American Gods

American Gods

Neil Gaiman

Sam si guardò intorno per vedere se aveva dimenticato qualcosa. Niente. Aveva fatto un buon lavoro. Si sfilò il grembiule, lo appese in cucina. Poi tornò e cominciò a spegnere le luci. «Recentemente in effetti io ho fatto qualche sogno pazzesco» disse. «Ho perfino cominciato cominciato a scriverli in un diario. Quando mi sveglio li scrivo. Però poi quando leggo quello che ho scritto non vogliono dire più niente.»
Infilò la giacca e i guanti.

«Io ho studiato un po’ l’interpretazione dei sogni» disse Natalie. Natalie aveva fatto un po’ di tutto. Dallo studio di antiche discipline di autodifesa alle saune, dal feng shui e alla jazz dance. «Se me li racconti ti dico che cosa significano.»

«Va bene.» Sam aprì la porta e spense l’ultimo interruttore. Fece uscire Natalie, la seguì e chiuse l’ingresso della Coffee House. «Qualche volta ho sognato della gente che cadeva dal cielo. Altre volte sono sottoterra che parlo con una donna con la testa di bufalo. E altre ancora sogno questo tizio che ho baciato in un bar il mese scorso.»
Natalie sbuffò. «Una storia di cui avresti dovuto parlarmi?»
«Forse. Non una storia come pensi tu. Era un bacio tipo vaffanculo.»

«Gli stavi dicendo di andare ’affanculo?»
«No, stavo dicendo a tutti gli altri di andarci. Ma avresti dovuto esserci per capire la situazione.»
I tacchi di Natalie risuonavano sul marciapiede e Sam le camminava accanto. «È il proprietario della mia macchina.»
«Quella cosa rossa che hai preso quando sei andata a trovare tua sorella?»
«Sì.»
«E lui dov’è finito? Perché non se la riprende?»
«Non lo so. Forse è in prigione. Forse è morto.»
«Morto?»

«È possibile.» Sam esitò. «Qualche settimana fa ne ero certa. Non so dirti come ma lo sapevo con assoluta sicurezza. Poi invece ho cominciato a pensare che forse no, non era morto. Non so. Può darsi che le mie percezioni extrasensoriali non funzionino granché.»
«Per quanto tempo pensi di tenerti la macchina?»
«Fino a quando qualcuno non viene a reclamarla. Penso che lui vorrebbe così.»
Natalie la guardò sconcertata, poi disse: «E queste da dove vengono?».
«Cosa?»

«Le rose. Quelle che hai in mano, Sam. Da dove sono arrivate? Le avevi già, quando siamo uscite dalla Coffee House? Non credo, le avrei notate.»
Sam guardò in basso e sorrise: «Che carina sei stata. Scusa se non ti ho ringraziato subito. Sono bellissime. Grazie. Non sarebbero state più adatte rosse?».
Erano sei rose bianche, con i gambi avvolti in un pezzetto di carta.
«Non te le ho date io» disse Natalie con una smorfia.
E nessuna delle due parlò più fino a quando non arrivarono al cinema.

Tornata a casa, quella notte, Sam mise le rose in un vaso improvvisato. In seguito ne fece una copia in bronzo e tenne per sé la storia di come le aveva avute, anche se una notte che era molto ubriaca raccontò a Caroline, che aveva preso il posto di Natalie, la storia delle rose fantasma. Caroline convenne con lei che si trattava di una storia davvero strana e magica, ma in fondo al cuore non credette a una sola parola e quindi tutto andò bene.

Shadow aveva parcheggiato vicino a un telefono pubblico. Il numero gliel’aveva dato il servizio informazioni.
No, gli dissero. Non c’è. Probabilmente è ancora alla Coffee House.
Durante il tragitto si fermò per comperare le rose.
Trovò il locale dove lavorava Sam, attraversò la strada e rimase ad aspettare e osservare davanti a una libreria.

