American Gods

American Gods

Neil Gaiman

8
I morti hanno un’anima, disse, ma quando gli domandai
Com’era possibile — pensavo che i morti fossero anime,
Mi risvegliò dal sogno. Non ti insospettisce, disse,
Il fatto che i morti tacciano qualcosa?
Sì, c’è qualcosa che ci tengono nascosto.
ROBERT FROST,
Two Witches

Quella sera a cena Shadow apprese che la settimana prima di Natale è sempre un periodo tranquillo per le imprese di pompe funebri. Erano seduti in un ristorantino a due isolati dalla Ibis Jacquel; Shadow stava facendo una colazione completa — c’erano anche le frittelle di mais — e il signor Ibis sbocconcellava una fetta di torta. Fu il signor Ibis a spiegarglielo. «Chi ha ancora qualche giorno di vita resiste per festeggiare l’ultimo Natale» disse «o addirittura il Capodanno, mentre gli altri, quelli che trovano l’allegria e i festeggiamenti altrui troppo dolorosi ma non sono stati portati veramente all’esasperazione dall’ennesima visione di

La vita è meravigliosa,
non hanno ancora la misura colma o meglio, direi, non hanno perso del tutto la proverbiale pazienza della renna.» E parlando fece un piccolo sbuffo compiaciuto come per lasciar intendere che quell’ultima dichiarazione era stata espressa in modo preciso e forbito e lui ne andava particolarmente fiero.

Ibis Jacquel era una piccola azienda a gestione familiare: una delle ultime imprese di pompe funebri davvero indipendenti della zona, sempre secondo il signor Ibis. «Sembra che oggigiorno si preferisca ricorrere a servizi caratterizzati da un marchio identificabile a livello nazionale» spiegò: il suo tono era professorale e a Shadow fece venire in mente un docente universitario che si allenava alla Muscle Farm e sembrava incapace di parlare in modo normale, riusciva solo a insegnare, esporre, pontificare. Shadow aveva capito subito che da una conversazione con lui il signor Ibis si aspettava di sentir dire il minor numero di parole possibile. «E ciò, io credo, perché il cliente vuole conoscere in anticipo il prodotto che sta per acquistare. Ecco spiegata l’esistenza di grosse catene come McDonald’s, Wal-Mart, F.W. Woolworth (che non finiremo mai di rimpiangere), marchi presenti e visibili in tutti gli stati del paese. Così, ovunque si vada, si può ottenere, con qualche piccola variazione locale, lo stesso identico prodotto.

«Nel campo delle pompe funebri, tuttavia, le cose sono diverse. C’è il bisogno di sapere che stai pagando il servizio di una piccola impresa dove le persone lavorano con dedizione. Si desidera un’attenzione particolare per sé e per i propri cari nel momento dì una grave perdita. Si preferisce che il dolore si consumi a livello locale, non su scala nazionale. Ma in ogni settore dell’industria — e la morte è un’industria, mio giovane amico, non farti illusioni — i veri guadagni si ottengono solo lavorando in grande, acquistando la merce in grosse quantità, centralizzando i servizi. Non sarà bello, ma è pur sempre vero. Il problema è che nessuno vuole che i suoi cari viaggino stipati dentro un camion fino a un vecchio deposito trasformato in un’enorme cella frigorifera dove magari ci sono venti, cinquanta o cento cadaveri da smaltire. Nossignore. La gente vuole un ambiente familiare, qualcuno che li tratti con rispetto e che, incontrandoli per strada, li saluti levandosi il cappello.»

Il signor Ibis lo portava, il cappello. Un sobrio cappello marrone intonato alla sobria giacca marrone e alla sobria faccia marrone. Appollaiato sul naso, un paio di occhialini con la montatura d’oro. Nell’immagine che si era fatto Shadow, il signor Ibis era un uomo di bassa statura, ma quando poi gli si trovava accanto doveva ricredersi: in realtà era alto più di un metro e ottanta e camminava un po’ curvo, come un airone. Lì seduto di fronte a lui al tavolo di lucida plastica rossa, Shadow si accorse che i loro occhi erano alla stessa altezza.

