American Gods

American Gods

Neil Gaiman

Shadow spense i termoconvettori, infilò qualche indumento di ricambio in una borsa da viaggio, si voltò e disse: «Guarda, mi sento un po’ stupido. So che mi hai appena detto chi stiamo andando a trovare, ma inspiegabilmente l’ho già dimenticato. Una specie di vuoto di memoria. Me lo ripeti?».
Wednesday glielo disse di nuovo.
Questa volta gli sembrava di averlo afferrato. Il nome era lì, sulla punta della memoria. Rimpianse di non aver fatto più attenzione. Poi abbandonò il pensiero.
«Chi guida?»

«Tu» rispose Wednesday. Uscirono di casa, scesero la scala di legno e si diressero lungo il sentiero ghiacciato verso la Lincoln nera parcheggiata vicino al marciapiede.
Shadow si mise al volante.

Chi entra in un casinò viene assalito da richiami invitanti, richiami invitanti che solo un uomo di pietra, senza cuore, senza cervello e stranamente sprovvisto di cupidigia potrebbe declinare. Senti: il rumore a mitraglia delle monete d’argento che rotolano e si rovesciano nel vassoietto delle slot machine e a volte finiscono sui tappeti monogrammati viene sostituito dal clangore allettante delle monete introdotte nelle fessure, dalle musichette stridule inghiottite dall’enorme salone, soffocato in un confortevole ronzio di sottofondo quando si arriva ai tavoli da gioco, suoni distanti, perfetti per far scorrere l’adrenalina nelle vene del giocatore.

I casinò possiedono un segreto, un segreto che custodiscono e proteggono e stimano come il più sacro dei loro misteri. La maggior parte della gente non gioca per vincere, come in genere viene pubblicizzato, venduto, dichiarato e sognato.
È
una facile bugia che dà alla gente l’alibi per entrare da quelle enormi porte sempre aperte.

Il segreto è questo: la gente gioca per perdere. Vengono nei casinò per fare l’esperienza di quell’istante in cui si sentono vivi, in groppa alla ruota della roulette, quando vengono girati come le carte o quando, insieme alle monete, smarriscono nelle fessure anche se stessi. Magari si vantano di qualche vincita, di quella certa notte in cui hanno sbancato il casinò, ma custodiscono come un tesoro, un tesoro prezioso, tutte le volte in cui hanno perso. È una specie di sacrificio rivolto a qualche divinità.

I soldi scorrono in un ininterrotto flusso color verde e argento, passano di mano in mano, dal giocatore al croupier al cassiere alla direzione alla sicurezza per finire nel sancta sanctorum, il luogo più segreto, l’ufficio contabile. Ed è qui, nell’ufficio contabilità del casinò, che vieni a riposare, qui dove i bigliettoni verdi vengono contati, impilati, schedati, in uno spazio che diventa ben presto ridondante man mano che il denaro fluito attraverso il casinò diventa immaginario: una sequenza elettrica di on e off, sequenze che scorrono lungo le linee telefoniche.

Nell’ufficio contabilità vedi tre uomini che contano i soldi sotto l’occhio vitreo delle telecamere di cui sono a conoscenza e sotto lo sguardo da insetto di minitelecamere la cui presenza invece ignorano. Durante il suo turno ogni uomo conta più denaro di quanto ne potrà mai guadagnare in una vita intera. Ognuno di loro, quando dorme, sogna di contare le banconote, di impilarle e legarle con le fascette e di vederne sempre di più che vengono smistate e si perdono. Ognuno di loro almeno una volta alla settimana si è futilmente chiesto se esiste un modo per eludere i controlli di sicurezza del casinò e sparire con tutto quello che riuscirebbe ad arraffare; ognuno di loro ha analizzato il sogno, ha stabilito che è irrealizzabile e si è accontentato di uno stipendio sicuro, evitando lo spettro della prigione e di una tomba senza nome.

E qui, nel sancta sanctorum, ci sono i tre uomini che contano i soldi, e le guardie di sicurezza che li sorvegliano e portano i soldi avanti e indietro; e poi c’è un’altra persona. Il suo abito grigio scuro è impeccabile, anche i capelli sono scuri, è ben rasato e sia il suo volto sia il suo atteggiamento risultano in ogni senso facili da dimenticare. Nessuno degli altri si è accorto della sua presenza e se l’hanno notato l’hanno dimenticato immediatamente.

