American Gods

American Gods

Neil Gaiman

All’ora di pranzo si fermarono a mangiare del cattivo cibo giapponese mentre il temporale incombeva pesante su Knoxville, e a Town non dispiacque per niente che il servizio fosse lentissimo, la zuppa di miso fredda, il sushi tiepido.
Era felice che Laura avesse deciso di vivere la sua avventura proprio con lui.

«Be’» gli confidò lei, «detestavo l’idea di marcire, e lì dov’ero stavo proprio ammuffendo. Così sono partita senza macchina, senza carte di credito. Posso contare soltanto sulla gentilezza degli sconosciuti.»
«Non hai paura? Potresti finire nei guai, essere aggredita o morire di fame.»
Lei scosse la testa, poi disse con un sorriso esitante: «Però ho incontrato te, vero?». E lui non riuscì a trovare niente da obiettare.

Finito di mangiare corsero sotto il temporale fino all’automobile riparandosi la testa con dei giornali giapponesi e correndo ridevano, come bambini nella pioggia.
«Fin dove ti posso portare?» chiese lui quando furono di nuovo in macchina.
«Fin dove arrivi tu, Mack» rispose lei timidamente.

Town era proprio felice di non aver sfoderato la battuta su Big Mack. Quella donna non era una storia da bar di una notte, lo sapeva, nel profondo del cuore. Magari ci aveva messo cinquant’anni a trovarla, ma finalmente l’aveva trovata: era lei, quella donna magica e selvaggia con i lunghi capelli scuri.
Per Town era sbocciato l’amore.

«Senti…» le disse quando arrivarono a Chattanooga. I tergicristallo dipingevano con la pioggia una macchia grigia al posto della città. «E se ti prendessi una camera in un motel, per questa notte? La pago io. Quando ho finito la consegna… possiamo fare un bel bagno caldo insieme, per cominciare. Riscaldarti un po’.»
«Mi sembra un’idea meravigliosa» rispose Laura. «Che cosa devi consegnare?»
«Quel bastone» disse lui, e ridacchiò. «Sul sedile posteriore.»

«D’accordo» ribatté lei in tono ironico. «Non dirmi niente, se non vuoi, signor Mistero.»
Town era del parere che sarebbe stato meglio se lei avesse aspettato in macchina nel parcheggio di Rock City, mentre lui andava a consegnare il bastone. Imboccò la salita sotto la pioggia battente a cinquanta all’ora, con gli abbaglianti accesi. In fondo al parcheggio si fermò e spense il motore.
«Ehi, Mack, non mi abbracci nemmeno, prima di andare?» chiese lei con un sorriso.

«Ma sicuro» rispose il signor Town. L’abbracciò, e lei gli si rannicchiò contro il petto mentre la pioggia disegnava un complesso tatuaggio sul tetto della Ford Explorer. Lui inspirò l’odore dei capelli di Laura, qualcosa di vagamente sgradevole, sotto il profumo. Viaggiando ci si sporca sempre. Quel bagno, decise, era necessario a tutti e due. Si domandò se a Chattanooga non ci fosse un posto dove comprare le perle da bagno alla lavanda per cui andava pazza la sua prima moglie. Laura alzò la testa e gli accarezzò il collo.

«Mack… continuo a pensare a una cosa… non sei curioso di sapere cos’è successo ai tuoi amici? A Woody e Stone?»
«Sì» rispose lui avvicinando le labbra a quelle di lei per il loro primo bacio. «Certo che sono curioso.»
Così Laura glielo mostrò.

Shadow camminò intorno all’albero, piano piano, disegnando cerchi sempre più grandi. Ogni tanto si fermava a raccogliere qualcosa nel prato: un fiore o una foglia, un sassolino, un rametto o un filo d’erba. Lo esaminava con attenzione, concentrandosi completamente sulla natura legnosa del legno, su quella fogliacea della foglia.
Easter pensò che aveva lo sguardo dei neonati quando cominciano a mettere a fuoco.

