perché, mentre i cittadini hanno provveduto a limitare le nascite (problema connesso anche, come accennato in altre parti del libro, al cambiamento dei significati e dei valori della procreazione, dei ruoli paterni e materni), la natura non sa che i governanti fanno volutamente arrivare dall’estero, così come permettono che sbarchino in Italia, milioni di stranieri. Si è creato in questo modo un circolo perverso a causa del quale più aumentano gli stranieri più gli italiani mettono al mondo pochi figli. Gli stranieri inoltre, in maggioranza musulmani, oltre ad avere come valore nella propria cultura la massima prolificità, tendono ad avere il maggior numero di figli proprio perché invadono e si impossessano di un nuovo territorio e vogliono così aumentare, come tutti i conquistatori hanno sempre fatto, con rapidità e profondità il proprio radicamento.

(...)

Il termine «accoglienza» è diventato termine tecnico per i «doveri» nei confronti degli immigrati, ed è usato dai governanti, da ogni detentore del potere, in forma intimidatoria nei confronti degli italiani, non soltanto ad indicare i loro obblighi, ma anche come indice della positività o negatività dei loro sentimenti. Uno Stato, quindi, quello italiano, sottoposto alle Autorità europee, che è diventato una «Chiesa», una Chiesa totalitaria, che inculca la sua religione ai sudditi e pretende che ne vengano osservati i dogmi pena il disprezzo morale, multe finanziarie e il carcere. Insomma l’ideologia dell’«accoglienza» si è costituita come l’arma più efficace per depotenziare la vitalità, la fiducia in se stesso, la forza di un popolo e indurlo all’estinzione. Gli sbarchi a Lampedusa ne sono per certi aspetti lo strumento e il simbolo. Un Papa che grida, mentendo spudoratamente: «Vergogna!», mentre gli italiani, gli abitanti di Lampedusa, sono da anni succubi, prigionieri, costretti a soccorrere e a mantenere finanziariamente tutti coloro che vi giungono senza permesso, senza un lavoro, ma soprattutto senza un minimo di motivazione valida, offende la verità e si mette al servizio degli oppressori dei popoli. Degli africani e del loro comportamento parleremo in un altro paragrafo del libro, ma quello che non è sopportabile e che si deve denunciare senza timore di venir meno al rispetto dovuto ad un Papa è che nessuno, tanto meno un Papa, che afferma di rappresentare i credenti in Cristo, può allinearsi alle menzogne dei banchieri, dei governanti che perseguono il potere mondiale, senza che noi lo si denunci. Ha mentito Bergoglio, per far parte dei distruttori della civiltà europea e farsi applaudire dai loro seguaci, ma il Vaticano si trova in Italia e sarà bene che non se ne dimentichi. Non siamo ancora morti e abbiamo intenzione di non farci impiccare dai banchieri.

(...)

continua...


Report Page