Fusion is, always, only 30 years away

Fusion is, always, only 30 years away

Avvocato Atomico
JET: Joint European Torus.
Credit to: EUROfusion

Post originale su FB: https://www.facebook.com/AvvocatoAtomico/posts/142210317445167

(articolo scritto da Carlo Carrelli, che ha gentilmente offerto la sua collaborazione alla pagina)

Spesso, nei commenti sotto ai post che parlano a vario titolo di energia nucleare, si legge che la fissione ha problemi insormontabili e che invece la fusione, quella sì, salverà il mondo. Magari chi ha qualche anno in più si dice disilluso, sostenendo che la fusione è la chimera degli anni ’80, che non la si farà mai. Addirittura i più temerari tirano in ballo la fusione fredda, che in realtà è stata smentita ormai ogni oltre ragionevole dubbio. La verità è che sulla fusione si sa poco (e come spesso capita, male): vuoi perché è difficile da capire, vuoi perché chi ci lavora tende a rilasciare notizie divulgative con il contagocce per non rischiare di suscitare aspettative irrealistiche, la fusione nucleare è avvolta in un alone di mistero.

E allora parliamone.

Innanzitutto, dovete sapere che esiste un macabro adagio fra gli addetti ai lavori: che la fusione è, sempre, a trent’anni di distanza dalla realizzazione. Un modo per prendersi in giro, o è davvero così?

All’inizio, quando i russi tirarono fuori la prima macchina sperimentale, il tokamak (una camera a vuoto toroidale, circondata di elettromagneti), era proprio così: tutti credevano davvero che di lì a trent’anni l’elettricità sarebbe stata addirittura "too cheap to meter", troppo economica per giustificare anche la sola presenza di un contatore. Poi, accendendola, si accorsero che il plasma, quel miscuglio di protoni ed elettroni ad alta temperatura sospesi magneticamente nel vuoto, più acquisiva energia e più diventava nervoso, instabile.

Qualche anno dopo venne acceso l’allora imponente e futuristico JET, il Joint European Torus (foto 1, credit to EUROfusion), in Inghilterra: gli scienziati avevano imparato a stabilizzare (più o meno) il plasma e a fargli prendere potenza, fino a fondere prima il deuterio, e poi una miscela di deuterio e trizio, ottenendo elio. Ma l’energia che ci voleva per portare pochi grammi di gas a fusione era più di quella che la fusione stessa sprigionava: bisognava ottimizzare il processo.

Tra gli anni ’70 e ’80 si accesero diverse macchine in giro per il mondo (anche in Italia, a Frascati): un po' tutti volevano partecipare a quella che sembrava una scommessa vincente. Da allora sono passati ben più di trent'anni, eppure oggi siamo ancora a raccontarci che fra trent’anni, forse, vedremo la fusione.

Nella corsa al sacro graal non ci sono soltanto i tokamak: il mondo pullula di altri concept, più o meno esotici, più o meno funzionanti, ma il tokamak resta probabilmente la tecnologia più matura per arrivare all'obiettivo finale: attaccare il primo reattore a fusione alla rete elettrica.

Ma a che punto siamo, davvero?

Onestamente, è difficile a dirsi. Molte entità nazionali e sovranazionali hanno programmi il cui obiettivo è quello del reattore commerciabile, con termini temporali anche molto variabili fra loro, e la cui riuscita dipende anche dal successo di progetti internazionali. Uno dei più completi, e forse concreti, è quello europeo, la cui roadmap prevede la prima generazione di reattori commerciali accendersi fra il 2060 ed il 2080: come avrete immaginato, realizzare la fusione è dannatamente complesso.

Ricapitoliamo.

Come spiegato nel precedente articolo sul tema (https://telegra.ph/Fusione-03-25), per far sì che avvenga la fusione bisogna portare i nuclei atomici ad avvicinarsi fra loro, e la via più comoda per farlo è portarli a temperature folli, finché statisticamente qualcuno fra loro superi la forza di repulsione elettrostatica. L’idea del tokamak è concettualmente abbastanza semplice: all'interno di una spira percorsa da corrente si genera un campo magnetico in grado di mantenere sospese, al proprio interno, particelle cariche. Se pieghiamo la spira su se stessa possiamo creare un percorso chiuso, nel quale la particella carica gira in tondo senza mai fermarsi; aggiungendo un secondo avvolgimento all'interno del “buco” della ciambella, si farà infine percorrere alla particella una traiettoria elicoidale all'interno di un loop chiuso.