Quando si arriva alla fine del turno si aprono le porte e l’uomo con l’abito grigio esce dalla stanza e si avvia con gli agenti di sicurezza lungo i corridoi; i passi risuonano ovattati sui tappeti con il monogramma. Le casseforti con il denaro vengono spinte sui carrelli fino a un’area di carico interna dove sono trasferite su furgoni blindati. Quando il cancello della rampa si spalanca per permettere ai veicoli blindati di immettersi nelle strade di Las Vegas all’alba, l’uomo con l’abito grigio varca la soglia senza essere visto, salta sulla rampa e arriva al marciapiede. Non si degna nemmeno di alzare lo sguardo, alla sua sinistra, verso l’imitazione di New York.

Las Vegas è diventata l’interpretazione onirica di una città uscita da un libro di fiabe: qui un castello tratto da un racconto per bambini, lì una piramide nera con la sfinge e luci bianche che fendono l’oscurità come il raggio di un Ufo in manovra d’atterraggio, e dappertutto oracoli al neon e schermi rotanti su cui scorrono messaggi di felicità e fortuna, annunci di cantanti, attori e maghi che si esibiscono stabilmente o in tournée, e luci che scintillano invitanti. Ogni ora un vulcano ha un’eruzione di luci e fiamme. Ogni ora una nave pirata affonda una nave da guerra.

L’uomo in grigio cammina lentamente, a suo agio sui marciapiedi, e sente il denaro fluire per la città. Durante l’estate le strade sono roventi, e passando davanti ai negozi l’impianto di aria condizionata soffia una ventata d’inverno nel clima tropicale che gli ghiaccia il sudore sulla faccia. Adesso, nell’inverno desertico, tira un vento secco che gli piace. Nella sua mente il movimento del denaro forma una delicata struttura reticolare, una specie di ripiglino tridimensionale di luce e movimento. Ciò che lo incanta di questa città nel deserto è la velocità, il modo in cui il denaro si sposta da un punto all’altro e passa di mano in mano: per lui è come uno sballo, l’effetto di una droga che lo spinge, come un tossicomane, a scendere per strada.

Un taxi lo segue a passo d’uomo, a debita distanza. Lui non se ne accorge; non gli viene neanche in mente; ci si accorge così di rado di lui che l’idea di poter essere seguito gli risulta quasi inconcepibile.

Sono le quattro del mattino ed è attirato da un albergo con casinò passato di moda da trent’anni, ancora aperto per un giorno o per sei mesi, fino a quando non lo faranno implodere, non lo abbatteranno per costruire al suo posto un palazzo di divertimenti e dimenticarlo per sempre. Nessuno lo conosce, nessuno si ricorda di lui, ma il bar dell’albergo è sciatto e tranquillo e il fumo delle sigarette ha colorato l’aria d’azzurro e a un piano di sopra c’è qualcuno che in una saletta privata sta per perdere parecchi milioni di dollari a poker. L’uomo in grigio prende posto al bar molti piani sotto, ignorato dalla cameriera. Risuonano subliminali le note di una versione filodiffusa di

Why Can’t He Be You?
Cinque imitatori di Elvis Presley, ciascuno con una tuta da paracadutista di diverso colore, guardano alla Tv una partita di calcio in differita notturna.

Un uomo grande e grosso con un vestito chiaro siede al tavolo dell’uomo in grigio; vedendolo, la cameriera che non ha notato l’uomo in grigio ed è troppo magra per essere considerata bella, troppo palesemente anoressica per lavorare al Luxor o al Tropicana e che conta i minuti che mancano alla fine del turno, si avvicina al tavolo con un sorriso. L’uomo in chiaro ricambia con un sorriso ancora più cordiale: «Stasera sei bellissima, mia cara, un bello spettacolo per questi poveri vecchi occhi», e lei, avvertendo la possibilità di una buona mancia, sorride con molto calore. L’uomo vestito di chiaro ordina un Jack Daniel’s per sé e un Laphroaig con un bicchiere d’acqua per l’uomo in grigio che gli siede accanto.