Non osava rivolgergli la parola. Le sarebbe sembrato sacrilego. Continuò a osservarlo, benché esausta, e a interrogarsi.
A poco più di sei metri dall’albero, seminascosto dalle erbacce e dai rampicanti morti, Shadow trovò un sacco di juta. Lo prese, ne disfece i nodi, allentò il cordino che lo chiudeva.
Gli indumenti erano i suoi. Vecchi, ma ancora utilizzabili. Rigirò le scarpe tra le mani. Accarezzò la camicia di cotone, il maglione di lana, fissandoli da una distanza di milioni di anni.

Li indossò a uno a uno.
Infilò le mani in tasca e fu con aria perplessa che estrasse qualcosa che secondo Easter era una biglia bianca e grigia.
Disse: «Niente monete». Erano le prime parole che pronunciava dopo ore.
«Monete?» gli fece eco Easter.
Lui scosse la testa. «Mi tenevano le mani occupate.» Si chinò per mettersi le scarpe.

Una volta vestito aveva un’aria più normale. Grave, però. Easter si chiese quanto fosse andato lontano, e quanto gli fosse costato il ritorno. Non era il primo che riportava indietro, e sapeva che nel giro di poco tempo quello sguardo vecchio di milioni d’anni, carico dei ricordi e dei sogni riportati dall’albero, sarebbe stato cancellato dal contatto con il mondo materiale. Succedeva sempre così.
Lo condusse in fondo al prato dove la creatura che l’aveva portata fin là aspettava tra gli alberi.

«Non può trasportare tutti e due» gli disse. «Io torno a casa da sola.»
Shadow annuì. Sembrava che si stesse sforzando di ricordare qualcosa. Poi aprì la bocca e lanciò un grido di benvenuto e di gioia.
L’uccello del tuono aprì il suo becco crudele e ricambiò il benvenuto.

Sembrava un condor, a un’occhiata superficiale. Le piume nere avevano una sfumatura violacea, il collo era bianco. Il becco era nero, tremendo: un becco da rapace, fatto per lacerare. A riposo, fermo a terra con le ali ripiegate, era grande come un orso bruno, con la testa arrivava all’altezza della testa di Shadow.
In tono fiero Horus disse: «L’ho portato io. Vivono sulle montagne».
Shadow annuì. «Una volta ho sognato gli uccelli del tuono. Il sogno più pazzesco della mia vita.»

L’uccello aprì il becco ed emise un suono sorprendentemente gentile. «Hai sentito anche tu del mio sogno?» domandò Shadow.
Allungò una mano e gli accarezzò piano la testa. L’uccello del tuono gli si strinse accanto come un pony affettuoso. E allora Shadow gli grattò il collo su su fino alla cresta.
Si girò verso Easter: «Ti ha portato fin qua?».
«Sì» disse lei. «Puoi farti riportare indietro, se te lo permette.»
«Come si fa a cavalcarlo?»
«È facile. Se non cadi. È come cavalcare il fulmine.»

«Ci rivediamo là?»
Lei scosse la testa. «Io ho finito, tesoro» disse. «Tu vai a fare quello che devi fare. Sono stanca. Buona fortuna.»
Shadow annuì. «Whiskey Jack… l’ho visto dopo che ero morto. È venuto a cercarmi e abbiamo bevuto una birra insieme.»
«Sì» disse lei. «Ne sono sicura.»
«Ti rivedrò ancora?» chiese Shadow.
Easter lo guardò con gli occhi verdi come il granturco che matura e non rispose. Poi scosse bruscamente la testa. «Ne dubito.»

Shadow fece qualche goffo tentativo di salire sul dorso dell’uccello del tuono, gli pareva d’essere un topolino sopra un falco. Sentiva in bocca un sapore di aria pura, metallico e azzurro. Qualcosa crepitò. L’uccello del tuono allargò le ali e cominciò a batterle pesantemente. Mentre la terra si allontanava Shadow si aggrappò forte con il cuore che batteva all’impazzata.
Era esattamente come cavalcare il fulmine.

