American Gods

American Gods

Neil Gaiman

15
Impiccami, O impiccami, e sarò morto e sepolto,
Impiccami, O impiccami, e sarò morto e sepolto,
Non mi dispiace essere impiccato ma è essere morto,
e sepolto così a lungo che non mi va.
Vecchia canzone popolare

Quel primo giorno legato all’albero, Shadow provò un disagio che soltanto con molta lentezza diventava dolore, o paura e, di tanto in tanto, un sentimento in bilico tra noia e apatia: un’accettazione supina, un’attesa.
Lui era appeso all’albero.
Il vento soffiava forte.
Dopo alcune ore qualche macchia fuggevole di colore cominciò a esplodergli davanti agli occhi, fioriture rosse e dorate che pulsavano di vita propria.

A poco a poco il dolore alle braccia e nelle gambe divenne intollerabile. Se rilassava gli arti lasciandosi andare in avanti, la corda intorno al collo, sostenendo il peso, lo soffocava e lui vedeva tutto ondeggiare. Perciò cercava di spingersi indietro, contro il tronco dell’albero. Sentiva battere forte il cuore, pompare aritmico il sangue nelle vene…

Gli si cristallizzarono smeraldi, zaffiri e rubini davanti agli occhi. Ansimava. La corteccia dell’albero era ruvida, contro la schiena. Nel freddo del pomeriggio il suo corpo nudo tremava, aveva la pelle d’oca.
È facile,
gli disse qualcuno da un ricordo remoto.
C’è un trucco. O crepi o ce la fai.
Il pensiero lo rallegrò e se lo ripeté nella testa come un mantra, come una filastrocca per bambini, da recitare a tempo con il battito del suo cuore.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.
È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.
È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

Il tempo passava e la filastrocca non finiva mai. Gli pareva di sentirla. C’era qualcuno che ripeteva le parole, e si fermava, però, quando la bocca di Shadow era troppo secca, quando la lingua gli diventava dura come il cuoio. Provò a puntellarsi con i piedi al tronco, per riuscire a riempire i polmoni d’aria.

In quella posizione respirò fino a quando riuscì a resistere, poi si lasciò cadere di nuovo sulle funi e lì rimase, appeso all’albero.
Quando il cinguettio cominciò — un cinguettio irritato e carico di derisione — chiuse la bocca, spaventato all’idea di averlo prodotto lui; però il rumore continuava.
Allora è il mondo che ride di me,

pensò. Aveva la testa piegata da un lato e vide qualcosa percorrere velocemente il tronco per fermarsi proprio vicino al suo collo. Gli cinguettò fragorosamente nell’orecchio una parola che suonava come "ratatoskr". Shadow cercò di ripeterla ma aveva la lingua incollata al palato. Si girò lentamente a guardare il musetto grigio-marrone e le orecchie appuntite di uno scoiattolo.

Visto da vicino, lo scoiattolo è molto meno carino di quel che sembra da una certa distanza: aveva un’aria topesca e pericolosa, niente di tenero. I denti sembravano aguzzi. Shadow sperò che l’animaletto non lo considerasse una minaccia, o qualcosa di cui cibarsi. Non gli pareva che fossero carnivori, gli scoiattoli… ma del resto tante cose si erano rivelate completamente diverse da come immaginava…
Si addormentò.

Nelle ore immediatamente successive il dolore lo svegliò più volte strappandolo da un sogno buio in cui dei bambini morti galleggiavano verso di lui: avevano gli occhi gonfi, vitrei e rotondi come biglie, e lo rimproveravano di averli abbandonati. Un ragno lo svegliò camminandogli sulla faccia. Scosse la testa per mandarlo via, per spaventarlo, e ritornò ai suoi sogni: adesso c’era una creatura con la testa da elefante, un pancione, una zanna rotta, che si avvicinava in groppa a un enorme topo. Davanti a Shadow sollevò la proboscide e disse: «Se prima di cominciare questo viaggio tu mi avessi invocato, forse ti sarebbero stati risparmiati molti guai». Poi l’elefante prese il topo, che all’insaputa di Shadow era diventato minuscolo senza per questo aver cambiato dimensioni, e cominciò a passarselo da una mano all’altra, a farlo scorrere tra le dita, da un palmo all’altro, e Shadow non si sorprese quando alla fine il dio con la testa da elefante mostrò tutte e quattro le mani perfettamente vuote. Le scrollò, poi mosse le braccia, una dopo l’altra, con particolare scioltezza e restò a guardare Shadow con un’espressione impenetrabile.