«Sai» dice l’uomo vestito di chiaro quando arriva il whiskey, «il più bel verso poetico nella storia di questo maledetto paese è stato pronunciato da Canada Bill Jones nel 1853, a Baton Rouge, mentre al tavolo di una partita di faraone truccata veniva derubato fino alle mutande. George Devol, che come Canada Bill non era un uomo incapace di sgamare l’inganno, prese in disparte Bill e gli chiese se non si fosse reso conto che stavano barando. Canada Bill sospirò, scrollò le spalle e disse: "Lo so. Ma è l’unico tavolo da gioco della città". E tornò a farsi spennare.»

Due occhi scuri fissano con sospetto l’uomo vestito di chiaro. L’uomo in grigio replica qualcosa. L’uomo vestito di chiaro, che ha una barba rossiccia che sta incanutendo, scuote la testa.
«Senti» dice, «mi dispiace per quello che è successo nel Wisconsin. Ma vi ho portati tutti in salvo, non è vero? Nessuno si è fatto male.»
L’uomo in grigio sorseggia il Laphroaig allungato con l’acqua assaporandone il gusto torbato. Fa una domanda.

«Non so. Sta succedendo tutto più in fretta del previsto. Sono tutti eccitati per il ragazzo che ho assunto per fare i lavori pesanti… l’ho lasciato fuori, aspetta in taxi. Ci stai sempre?»
L’uomo in grigio risponde.
L’uomo con la barba scuote la testa. «Non la si vede da duecento anni. Se non è morta è uscita di scena.»
Viene detto altro.

«Senti» dice l’uomo con la barba trangugiando d’un fiato ciò che resta del Jack Daniel’s, «tu sei con noi, cerca di essere presente quando avremo bisogno e io mi prenderò cura di te. Che cosa vuoi? Del soma? Te ne posso procurare una bottiglia. Di quello vero.»
L’uomo in grigio lo fissa. Poi annuisce con riluttanza e fa un commento.

«Certo che sì» risponde l’uomo con la barba con un sorriso tagliente come una lama. «Che cosa credi? Mettiamola in questo modo: è l’unico tavolo da gioco della città.» Tende una delle sue manone grandi come zampe e stringe la mono ben curata dell’altro. Se ne va.
La cameriera magra si avvicina perplessa; adesso al tavolo d’angolo c’è un uomo solo, un uomo vestito con un abito grigio scuro molto elegante. «Tutto a posto?» chiede. «Il suo amico ritornerà?»

L’uomo in grigio sospira e spiega che il suo amico non tornerà e quindi lei non sarà pagata per il suo tempo e le sue attenzioni. E poi, vedendo che l’ha ferita e provando pietà per lei esamina i fili d’oro nella sua mente, osserva la matrice, segue il denaro fino a quando non individua un nodo e le dice che se alle sei in punto si troverà davanti al Treasure Island, trenta minuti dopo la fine del suo turno al bar, incontrerà un oncologo di Denver che ha appena vinto quarantamila dollari ai dadi e che ha bisogno di un mentore, di una socia, di qualcuno che lo aiuti a spenderli nelle quarantott’ore che mancano al suo ritorno a casa.

Le parole evaporano nella mente della cameriera ma la lasciano felice. Sospira quando si accorge che i tizi del tavolo d’angolo se ne sono andati senza pagare e senza nemmeno lasciarle la mancia. Le viene in mente che invece di tornare subito a casa, quando avrà finito di lavorare, quella sera andrà al Treasure Island; ma se le si chiedesse perché, mai e poi mai potrebbe spiegarlo.

«Chi era il tipo che hai incontrato?» chiese Shadow mentre attraversavano il salone dell’aeroporto di Las Vegas. C’erano slot machine anche lì. A quell’ora del mattino c’era già gente che le stava rimpinzando di monete. Shadow si domandò se ci fosse qualcuno che non usciva mai dall’aeroporto, che scendeva dall’aereo, percorreva la pista, entrava nell’edificio e si fermava lì, intrappolato dalle immagini rotanti e dalle luci abbaglianti fino a quando non aveva infilato l’ultimo quarto di dollaro nelle macchinette e poi, a tasche vuote, tornava sui propri passi e prendeva il volo che l’avrebbe riportato a casa.