Laura prese il bastone dal sedile posteriore. Lasciò il signor Town accasciato sul volante, scese dalla Ford Explorer e si diresse sotto la pioggia all’ingresso di Rock City. La biglietteria era chiusa. Era aperta la porta del negozio di souvenir. La superò, passando davanti al negozietto di caramelle e alla mostra di casine per uccelli VISITATE ROCK CITY, ed entrò nell’ottava meraviglia del mondo.

Non la fermò nessuno, anche se durante il percorso incontrò parecchi uomini e donne, sotto l’acqua. Molti di loro avevano un’aria vagamente artificiale, certi sembravano addirittura luminosi. Percorse un ponte tibetano, superò il recinto dei cervi bianchi, e si infilò nel Fat Man’s Squeeze, dove lo stretto sentiero correva tra due alte pareti rocciose. Alla fine scavalcò una catena con un cartello su cui c’era scritto che quella zona di Rock City era chiusa al pubblico; entrò in una grotta dove su una sedia di plastica, davanti a un diorama di gnomi ubriachi, vide un uomo seduto. Stava leggendo il "Washington Post" alla luce di una piccola lanterna elettrica. Vedendola, l’uomo piegò il giornale e lo appoggiò sotto la sedia. Si alzò, era un uomo alto, con i capelli color carota tagliati a spazzola e un impermeabile costoso. Le fece un piccolo inchino.

«Ne deduco che il signor Town sia morto» disse. «Benvenuta, portatrice della lancia.»
«Grazie. Mi dispiace per Mack. Eravate amici?»
«Per niente. Doveva restare vivo, se voleva tenersi il lavoro. Comunque il bastone l’ha portato lei.» La guardò dall’alto in basso con due occhi in cui brillava la luce dei carboni ardenti. «Temo di essere in svantaggio nei suoi confronti. Qui in cima alla montagna mi chiamano signor World.»
«Io sono la moglie di Shadow.»

«Ma certo. La bella Laura» disse. «Avrei dovuto riconoscerti. Aveva le tue fotografie appese sopra il letto, nella cella che abbiamo condiviso. E, se me lo consenti, sei ancora più bella di quanto avresti il diritto di essere. Non ti dovresti trovare a uno stadio avanzato di decomposizione, ormai?»
«Era così» rispose lei con semplicità, «ma le tre donne alla fattoria mi hanno dato l’acqua del loro pozzo.»
World aggrottò la fronte. «Il fonte di Urdhr? Assolutamente impossibile.»

Lei indicò se stessa: era pallida, aveva le occhiaie profonde, ma era innegabilmente intera; se fosse stata un cadavere ambulante, doveva essere morta da poco.
«Non durerà» disse il signor World. «Le Norne ti hanno dato un piccolo assaggio del passato che ben presto si dissolverà nel presente, e allora quei graziosi occhi blu cadranno dalle orbite e scenderanno giù lungo le belle guance che non saranno più così belle. A proposito, il mio bastone. Puoi darmelo, per favore?»

Tirò fuori un pacchetto di Lucky Strike, prese una sigaretta e l’accese con un Bic nero.
«Potrei averne una?»
«Certo. Ti do una sigaretta se tu mi dai il bastone.»
«Se lo vuoi deve valere molto di più.»
Lui non disse niente.
«Io voglio risposte. Voglio sapere delle cose.»
World accese una sigaretta e gliela passò. Lei la prese e fece un tiro, poi batté le palpebre. «Quasi quasi mi sembra di sentirne il sapore. Forse sì.» Sorrise. «Mmm. La nicotina.»