«Perciò, quando subentra una grande società che compera il nome della piccola impresa, paga il direttore perché ne mantenga la gestione, creando un’apparente diversificazione dell’offerta. Ma questa è soltanto la punta della lastra tombale. In verità le imprese sono locali come un Burger King. Ora invece noi, per ragioni nostre, siamo davvero indipendenti. Ci occupiamo personalmente dell’imbalsamazione, ed è la migliore del paese, benché nessuno, eccetto noi, se ne possa rendere conto. Non facciamo le cremazioni, però. Potremmo guadagnare di più, se avessimo un forno crematorio, ma questo andrebbe a scapito del ramo in cui eccelliamo. Come dice il mio socio: Se il Signore ti concede un talento o un’abilità, hai l’obbligo di sfruttarla nel migliore dei modi. Non sei d’accordo?»

«Mi sembra sensato» disse Shadow.

«Il Signore ha concesso al mio socio il dominio sui morti, esattamente come a me ha dato l’abilità con le parole. Bella cosa, le parole. Scrivo libri di storie, sai? Non grande letteratura. Per divertirmi. Resoconti di esistenze.» Fece una pausa e quando Shadow avvertì che a quel punto avrebbe dovuto chiedergli di leggere qualcosa, l’opportunità era svanita. «Comunque ciò che noi offriamo è la continuità; la Ibis Jacquel è qui da quasi duecento anni. Non siamo sempre stati un’impresa di pompe funebri, però. Prima eravamo necrofori.»

«E prima ancora?»

«Ebbene» rispose il signor Ibis con un sorriso appena compiaciuto, «bisogna risalire a molto tempo addietro. Certo fu solo dopo la guerra tra Nord e Sud che trovammo la nostra nicchia in questo stato, e diventammo le pompe funebri per tutta la gente di colore dei dintorni. Prima di allora nessuno aveva pensato a noi come a persone di colore: stranieri, magari, esotici e con la pelle scura, ma non neri. Appena finita la guerra, quasi subito dopo, non c’era nessuno che non ci percepisse come neri. Il mio socio ha sempre avuto la pelle più scura della mia. La transizione è stata automatica. Uno è soprattutto ciò che gli altri pensano che sia. È strano quando parlano degli afroamericani, mi fa pensare ai popoli del Punt, dell’Ofir, della Nubia. Noi non ci siamo mai considerati africani, noi eravamo il popolo del Nilo.»

«Allora siete egiziani» disse Shadow.
Il signor Ibis sporse il labbro inferiore, fece oscillare la testa da un lato all’altro come mossa da una molla, soppesando i pro e i contro, esaminando le cose da ogni punto di vista. «Ebbene, sì e no. "Egiziani" mi fa pensare alla popolazione attuale dell’Egitto. Agli uomini che costruiscono le città sulle nostre tombe e i nostri palazzi. Mi somigliano, forse?»

Shadow scrollò le spalle. Aveva visto vecchi neri che gli assomigliavano. Aveva visto anche vecchi bianchi e abbronzati che assomigliavano al signor Ibis.
«Com’è il suo dolce?» chiese la cameriera riempiendo di nuovo le tazze di caffè.
«Il migliore che abbia mai mangiato» rispose il signor Ibis. «Porta i miei saluti alla mamma.»
«Lo farò» rispose la ragazza correndo via.

«È meglio non informarsi sulla salute della gente, se si dirige un’impresa di pompe funebri. Possono credere che tu stia cercando lavoro» spiegò il signor Ibis in tono sommesso. «Vogliamo andare a vedere se la tua stanza è pronta?»
Nell’aria della notte il loro respiro era una nuvoletta visibile. Le luci delle decorazioni natalizie brillavano intermittenti nelle vetrine dei negozi. «È gentile da parte sua ospitarmi» disse Shadow. «Gliene sono grato.»

«Dobbiamo alcuni favori al tuo datore di lavoro. E, il Signore lo sa, la stanza è libera. È una vecchia e grande casa. Eravamo più numerosi, un tempo. Adesso siamo soltanto noi tre. Non ci darai nessun disturbo.»
«Ha idea di quanto tempo dovrò passare con voi?»
Il signor Ibis scosse la testa. «Non l’ha detto. Ma siamo lieti di ospitarti, e possiamo trovarti qualcosa da fare. Se non sei schizzinoso. Se tratti i morti con rispetto.»

«Ma insomma» domandò Shadow, «come mai proprio a Cairo? Ci siete venuti per il nome?»
«No. Al contrario, in effetti è la regione che prende il nome da noi, benché siano in pochi a saperlo. Ai vecchi tempi era una base commerciale.»
«Ai tempi della frontiera?»
«Diciamo così» rispose il signor Ibis. «Buonasera signorina Simmons! E Buon Natale anche a lei! La gente che mi ha portato qui aveva navigato il Mississippi molto tempo prima.»