«È nella proboscide» gli disse lui. Aveva visto bene la coda scomparire con un guizzo. L’uomo-elefante annuì con il testone e disse: «Sì. Nella proboscide o nel baule della macchina. Dimenticherai molte cose. Perderai molte cose. Darai via molte cose. Ma non perdere queste». Cominciò a piovere e Shadow, in preda ai brividi, bagnato fino alle ossa, fu scaraventato dal sonno profondo in uno stato di lucida veglia. I brividi si intensificarono fino a spaventarlo: tremava con più violenza di quanto avrebbe creduto possibile fare, una serie di brividi che erano quasi convulsioni. Si sforzò di smettere ma non ci riusciva, ì denti battevano, gli arti erano in preda a spasmi incontrollabili. Adesso sentiva anche un vero dolore, come una lama affondata in profondità che gli ricopriva il corpo di minuscole ferite invisibili, intime e intollerabili.


Aprì la bocca per catturare qualche goccia d’acqua con cui bagnare le labbra screpolate e la lingua secca; anche le corde che lo tenevano al tronco dell’albero si inumidirono. Vide il bagliore di un lampo così luminoso, un colpo troppo forte per gli occhi, che trasformò il mondo in un panorama potente: immagini e immagini persistenti. Poi tuono, scoppio, esplosione e rombo fragoroso, e, mentre il rombo echeggiava, la pioggia cominciò a scendere più intensa. Durante la notte i brividi cessarono; le lame di coltello vennero riposte nei loro foderi. Shadow non sentiva più freddo, o meglio sentiva soltanto freddo, però adesso il freddo era diventato parte di lui.

Era appeso all’albero, con i lampi che squarciavano il cielo e i rombi del tuono che si trasformavano in un fragore continuo con occasionali punte più alte, come bombe lontane esplose nella notte. Il vento lo sferzava, lo scorticava, cercava di strapparlo all’albero e Shadow, nel fondo dell’anima, capì che la tempesta era scoppiata davvero.

Una strana gioia lo assalì e cominciò a ridere, mentre la pioggia gli lavava il corpo nudo e i lampi saettavano e i tuoni scoppiavano così rumorosi da impedirgli di sentire la risata. Era esultante.
Era vivo. Non si era mai sentito così. Mai.
Se fosse morto, pensò, se fosse morto in quell’unico perfetto folle istante lì sull’albero, ebbene, ne sarebbe valsa la pena.
«Ehi!» gridò al temporale. «Ehi! Sono io! Sono qui!»

Spingendo una spalla contro il tronco riuscì a intrappolare un po’ d’acqua e girò la testa per berla, leccando, succhiando, e bevendo rideva di gioia e felicità, non di demenza, fino a quando non ci riuscì più, fino a quando non si lasciò andare, troppo sfinito per muoversi.

Per terra, ai piedi dell’albero, la pioggia aveva inzuppato il lenzuolo facendolo diventare quasi trasparente e lo aveva sollevato, allontanandone un lembo dal corpo. Shadow vedeva una mano di Wednesday, morta e cerea, la sagoma della sua testa; pensò alla Sindone conservata a Torino e si ricordò della ragazza sventrata sul tavolo di Jacquel a Cairo, poi come per ripicca contro il freddo scoprì che si sentiva caldo e comodo e che la corteccia dell’albero era diventata morbida. Si riaddormentò e sognò. Questa volta non riuscì a ricordare niente, del sogno.


L’indomani mattina il dolore non era più localizzato, non più confinato ai punti dove le funi gli segavano la carne, o dove la corteccia gli lacerava la pelle. Adesso era diffuso ovunque.

E aveva fame, morsi di fame lancinanti nel ventre. Gli pulsava la testa. Ogni tanto gli sembrava di avere smesso di respirare, immaginava che il suo cuore non battesse più. Allora tratteneva il respiro fino a quando non lo sentiva rumoreggiare nelle orecchie come l’oceano, fino a quando non era costretto a succhiare aria come chi riemerga in superficie dal profondo del mare.

Forse l’albero a cui l’avevano appeso si estendeva dall’inferno al paradiso, e lui era legato lì dall’eternità. Un falco marrone volò intorno ai rami più alti prima di andare ad appollaiarsi su un ramo rotto vicino a Shadow, poi riprese il suo volo verso occidente.