Il locale chiudeva alle otto, e dieci minuti dopo le otto Shadow vide Sam Black Crow uscire in compagnia di una donna più piccola con i capelli a coda di cavallo dall’insolita sfumatura di rosso, camminavano per mano come se quel gesto bastasse a tenere il mondo a bada, e chiacchieravano, o meglio Sam parlava e l’amica ascoltava. Shadow si chiese che cosa le stesse dicendo. Parlando sorrideva.

Le due donne attraversarono la strada e gli passarono davanti. La ragazza con la coda di cavallo gli arrivò a trenta centimetri di distanza, Shadow avrebbe potuto allungare una mano e toccarla, ma loro non lo videro.
Rimase a osservarle mentre si allontanavano lungo la strada e provò uno spasimo, come se dentro gli risuonasse un accordo in minore.

Era stato un bel bacio, rifletteva Shadow, però Sam non l’aveva mai guardato come stava guardando la ragazza con la coda di cavallo e non lo avrebbe mai più potuto fare.
«Che diavolo, mi rimane pur sempre il ricordo di Perù» disse tra sé mentre Sam si allontanava. «Di El Paso. I ricordi non me li toglie nessuno.»
Poi la rincorse e le infilò in mano le rose. Si allontanò velocemente perché non voleva che lei gliele restituisse.

Risalì la collina per tornare dove aveva parcheggiato la macchina e partì seguendo le indicazioni per Chicago senza superare mai il limite di velocità.
Era l’ultima cosa che doveva fare.
Non aveva fretta.

Passò la notte in un Motel 6. Svegliandosi la mattina si rese conto che i suoi indumenti puzzavano ancora della melma del lago. Li indossò pensando che comunque non dovevano durare troppo.

Pagò il conto. Cercò l’edificio di arenaria e riuscì a trovarlo facilmente. Era più piccolo di come lo ricordava.
Imboccò le scale camminando con calma, perché altrimenti avrebbe voluto dire che era ansioso di andare a morire, ma nemmeno troppo piano, perché la lentezza avrebbe significato paura. Qualcuno aveva spazzato e lavato le scale: non c’erano più i sacchi neri dell’immondizia, e invece che di verdura marcia adesso puzzavano di candeggina.

La porta rossa all’ultimo piano era spalancata: nell’aria aleggiava un odore di cibo stantio. Dopo un attimo di esitazione Shadow suonò il campanello.

«Arrivo!» gridò una voce femminile, e piccola come uno gnomo e straordinariamente bionda Utrennjaja Zarja uscì dalla cucina e si affrettò verso di lui asciugandosi le mani sul grembiule. Aveva un’aria diversa dalla prima volta, pensò Shadow, sembrava felice. Le guance erano rosse di fard e nei suoi vecchi occhi brillava una luce. Vedendolo rimase a bocca aperta e gridò: «Sei tornato a trovarci!». Gli corse incontro a braccia aperte. Lui si abbassò per abbracciarla, lei lo baciò sulla guancia. «È così bello rivederti! Però devi andare via subito.»

Shadow entrò. Tutte le porte delle stanze erano aperte (eccetto, naturalmente, quella di Polunochnaja Zarja) ed erano spalancate anche le finestre. Un venticello gentile soffiava lungo il corridoio.
«State facendo le pulizie di primavera» disse Shadow alla donna.
«Aspettiamo un ospite. Adesso però devi andartene davvero. Vuoi un caffè, prima?»
«Sono venuto per Chernobog» disse Shadow. «È arrivato il momento.»

Utrennjaja Zarja scosse la testa con impeto. «No, no. Non vuoi incontrarlo. Non è una buona idea.»
«Lo so, ma l’unica cosa che ho capito veramente su come ci si deve comportare con gli dèi è che se stringi un patto poi lo mantieni. Loro contravvengono a tutte le regole che vogliono. Noi no. Anche se provassi a uscire di qui sono sicuro che i miei piedi mi riporterebbero indietro.»
La donna sporse il labbro inferiore, poi disse: «È vero. Vai via per oggi e torna domani. Domani non ci sarà».