Shadow si fermò in mezzo alla strada e fissò il suo interlocutore. «Sta cercando di dirmi che cinquemila anni fa gli antichi egizi venivano in America a commerciare?»
Il signor Ibis sorrise compiaciuto. Poi disse: «Tremila e cinquecentotrenta anni fa. Uno più, uno meno».
«Va bene» disse Shadow. «Diciamo che ci credo. E che cosa commerciavano?»

«Niente di che. Pelli di animali. Generi alimentari. Rame dalle miniere dell’attuale Michigan. L’intera faccenda si rivelò deludente, nel complesso. Non ne valeva la pena. Si trattennero abbastanza per credere in noi, per offrirci sacrifici, un pugno di mercanti che poi morirono di febbre e vennero seppelliti qui lasciandoci in eredità alla terra.» Si interruppe dì colpo nel bel mezzo del marciapiede e si voltò spalancando le braccia. «Questo paese è stato trafficato come la stazione di Grand Central per diecimila anni o più. Tu mi dirai: e Colombo?»

«Già» lo assecondò Shadow. «Cosa mi dice di Colombo?»
«Cristoforo Colombo ha fatto ciò che altri facevano da migliaia d’anni. Arrivare in America non è stato niente di speciale. Di tanto in tanto scrivo una storia sull’argomento.» Ripresero a camminare.
«Storie vere?»

«Vere fino a un certo punto. Posso leggertene qualcuna, se ti fa piacere. È tutto lì per chi ha occhi per vedere. Personalmente — e ti parlo da abbonato a "Scientific American" — mi dispiaccio quando gli esperti trovano l’ennesimo cranio che contraddice ogni loro convinzione, qualcosa che sembra appartenere alla popolazione sbagliata; oppure quando statue o manufatti non corrispondono a ciò che sanno, perché allora si mettono a parlare dell’evento eccezionale, ma non affrontano mai l’impossibile, ed è per questo che mi dispiaccio per loro, perché non appena qualcosa diviene impossibile entra nella sfera della fede, indipendentemente dal fatto che sia vero oppure no. Intendo dire, per esempio, prendiamo un cranio di ainu, gli aborigeni giapponesi, ebbene questo cranio ci dimostra che gli ainu erano in America già novemila anni orsono. Ed eccone un altro che prova la presenza dei polinesiani in California circa duemila anni più tardi. E allora gli studiosi borbottano perplessi e si interrogano su chi sia disceso da chi, perdendo completamente di vista il nocciolo della questione. Il Cielo sa cosa accadrebbe se scoprissero le gallerie di emergenza degli hopi. Quelle sì che farebbero vacillare qualche convinzione, aspetta e vedrai.

«E gli irlandesi, vuoi sapere, sono forse venuti in America nell’Alto Medioevo? Senza dubbio, insieme alle genti di Cornovaglia, e ai vichinghi, mentre gli africani della Costa Occidentale — quella che in seguito sarebbe stata chiamata Costa degli Schiavi, o Costa d’Avorio — commerciavano con il Sudamerica, e i cinesi andarono in Oregon un paio di volte, lo chiamavano Fu Sang. I baschi stabilirono le loro zone segrete di pesca sacra al largo delle coste di Terranova milleduecento anni fa. Ora immagino che tu stia per dirmi: ma signor Ibis, quelle erano popolazioni primitive, non avevano i telecomandi, le vitamine e i reattori.»

Shadow non aveva parlato, e nemmeno ne aveva avuto l’intenzione, ma sentendosi interpellato domandò: «Ebbene sì, erano popoli primitivi, non è vero?». Le ultime foglie dell’autunno scricchiolavano sotto i loro passi con la rigidità già tipica dell’inverno.

«L’errore consiste nel ritenere che prima di Colombo la gente non potesse percorrere lunghe distanze via mare. La Nuova Zelanda e Tahiti e innumerevoli isole del Pacifico furono colonizzate da popoli la cui abilità di navigatori avrebbe fatto arrossire Colombo di vergogna; e la ricchezza dell’Africa era fondata sul commercio, benché soprattutto con l’Oriente, con l’India e la Cina. La mia gente, il popolo del Nilo, scoprì molto presto che con un’imbarcazione di giunco e dosi sufficienti di pazienza e giare d’acqua dolce poteva circumnavigare il mondo,. Vedi, il problema più grosso dei viaggi in America era che, considerata la distanza, non si trovava niente di così interessante da scambiare.»