E a quel punto si accorse di essersi distratto proprio mentre Wednesday gli spiegava chi era l’uomo in grigio che avevano seguito col taxi: non aveva sentito.
«Comunque ci sta» disse Wednesday. «Anche se mi costerà una bottiglia di soma.»
«Cos’è?»
«È una bevanda.» Si avvicinarono a piedi all’aeroplano: oltre a loro a bordo c’erano soltanto tre industriali che dovevano essere di ritorno a Chicago prima dell’inizio della giornata di lavoro.

Wednesday si accomodò e ordinò un Jack Daniel’s. «La mia gente vede la vostra gente…» esitò «è come con le api e il miele. Ogni ape produce una gocciolina minuscola di miele e ci vogliono migliaia di api, forse milioni, che lavorano tutte insieme, per riempire il vasetto di miele che metti sul tavolo della colazione. Ora immagina di non poter mangiare altro che miele. Per la mia gente è così… noi ci nutriamo di fede, preghiere, amore.»
«E il soma è…»

«Per riprendere l’analogia, il soma è un vino ricavato dal miele. Come l’idromele.» Ridacchiò. «È una bevanda inebriante. Preghiere e fede concentrate in un succo potente.»
Volavano sopra il Nebraska intenti a mangiare un’enorme colazione quando Shadow disse: «Mia moglie».
«La morta.»
«Laura. Non vuole essere morta. Me l’ha detto lei. Dopo avermi salvato dai tizi sul treno.»

«Il gesto di una brava moglie. Liberarti dall’orrenda prigionia e uccidere chi voleva farti del male. Dovresti tenerla da conto, nipote Ainsel.»
«Lei vuole tornare viva come prima. Possiamo farlo? Si può?»

Wednesday rimase in silenzio così a lungo che Shadow cominciò a chiedersi se avesse sentito la domanda o se per caso non si fosse addormentato con gli occhi aperti. Poi, guardando fisso davanti a sé, parlò: «Conosco l’incantesimo che cura il dolore e la malattia, e libera il cuore da ogni pena.
«L’incantesimo che con un gesto risana.
«L’incantesimo che paralizza i nemici e ne neutralizza le armi.
«L’incantesimo che mi libera da ogni laccio e prigionia.

«Il quinto: posso acchiappare al volo una freccia senza ferirmi.»
Parlava a voce bassa, con urgenza. Non c’era più nessuna traccia del suo solito tono prepotente né di sarcasmo. Wednesday parlava come se stesse recitando la formula di un rito, o come se ricordasse qualcosa di oscuro e doloroso.
«Il sesto: i malefici contro di me si ritorceranno contro chi li ha scagliati.
«Il settimo: posso spegnere il fuoco con un’occhiata.
«L’ottavo: se un uomo mi odia, posso farmelo amico.

«Il nono: so placare il vento e calmare la tempesta il tempo necessario a portare una nave in salvo.
«Questi sono i nove incantesimi che imparai per primi. Io, che fui impiccato all’albero per nove notti complete, ferito nel fianco dalla punta di una lancia, ondeggiai all’albero battuto dai venti, senza cibo e senz’acqua, sacrificato a me stesso, e i mondi si spalancarono sotto di me.

«Con il decimo incantesimo imparai a scacciare le streghe, a farle roteare nei cieli in modo che non ritrovassero più la strada di casa.
«L’undicesimo: se canto quando infuria la battaglia il fuoco e l’acciaio nulla possono contro i miei guerrieri che torneranno sani e salvi al focolare.
«Un dodicesimo incantesimo conosco: se vedo un uomo impiccato posso staccarlo dall’albero per fargli sussurrare tutto ciò che ricorda.