«Perché sei andata dalle donne della fattoria?»
«È stato Shadow a dirmi di andare. Mi ha detto di andare a chiedere l’acqua.»
«Mi domando se sapesse che effetto ti avrebbe fatto. Probabilmente no. Comunque, è un bene che sia morto su quell’albero. Almeno so sempre dov’è. E so che è fuori gioco.»
«L’avete messo in trappola» disse lei. «Lo avete incastrato fin dall’inizio. È un uomo gentile, lo sai?»

«Sì. Lo so. Quando tutto sarà finito credo che dopo aver affilato ben bene un rametto di vischio andrò fino al frassino e glielo conficcherò in un occhio. Adesso dammi il mio bastone, per favore.»
«Perché lo vuoi?»
«Come ricordo di questa storiaccia» disse il signor World. «Non preoccuparti, non è vischio.» Sorrise. «Simboleggia una lancia, e in questo triste mondo il simbolo è la cosa.»
Dall’esterno giunsero rumori più forti.
«Da che parte stai?» chiese lei.

«È inlnfluente» rispose World. «Ma siccome me l’hai chiesto ti dirò che sto sempre dalla parte dei vincitori.»
Lei annuì e non si separò dal bastone.

Si girò per guardare fuori. In lontananza le sembrava di vedere tra le rocce più in basso qualcosa di luccicante e pulsante avviluppato intorno a un uomo magro con la barba e la faccia violacea che lo colpiva con il manico di una ramazza, tipo quelle che i mendicanti usano per pulire i vetri delle macchine ai semafori. Si sentì un grido e sparirono entrambe le creature.
«Va bene. Ti darò il bastone» disse lei.

La voce del signor World risuonò alle sue spalle: «Brava bambina» la rassicurò con un tono che era insieme condiscendente e indefinibilmente maschile. A Laura venne la pelle d’oca.
Rimase ferma davanti all’ingresso della grotta fino a quando non sentì il respiro di lui nell’orecchio. Doveva aspettare che fosse molto vicino. Il piano fin lì le era chiaro.

Il viaggio fu più che esilarante, fu elettrico.

Attraversarono il temporale saettando, balenando da una nuvola all’altra, muovendosi come il rombo del tuono, come la corrente violenta dell’uragano. Era un viaggio impossibile, un boato fragoroso. Non c’era paura: soltanto la potenza del temporale inarrestabile e devastante, e la gioia del volo.
Shadow affondò le dita nelle piume dell’uccello del tuono, sentì l’elettricità statica sulla pelle. Sulle mani gli correvano scintille blu come serpentelli. La pioggia gli bagnava la faccia.

«È eccezionale» gridò sopra il fragore della tempesta.
Come se l’avesse capito l’uccello salì più in alto, ogni battito d’ali un rombo di tuono, tuffandosi e riemergendo tra le nuvole scure.
«Nel mio sogno ti davo la caccia» disse Shadow mentre il vento gli strappava le parole. «Nel mio sogno dovevo riportare indietro una piuma.»
Sì.
La parola risuonò come uno scoppiettio nella radio mentale.

Venivano a cercarci per le piume, per provare d’essere uomini; e venivano anche per strapparci dalla testa la pietra, per far dono ai loro morti della nostra vita.

Un’immagine lo assalì: un uccello del tuono — una femmina, perché aveva un piumaggio marrone — giaceva morto sul fianco di una montagna. Accanto c’era una donna intenta a spaccargli la testa con un pezzetto di silice. Rovistò con le dita tra le schegge d’ossi e il cervello fino a quando non trovò una pietra trasparente e levigata che aveva il colore cupo del granato, con bagliori opalescenti, in profondità.
La pietra aquilina,

pensò Shadow. La donna l’avrebbe portata al figlioletto morto da tre giorni, gliel’avrebbe appoggiata sul petto freddo. Prima dell’alba il ragazzo sarebbe tornato a vivere, a giocare, il gioiello invece sarebbe stato grigio, opaco e morto come l’uccello a cui era stato rubato.
«Capisco» disse. L’animale gettò la testa all’indietro e gridò, il suo grido era il tuono.
Il mondo sotto di loro sfrecciava a lampi come in uno strano sogno.