Il temporale, che all’alba era cessato, dopo qualche ora scoppiò di nuovo. Il cielo era interamente coperto di nuvole grige, cadeva una pioggerellina leggera. Il corpo ai piedi dell’albero sembrava essere rimpicciolito dentro il lenzuolo macchiato del motel, come una torta inzuppata che finisce di sciogliersi sotto la pioggia.
In certi momenti a Shadow sembrava di bruciare, in altri moriva di freddo.

Quando ricominciarono i tuoni credette di sentire il suono di tamburi e timpani oltre ai tonfi del cuore, e non capiva se erano dentro la sua testa o fuori.
Percepiva il dolore sotto forma di colore: il rosso dell’insegna al neon di un bar, il verde del semaforo in una notte di pioggia, l’azzurro di uno schermo televisivo quando i programmi sono finiti.

Dal tronco lo scoiattolo saltellò su una spalla di Shadow e gli affondò le unghie nelle carne. «Ratatoskr!» cinguettò. Gli sfiorò le labbra con la punta del naso. «Ratatoskr.» Tornò sull’albero con un balzo.
La pelle di Shadow bruciava come trafitta da aghi e spilli e formicolava dappertutto. Una sensazione intollerabile.

C’era la sua vita stesa lì sotto, sul lenzuolo-sudario del motel: letteralmente stesa, come gli oggetti di un picnic dada, di una scena surrealista: vedeva lo sguardo sconcertato di sua madre, l’ambasciata americana in Norvegia, gli occhi di Laura il giorno del matrimonio…
Ridacchiò, malgrado le labbra screpolate.
«Cosa c’è di così divertente, cucciolo?» gli chiese lei.

«Il giorno che ci siamo sposati» disse «avevi convinto l’organista a non suonare la marcia nuziale mentre percorrevi la navata, ma la colonna sonora di
Scooby Doo.
Ti ricordi?»
«Certo che ricordo, caro. "I would have made it too, if it wasn’t for those meddling kids"» canticchiò.
«Ti amavo tanto» disse Shadow.
Sentendo le labbra di lei sulle sue, tiepide, bagnate e vive, non fredde e morte, capì di avere un’altra allucinazione.
«Non sei qui, vero?»

«No» rispose lei. «Ma tu mi stai chiamando per l’ultima volta, e io sono arriverò.»
Adesso respirare era diventato più difficile. Le corde che gli segavano la carne erano un concetto astratto, come l’idea di libero arbitrio o eternità.
«Dormi, cucciolo» gli disse lei, ma forse era la sua stessa voce che sentiva, e si addormentò.

Il sole era una moneta di peltro in un cielo di piombo. Shadow impiegò un po’ di tempo prima di accorgersi di essere sveglio e di avere freddo. Però la parte che si rendeva conto di questo era molto lontana dal resto di lui. Chissà dove, lontano lontano, era consapevole di avere bocca e gola in fiamme, riarse, screpolate. A volte vedeva le stelle cadere dal cielo anche di giorno; altre volte uccelli grossi come camion che gli volavano addosso. Niente lo raggiungeva, niente lo toccava.

«Ratatoskr. Ratatoskr.» Il chiacchiericcio era diventato un rimbrotto.

Lo scoiattolo atterrò pesantemente affondandogli gli artigli nella spalla e lo guardò negli occhi. Shadow si domandò se fosse un’allucinazione: nelle zampette anteriori l’animale teneva un mezzo guscio di noce, come la tazza di una casa di bambola. Gli avvicinò la noce alle labbra, Shadow riconobbe l’acqua e istintivamente la succhiò. Le labbra screpolate, la lingua secca la assorbirono. Si inumidì tutta la bocca e poi inghiottì ciò che restava, non molto.

Lo scoiattolo balzò di nuovo sull’albero, lo percorse rapidamente fino a terra e dopo qualche secondo, o minuti, o ore, Shadow non ne aveva idea (tutti gli orologi mentali erano rotti, molle e ruote dentellate ormai gettate alla rinfusa sull’erba agitata dal vento), si arrampicò di nuovo cautamente sull’albero con la sua tazzina di guscio di noce e Shadow bevve l’acqua che gli aveva portato.
Il sapore fangoso e metallico gli rinfrescò la gola riarsa. Alleviava la fatica e placava la follia.