«Il tredicesimo: se spruzzo dell’acqua sulla testa di un bambino egli non cadrà in battaglia.
«Il quattordicesimo: conosco i nomi di tutti gli dèi. Uno per uno.
«Quindicesimo: ho un sogno di potere, gloria, e saggezza, e posso fare in modo che la gente creda ai miei sogni.»
Adesso parlava a voce talmente bassa che Shadow dovette sforzarsi per distinguere le sue parole sopra il frastuono del motore.
«Il sedicesimo: se ho bisogno d’amore posso conquistare la mente e il cuore di ogni donna.

«Il diciassettesimo: nessuna donna da me desiderata desidererà mai un altro.
«E conosco il diciottesimo, l’incantesimo più potente di tutti, e di quest’incantesimo non parlerò a nessuno, perché un segreto che nessuno conosce oltre a te è il segreto più potente che esista.»
Sospirò e tacque.

Shadow aveva la pelle d’oca. Era come se avesse appena visto una porta spalancarsi su un altro luogo, un posto lontano molti mondi dove gli impiccati oscillavano al vento a ogni crocicchio, e nottetempo le streghe si alzavano in volo lanciando strida.
«Laura» si limitò a dire.
Wednesday girò la testa e fissò Shadow nei suoi occhi chiari. «Non posso farla tornare in vita. Non so nemmeno perché non sia completamente morta come dovrebbe.»

«Credo di essere stato io» disse Shadow. «È stata colpa mia.»
Wednesday inarcò un sopracciglio.
«Mad Sweeney mi ha dato una moneta d’oro, la prima sera, quando mi ha fatto vedere il trucco. Da quanto ho capito deve avermi dato la moneta sbagliata. Era più potente del previsto e io l’ho regalata a Laura.»

Wednesday emise un grugnito, abbassò il mento sul petto e aggrottò la fronte. Poi si riappoggiò allo schienale. «In questo caso sì, può essere successo. E comunque no, non sono in grado di aiutarti. Quello che fai nel tuo tempo libero ovviamente è affar tuo.»
«Che cosa vorrebbe dire?»

«Vuol dire che non ti posso impedire di dare la caccia alle pietre aquiline e agli uccelli del tuono. Anche se preferirei infinitamente di più che trascorressi le tue giornate tranquillo e appartato a Lakeside, lontano da sguardi e, spero, da menti indiscrete. Quando le cose si metteranno male avremo bisogno di tutte le braccia disponibili.»
Mentre parlava aveva un’aria molto vecchia e fragile, la sua pelle sembrava quasi trasparente e la carne, sotto la pelle, era grigiastra.

Shadow provò il forte desiderio di allungare una mano e posarla sulla mano grigia di Wednesday. Avrebbe voluto dirgli che tutto si sarebbe risolto per il meglio, una cosa che non credeva, ma che andava detta. Là fuori c’erano uomini dentro treni neri. C’era un ragazzo grasso in una lunga limousine e gente della televisione animata da cattive intenzioni.
Non lo toccò. Non gli disse niente.

Più tardi si chiese se avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi, se quel gesto sarebbe servito a qualcosa, se magari avrebbe potuto allontanare il male che li attendeva. Si rispose che non sarebbe bastato. Sapeva che non sarebbe servito a niente. Tuttavia, dopo, rimpianse che su quel lento volo di ritorno a casa non avesse, anche solo per un istante, sfiorato la mano di Wednesday con la sua.

La breve luce invernale stava già scomparendo quando Wednesday lasciò Shadow davanti a casa. La temperatura, quando aprì la portiera, paragonata al clima di Las Vegas sembrava ancora più da fantascienza.
«Stai lontano dai guai» disse Wednesday. «Fai poco chiasso e non dare nell’occhio.»
«Tutto contemporaneamente?»

«Non fare lo spiritoso con me, ragazzo. A Lakeside puoi passare inosservato. Ho dovuto chiedere un grande favore per tenerti qui al sicuro. In qualsiasi altra città ti scoverebbero nel giro di pochi minuti.»
«Starò buono e mi terrò alla larga dai guai.» Shadow lo pensava davvero. Di guai ne aveva avuti più che a sufficienza ed era pronto a farne a meno. «Quando torni?» chiese.
«Presto» rispose Wednesday. Diede gas alla Lincoln, chiuse il finestrino e ripartì nella notte gelida.


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