Laura afferrò con forza il bastone e aspettò che l’uomo che le aveva detto di chiamarsi World si avvicinasse. Guardava la tempesta e le montagne verde scuro.
In questo triste mondo,
pensò,
il simbolo è la cosa. Esatto.
Sentì che lui le aveva appoggiato una mano sulla spalla destra.
Bene,
pensò.
Non vuole che mi preoccupi. Ha paura che getti il suo bastone giù dalla montagna, ha paura di perderlo.

Lei si appoggiò un pochino all’indietro fino a toccare con la schiena il petto di lui. Lui la circondò con il braccio sinistro. Era un gesto intimo. Teneva la mano sinistra aperta davanti a lei. Laura strinse ancora più forte le mani intorno all’estremità del bastone, espirò, concentrata al massimo.
«Dammelo, per favore» le disse lui all’orecchio.

«Sì. È tuo.» Poi, senza nemmeno sapere se significasse qualcosa, disse: «Dedico questa morte a Shadow» e si conficcò il bastone nel petto, proprio sotto lo sterno: lo sentì fremere tra le dita mentre si trasformava in una lancia.

Da quando era morta il confine fra sensazione e dolore si era esteso. Sentì la punta della lancia penetrarla e uscirle dalla schiena. Un momento di resistenza — spinse un altro po’ — e la punta penetrò anche il signor World. Avvertì il respiro caldo di lui sul collo, e un gemito di dolore e sorpresa, quando capì d’essere stato trafitto dalla lancia.

Non riconobbe le parole che disse, né la lingua in cui le pronunciò. Continuò a spingere la lancia attraverso il proprio corpo perché entrasse completamente in quello di lui.
Sentiva il suo sangue caldo sulla schiena.

«Puttana» le disse in inglese. «Lurida puttana.» Probabilmente la lama aveva perforato un polmone perché la sua voce suonava gorgogliante. Adesso il signor World cercava di muoversi e a ogni movimento spostava anche lei: erano uniti dalla lancia, infilzati come due pesci su uno spiedo. Adesso World aveva in mano un coltello con cui cercava di colpirla al petto e al seno senza riuscire a vedere dove.
A Laura non importava. Cos’è qualche coltellata per un cadavere?

Lo colpì con un pugno sul polso e il coltello volò sul pavimento. Lei lo allontanò con un calcio.
Adesso World piangeva e gemeva. Lo sentiva rovistare con le mani sulla sua schiena, aveva le sue lacrime calde sul collo; la schiena era inzuppata di sangue, che colava anche lungo le gambe.
«Dev’essere una scena pochissimo dignitosa» disse lei in un morto sussurro non senza un certo macabro umorismo.

Si accorse che lui incespicava, incespicò anche lei e poi scivolò nel sangue — tutto di World — che stava formando una pozzanghera sul pavimento della grotta. Caddero insieme.

L’uccello del tuono atterrò nel parcheggio di Rock City. Pioveva a dirotto e c’era una visibilità di tre metri scarsi. Shadow lasciò andare le piume dell’uccello, ricadde con un tonfo sull’asfalto bagnato e scivolò.
L’uccello scomparve in un baleno.
Shadow si rimise in piedi.

Il parcheggio era vuoto per tre quarti. Shadow si diresse all’ingresso passando davanti a una Ford Explorer marrone parcheggiata vicino a una parete rocciosa. Siccome c’era qualche cosa di molto familiare nell’automobile si fermò per dare un’occhiata e vide l’uomo rovesciato sul volante come addormentato.
Aprì la portiera.