«Chi è?» gridò una voce dal fondo del corridoio. «Utrennjaja Zarja, con chi stai parlando? Non riesco a girare questo materasso da sola.»
Shadow percorse il corridoio e disse: «Buon giorno, Vechernjaja Zarja. Posso aiutarla?». Con un gridolino di sorpresa la donna lasciò cadere il materasso.

La stanza era piena di polvere: c’erano strati di polvere su ogni superficie, di legno e di vetro, e i granelli sospesi nell’aria danzavano nei raggi di sole entrati dalla finestra aperta, disturbati da una raffica occasionale di vento e dal pigro ondeggiare delle tendine di pizzo ingiallito.
Shadow ricordava quella stanza, ci aveva dormito Wednesday. Era la camera di Bielebog.
Vechernjaja Zarja lo guardò con aria incerta. «Il materasso» disse. «Bisogna girarlo.»

«È facile» rispose Shadow. Prese il materasso e lo capovolse con facilità. Era un vecchio letto di legno, e il materasso di piume, che pesava quanto un uomo, ricadde sulla rete alzando un nuvolone di polvere.
«Cosa ci fai qui?» gli chiese lei in tono bellicoso.
«Sono venuto perché in dicembre un giovanotto ha fatto una partita a dama con un vecchio dio e ha perso.»
I capelli grigi di Vechernjaja Zarja erano legati in una crocchia stretta. Fece una smorfia. «Torna domani.»

«Non posso» rispose lui con semplicità.
«È il tuo funerale, allora. Vai a sederti. Utrennjaja Zarja ti porterà una tazza di caffè. Chernobog dovrebbe arrivare da un momento all’altro.»
Shadow ripercorse il corridoio fino in salotto. La stanza, benché ora la finestra fosse aperta, era esattamente come la ricordava. Il gatto grigio che dormiva su un bracciolo del divano socchiuse un occhio, poi, poco impressionato da Shadow, ricominciò a ronfare.

Era lì che aveva sfidato Chernobog a dama, in quella stanza aveva puntato la sua vita per convincere un vecchio a prendere parte all’ultimo maledetto imbroglio di Wednesday. La brezza fresca che entrava dalla finestra aperta scacciava l’aria stantia.
Entrò Utrennjaja Zarja con un vassoio di legno rosso. Accanto alla tazzina smaltata di caffè nero fumante c’era un piattino pieno di biscotti con pezzetti di cioccolato. Appoggiò il vassoio sul tavolo davanti a Shadow.

«Ho rivisto Polunochnaja Zarja» disse lui. «È venuta a trovarmi nell’aldilà e mi ha dato la luna perché mi rischiarasse il cammino. Ha preso qualcosa da me ma non ricordo cosa.»
«Tu le piaci» rispose Utrennjaja Zarja. «Lei sogna tanto. E ci protegge. E talmente coraggiosa.»
«Dov’è Chernobog?»

«Dice che le pulizie di primavera gli danno ai nervi ed è andato a leggere il giornale nel parco. A comprare le sigarette. Magari oggi non ritorna nemmeno. Non sei obbligato ad aspettarlo. Perché non te ne vai? Vieni domani.»

«Aspetterò.» Non c’era nessuna forza magica che gli imponesse di aspettare, Shadow ne era sicuro. Era una decisione sua. Doveva farlo, e se fosse stato l’ultimo gesto della sua vita, bene, era lì di sua spontanea volontà. Dopo di che basta obblighi, niente più misteri né fantasmi.
Sorseggiò il caffè caldo, nero e dolce proprio come lo ricordava.
Sentì arrivare dal corridoio una profonda voce maschile e si mise seduto più diritto. Fu contento di vedere che non gli tremavano le mani.
«Shadow?»