Dopo la terza noce non aveva più sete.
Allora cominciò a lottare, tirando le funi, lacerandosi nel tentativo di liberarsi, di scendere, di fuggire. Gemeva.
I nodi erano ben fatti. Non cedevano e ben presto Shadow si ritrovò un’altra volta sfinito.
Nel delirio divenne l’albero. Le radici sprofondavano nella terra, sprofondavano nel tempo, nelle sorgenti nascoste. Raggiunse la fonte della donna che si chiamava Urdhr,
Passato.

Era enorme, una gigantessa, una montagna sotterranea di donna, a guardia delle acque del tempo. Altre radici si diramavano in direzioni diverse. Luoghi segreti, in alcuni casi. Adesso quando aveva sete prendeva l’acqua direttamente dalle radici, assorbendola nel corpo del suo essere.
Aveva centinaia di braccia che terminavano con migliaia di dita protese verso il cielo. Il cielo era pesante sulle sue spalle.

Non è che il disagio fosse diminuito, adesso il dolore apparteneva alla figura appesa all’albero, non all’albero stesso. Nella sua follia ora lui era molto più dell’uomo, era l’albero ed era il vento che soffiava tra i rami spogli dell’albero del mondo; era il cielo grigio e le nubi che si addensavano; era Ratatoskr, lo scoiattolo che correva dalle radici più profonde ai rami più alti; era il falco con gli occhi folli seduto su un ramo spezzato a sorvegliare il mondo dall’alto; era il verme nell’albero.

Quando le stelle gli girarono intorno lui passò le sue mille mani sulle luci scintillanti, le accarezzò, le strinse tra le dita, le fece scomparire…

Un momento di lucidità in mezzo a dolore e follia: Shadow riaffiorò in superficie. Sapeva che non sarebbe durato a lungo. Il sole del mattino lo abbagliava. Chiuse gli occhi, rammaricandosi di non poterli proteggere.
Non mancava molto. Sapeva anche questo.
Quando riaprì gli occhi, vide che c’era un giovane appollaiato vicino a lui.

Aveva la pelle molto scura, la fronte alta e i capelli neri e ricci. Era seduto su un ramo più alto rispetto a Shadow, che lo poteva vedere solo allungando il collo. Doveva essere matto. Lo si capiva a prima vista.
«Sei nudo» gli confidò il matto con una vocetta stridula. «Sono nudo anch’io.»
«Vedo» gracchiò Shadow.
Il matto lo guardò, annuì. Roteò la testa in basso e di lato come se cercasse di farsi passare il torcicollo. Alla fine disse: «Mi conosci?».
«No.»

«Io sì, ti conosco. Ti ho visto a Cairo. E anche dopo. Piaci molto a mia sorella.»
«Sei…» il nome gli sfuggiva.
Si nutre di animali investiti dalle automobili.
«Sì. Sei Horus.»
Il matto annuì. «Horus» disse. «Sono il falco del mattino, lo sparviero del pomeriggio. Sono il sole, come te. E conosco il vero nome di Ra perché mia madre me l’ha detto.»
«Fantastico» rispose Shadow cortese.
Il matto fissò attentamente a terra senza parlare. Poi si lasciò cadere dall’albero.

Un falco cadde a piombo, all’improvviso, con un colpo d’ali, ritornò sull’albero stringendo tra gli artigli un piccolo coniglio. Si appollaiò su un ramo ancora più vicino.
«Hai fame?» domandò.
«No» rispose Shadow. «È strano, ma non ho fame.»

«Io sì» rispose il matto. Sbranò il coniglio in quattro e quattr’otto e quand’ebbe ripulito le ossa le rosicchiò e le buttò per terra insieme alla pelle. Percorse tutto il ramo fino a trovarsi a un braccio di distanza da Shadow, lo scrutò senza imbarazzo, ispezionandolo dalla testa ai piedi con grande attenzione. Si ripulì con il dorso della mano il sangue dal mento e dal petto.
Shadow pensò che fosse necessario dire qualcosa. «Ehi» cominciò.