L’ultima volta che aveva visto il signor Town era stato davanti al motel costruito nel centro dell’America. Adesso aveva un’aria sorpresa. Qualcuno gli aveva tagliato il collo con mani esperte. Lo toccò: era ancora tiepido.
Aleggiava un odore nell’abitacolo, debole come un profumo lasciato in una stanza tanti anni prima, un odore che lui avrebbe riconosciuto tra mille. Richiuse con un tonfo la portiera della Explorer e attraversò il parcheggio.

Mentre camminava sentì una fitta nel fianco, un dolore lancinante che durò soltanto un secondo, o forse meno, prima di scomparire.
Alla biglietteria non c’era nessuno. Attraversò l’edificio e sbucò nei giardini di Rock City.
Un tuono scoppiò con un boato scuotendo i rami degli alberi e riverberandosi nel cuore delle rocce più grandi, mentre la pioggia cadeva con fredda violenza. Benché fosse tardo pomeriggio sembrava già notte fonda.

La scia di una saetta squarciò le nubi e Shadow si chiese se fosse l’uccello del tuono che ritornava alla sua rupe scoscesa o soltanto una scarica atmosferica, oppure se le due idee, su un certo piano, non coincidessero, diventando la stessa cosa.
Effettivamente lo erano. Quello era il senso, dopotutto.
Una voce maschile. Shadow la sentì, e credette di distinguere le parole «… a Odino!».

Attraversò la Seven States Flag Court correndo sul lastrico reso più scivoloso dalla pioggia. Scivolò, infatti. Intorno alla montagna la nuvolaglia era densa, e nella tetra luce della tempesta di là della corte non si vedeva nemmeno uno degli stati promessi dalla pubblicità.
Nessun suono, il luogo sembrava deserto.
Gridò e immaginò di sentire qualcuno rispondere. Si diresse verso il luogo da cui gli era sembrato che provenisse la voce.

Nessuno. Niente. Soltanto una catena all’entrata di una caverna per impedire l’accesso ai visitatori.
La scavalcò. Si guardò intorno nell’oscurità.
Si sentiva formicolare dappertutto.
Nell’ombra alle sue spalle una voce molto bassa disse: «Non mi deludi mai».
Shadow non si voltò. «Strano. Deludo sempre me stesso, però. In continuazione.»

«Ti sbagli» ribatté la voce. «Hai fatto quello che dovevi fare e anche di più. Hai attirato su di te l’attenzione di tutti, in modo che non guardassero mai la mano in cui era nascosta la moneta. Si chiama indirizzo erroneo, giusto? E c’è una grande potenza nel sacrificio di un figlio, potenza più che sufficiente per far girare la ruota. A dire la verità sono orgoglioso di te.»
«Era una truffa. Un imbroglio combinato. Di vero non c’era niente. Era una trappola per un massacro.»

«Esattamente» disse la voce di Wednesday dall’ombra. «Era un tavolo dove si barava. Ma era anche l’unico tavolo da gioco in città.»
«Voglio Laura» disse Shadow. «Voglio Loki. Dove sono?»
Nessuna risposta. Una spruzzata di pioggia lo colpì. Un tuono risuonò poco lontano.
Si inoltrò nella grotta.

Loki Lie-Smith sedeva per terra con la schiena appoggiata a una gabbia metallica. Dentro la gabbia c’erano alcuni pixy ubriachi che armeggiavano con un alambicco. Aveva addosso una coperta che lasciava vedere soltanto la sua faccia, e le mani, pallide e lunghe, appoggiate sopra. Sulla sedia vicino a lui era stata appoggiata una lanterna elettrica. Le pile erano quasi scariche e gettava una debole luce giallina. Loki era pallido e malconcio.


Все материалы, размещенные в боте и канале, получены из открытых источников сети Интернет, либо присланы пользователями  бота. 
Все права на тексты книг принадлежат их авторам и владельцам. Тексты книг предоставлены исключительно для ознакомления. Администрация бота не несет ответственности за материалы, расположенные здесь

Report Page