Le particelle cariche le otteniamo riscaldando un gas finché gli atomi che lo compongono non si ionizzano, e le chiamiamo plasma perché faffigo. Dopodiché in mezzo ai magneti creiamo una camera a vuoto, perché ionizzare il gas costa tanta energia e vogliamo essere sicuri di non sprecarla, e quindi di ionizzare solo le particelle che ci servono, iniettate dentro di volta in volta. Fine della storia, o quasi.

Il plasma e la sua fisica.

Un fluido conduttore è quanto di più rognoso possiate dare da studiare ad un fisico, ed è quanto di meno intuitivo esista da analizzare. Nei tokamak vogliamo dagli una forma e mantenerla più o meno stabile mentre ne aumentiamo a dismisura l’energia.

Oggi i reattori sono estremamente più complessi di quelli di un tempo e c’è finalmente un buon accordo fra gli esperimenti nelle macchine esistenti e le simulazioni dei codici di calcolo: sappiamo dire con una certa confidenza come si comporterà il plasma, e abbiamo messo a punto tanti bei sistemi che lo riescono a controllare efficacemente. Nelle macchine odierne si vedono spesso plasmi molto energetici, e le configurazioni magnetiche dei tokamak permettono una stabilità maggiore rispetto a prima.

Tuttavia un reattore commerciale funziona solo se non si ferma quasi mai, mentre le macchine attuali sono progettate per funzionare solo pochi secondi alla volta.

I sistemi per sostenere la temperatura del plasma funzionano però sempre meglio e sono sempre più efficienti; i magneti che ne assicurano il confinamento, grazie ai materiali superconduttori, assorbono poca energia e confinano tanto.

E ovunque nel mondo si lavora di concerto fra i centri di ricerca, le università e le industrie per creare macchinari di supporto sempre più performanti: sistemi criogenici per mantenere i magneti a bassa temperatura (MOLTO bassa), sistemi di alimentazione, di manutenzione remota, pompe a vuoto, sistemi di raffreddamento...

Cosa manca? Manca una macchina che integri tutta questa roba e che ci dia la prova definitiva che, tutti insieme, questi apparecchi funzionano come dovrebbero. Questa macchina si chiama ITER, e attualmente è in costruzione nel sud della Francia.

È forse il progetto più complesso del mondo sotto moltissimi aspetti (fisica, ingegneria, logistica, burocrazia, diplomazia, politica), e se tutto va come sta andando (magicamente molto bene, checchè ne dicano le malelingue) vedrà il primo plasma fra 5 anni. Ma di ITER avremo modo di parlare più approfonditamente in articoli futuri.

Che materiali servono?

Questo è uno degli argomenti più scottanti – in senso letterale. Avrete forse sentito dire che un plasma fusionistico viaggia fra i 100 ed i 150 MILIONI di gradi centigradi. A quella temperatura, il plasma irraggia maledettamente forte.

Per farvi capire di cosa sto parlando: avete presente le vecchie lampadine ad incandescenza? Quelle col filo dentro, che si riscaldava a più di 1000°C e illuminava la stanza. Stesso principio: immaginate che il plasma sia un filo vagamente attorcigliato su se stesso al centro di una lampadina a forma ciambella, caldissimo. I componenti più sollecitati dei prossimi reattori sono progettati per sopportare un irraggiamento di circa 20 megawatt per metro quadro, equivalente a quello di ventimila soli in spiaggia ad agosto.

I materiali che non evaporano all’istante sotto un tale flusso di calore sono davvero pochi, e vanno raffreddati adeguatamente. E non è l’unico guaio per i poveri componenti che stanno lì dentro: una singola reazione di fusione tra deuterio e trizio rilascia una bella secchiata di energia, ma la maggior parte di questa (circa 14.1 MeV) viene ceduta ad un singolo neutrone che schizza via velocissimo, ed impatta sui nostri famosi componenti interni. Il ché da un lato ci piace, perché li riscalda in modo abbastanza uniforme e ne possiamo, con calma, estrarre l’energia. Dall’altro, purtroppo, li danneggia considerevolmente.

La ricerca, al momento, è concentrata proprio sui materiali, perché occorrono leghe sufficientemente resistenti sia al calore che ai neutroni veloci da permettere l’utilizzo di un reattore per un tempo sufficiente.

-Carlo

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