«Ehi» ribatté il matto in piedi sul ramo, poi si girò dall’altra parte disegnando sul prato sottostante un arco di urina scura. Un lungo arco. Quand’ebbe finito, tornò ad accovacciarsi sul ramo.
«Come ti chiamano?» chiese Horus.
«Shadow» rispose lui.
Il matto annuì. «Tu sei l’ombra. Io sono la luce» disse. «Tutte le cose gettano un’ombra.» Poi aggiunse: «Tra poco cominceranno. Li ho visti arrivare. Stai morendo, vero?».

Shadow non riusciva più a parlare. Il falco prese lentamente il volo sulle correnti ascensionali.

Chiaro di luna.
Tossiva, una tosse secca e dolorosa come un pugnale nel petto e nella gola. Rantolò, annaspò in cerca d’aria.
«Ehi, cucciolo» chiamò una voce che conosceva.
Guardò in basso.
La luna tra i rami diffondeva una luce bianca e abbagliante, illuminando il prato a giorno, e lì vicino all’albero c’era una donna con un volto pallido e ovale. Il vento soffiava tra i rami.
«Ciao, cucciolo.»

Lui cercò di parlare invece tossì, una tosse profonda, che non finiva mai.
«Sai» disse lei con il tono di chi vorrebbe rendersi utile, «hai una brutta tosse.»
«Ciao, Laura».
Lei alzò gli occhi morti e gli sorrise.
«Come hai fatto a trovarmi?»

Laura rimase un attimo in silenzio al chiaro di luna, prima di dire: «Tu sei quanto di più vicino alla vita io abbia. Sei tutto ciò che mi rimane, l’unica cosa che non sia squallida, insulsa e deprimente. Saprei ritrovarti anche se mi gettassero in fondo all’oceano con gli occhi bendati. Anche se mi seppellissero mille chilometri sotto terra».
Shadow guardò la donna alla luce della luna e gli occhi gli si riempirono di lacrime.

«Ti tiro giù di lì» disse lei. «Passo un sacco di tempo a salvarti, non ti pare?»
Lui tossì di nuovo. Poi disse: «No, lasciami qua. Lo devo fare». Lei lo guardò e scosse la testa.
«Sei matto. Stai morendo, lassù. Rimarrai menomato, se non lo sei già.»
«Può darsi. Però sono vivo.»
«Sì» rispose lei dopo un attimo. «Credo di sì.»
«Me l’hai detto tu, nel cimitero.»

«Sembra passato tanto tempo, cucciolo.» Poi aggiunse: «Mi sento meglio qui, non fa così male. Sai che cosa intendo dire? Però sono completamente inaridita».
Il vento soffiò nella direzione di Shadow portandogli l’odore: una puzza di carne putrefatta, di morte e decomposizione, intensamente nauseante.
«Ho perso il lavoro» disse lei. «Facevo il turno di notte ma sembra che i clienti si lamentassero. Ho spiegato che ero malata, mi hanno risposto che non gliene importava niente. Ho tanta sete.»

«Le donne» disse lui. «Hanno l’acqua. Dentro la casa.»
«Cucciolo…» Laura sembrava spaventata.
«Diglielo… di’ alle donne che ti ho detto io di farti dare l’acqua…»
Il volto pallido lo fissò. «Devo andare.» Poi tossì, fece una smorfia e sputò sull’erba una massa biancastra che toccando terra si aprì e si allontanò strisciando.
Respirare era praticamente impossibile. Shadow sentiva una grande oppressione al petto e gli girava la testa.

«Rimani» disse quasi in un sussurro, non sapendo nemmeno se lei potesse sentirlo. «Ti prego, non andare via.» Ricominciò a tossire. «Stai con me, stanotte.»
«Rimango per un po’» rispose lei e poi, come una madre al suo bambino: «Niente può farti del male, se ci sono io a proteggerti. Lo sai, vero?».
Shadow tossì un’altra volta. Chiuse gli occhi, solo per un momento. Quando li riaprì la luna era tramontata e lui era solo.

La testa pulsava come se dovesse spaccarsi, di là d’ogni possibile sofferenza. Il mondo si dissolse in minuscole farfalle che gli svolazzavano intorno come una tempesta di sabbia multicolore e poi evaporavano nella notte.
Il lenzuolo bianco avvolto intorno al corpo ai piedi dell’albero sbatteva rumorosamente nel vento del mattino.
La testa non pulsava più. Tutto rallentò. Non c’era più niente che lo potesse far respirare. Il cuore cessò di battere.

L’oscurità nella quale piombò era profonda, illuminata da una sola stella, e conclusiva.


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