«Buongiorno» disse. Rimase seduto.
Chernobog entrò con una copia del "Chicago Sun Times" che appoggiò sul tavolino. Fissò Shadow, poi gli tese una mano con aria incerta. Si scambiarono una stretta.
«Sono venuto per il nostro accordo. Lei ha fatto la sua parte. Adesso tocca a me.»
Chernobog annuì e aggrottò la fronte. Il sole gli faceva brillare i capelli grigi e i baffi, rendendoli quasi dorati. «È…» si accigliò, «non è…» si interruppe. «Va’ via, è meglio. Non è il momento adatto.»

«Faccia pure con comodo. Io sono pronto.»
Chernobog sospirò. «Tu sei un ragazzo molto stupido, lo sai?»
«Credo di sì.»
«Sei un ragazzo stupido. E in cima a quella montagna hai fatto un ottimo lavoro.»
«Ho fatto quello che dovevo fare.»
«Può darsi.»
Chernobog si avvicinò alla vecchia credenza di legno e si chinò per sfilare da sotto una valigetta diplomatica. Toccò le chiusure che scattarono con un
clic

soddisfacente, sollevò il coperchio e prese dalla valigia un martello. Lo soppesò: sembrava una mazza in miniatura, con il manico di legno macchiato.
Poi si rialzò. Disse: «Io ti sono debitore. Più di quanto tu possa immaginare. Per merito tuo le cose stanno cambiando. È arrivata primavera. L’autentica primavera».
«So che cos’ho fatto» disse Shadow. «Non avevo molte altre possibilità.»

Chernobog annuì. Nei suoi occhi c’era un’espressione che Shadow non ricordava di avergli mai visto. «Ti ho parlato di mio fratello?»
«Bielebog?» Shadow si alzò e andò a mettersi al centro del tappeto sporco di cenere. Si inginocchiò. «Ha detto che non lo vedeva da tanto tempo.»
«Sì» rispose il vecchio alzando il martello. «È stato un lungo inverno, ragazzo, un lunghissimo inverno. Ma adesso sta finendo.» Scosse la testa lentamente come se cercasse di ricordare qualcosa. «Chiudi gli occhi.»

Shadow ubbidì, alzò la testa e aspettò.
Il martello era freddo come il ghiaccio, e gli sfiorò la fronte con la delicatezza di un bacio.
«
Pum\
Ecco fatto» esclamò Chernobog. C’era un sorriso sulla sua faccia che Shadow non aveva mai visto prima, rilassato e caldo come il sole di un giorno d’estate. Il vecchio tornò verso la valigetta, ripose il martello, la richiuse e la spinse di nuovo sotto la credenza.
«Chernobog? Ma lei è davvero Chernobog?»

«Sì. Per oggi lo sono» rispose il vecchio. «Domani sarò Bielebog, per oggi sono ancora Chernobog.»
«Allora perché? Perché non mi ha ucciso quando poteva ancora farlo?»
Il vecchio sfilò una sigaretta senza filtro dal pacchetto, prese una grossa scatola di fiammiferi dalla mensola del caminetto e accese la sigaretta. Sembrava profondamente immerso nei suoi pensieri. «Perché» disse dopo qualche tempo «c’è il sangue. Ma c’è anche la gratitudine. Ed è stato un lungo, lunghissimo inverno.»

Shadow si alzò. Ripulì i jeans tutti impolverati sulle ginocchia.
«Grazie» disse.
«È stato un piacere» rispose l’altro. «Sai dove trovarmi, la prossima volta che vvuoi fare una partita a dama. I bianchi li prenderò io.»
«Grazie, magari verrò, ma non subito.» Guardò il vecchio negli occhi sfavillanti chiedendosi se avessero avuto sempre quella sfumatura d’azzurro dei fiori del granturco. Si strinsero la mano senza dirsi addio.

Uscendo, Shadow baciò Utrennjaja Zarja sulla guancia, baciò la mano di Vechernjaja Zarja e scese le scale facendo due gradini alla volta.


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