Erano arrivati davanti a una grande casa in stile Queen Ann. Shadow si domandò chi fosse, la Regina Anna, e perché le piacessero tanto quelle case da famiglia Addams. Era l’unico edificio in tutto l’isolato che non avesse le finestre sprangate. Superarono il cancello e passarono dalla porta sul retro.

Il signor Ibis aprì le grandi porte doppie con una chiave che portava appesa alla catena ed entrarono in un’ampia stanza non riscaldata occupata da due persone: un uomo molto alto con la pelle scura che stringeva in mano un grosso bisturi, e una ragazza di vent’anni cadavere, sdraiata su un lungo tavolo di porcellana che sembrava una via di mezzo tra un lastrone e un lavandino.

Sulla parete dietro il cadavere c’era un pannello di sughero al quale erano appese alcune fotografie. In una la ragazza sorrideva, era un’istantanea scattata al liceo. In un’altra era insieme a tre compagne, tutte vestite per il ballo studentesco, e portava i capelli scuri legati in una crocchia intricata.
Cadavere sulla porcellana, adesso, li aveva sciolti, sporchi di sangue secco.
«Questo è il mio socio, il signor Jacquel» disse Ibis.

«Ci siamo già incontrati» disse Jacquel. «Scusa se non ti stringo la mano.»
Shadow guardò la ragazza sul tavolo. «Cosa le è capitato?» chiese.
«Ha dimostrato un gusto tremendo in fatto di fidanzati» rispose Jacquel.
«Non sempre è fatale» aggiunse il signor Ibis con un sospiro. «Questa volta lo è stato. Lui era ubriaco e aveva un coltello, e lei gli ha detto che pensava di essere incinta. Lui non credeva che il figlio fosse suo.»

«È stata pugnalata…» aggiunse Jacquel, e cominciò a contare. Quando premette un pulsante con il piede si sentì un
clic

e il piccolo dittafono sul tavolo vicino si mise in funzione: «… cinque volte. Ci sono tre ferite di punta nella parete toracica anteriore. La prima tra la quarta e la quinta costola al limite mediale della mammella sinistra, due centimetri virgola due di lunghezza; la seconda e la terza attraversano la zona inferiore della parte mediale della mammella penetrando nel sesto spazio intercostale, e misurano tre centimetri. C’è una ferita lunga due centimetri nella parte superiore dell’emitorace sinistro, a livello del secondo spazio intercostale, una lunga cinque centimetri e profonda al massimo uno virgola sei nel deltoide sinistro anteromediale, una lacerazione. Tutte le ferite al petto sono profonde. Da una valutazione esterna non ne risultano altre.» Staccò il piede dal pulsante. Shadow vide che sopra il tavolo dell’imbalsamazione penzolava un piccolo microfono.

«Allora lei è anche medico legale?» domandò Shadow.
«Da queste parti quello del medico legale è un incarico politico» disse Ibis. «Il suo lavoro consiste nel prendere a calci il cadavere. Se il cadavere non glieli restituisce allora lui firma il certificato di morte. Jacquel è quello che chiamano un prosettore. Lavora per il medico legale della contea. Fa le autopsie e conserva campioni dei vari tessuti per le analisi. Ha già fotografato le ferite.»

Jacquel continuava il suo lavoro. Con il grosso bisturi praticò una profonda incisione a V che cominciava dalle clavlcole e terminava in fondo allo sterno, poi trasformò la V in una Y con un’altra profonda incisione che dallo sterno arrivava al pube. Prese un oggetto di metallo cromato che sembrava un trapano, piccolo ma pesante, con una sega circolare, lo mise in funzione e segò le costole.
La ragazza si aprì come una borsetta.

Shadow avvertì subito un odore leggero, sgradevolmente penetrante e pungente.
«Credevo che l’odore fosse più forte» disse.
«È piuttosto fresca» rispose Jacquel. «E siccome gli intestini non sono stati perforati non c’è puzza di merda.»
Shadow distolse lo sguardo, non per un senso di ripulsa, come si sarebbe aspettato, bensì per lo strano desiderio di concedere alla ragazza un po’ di intimità. Più nudi di così, più spalancati, non si poteva essere.

Jacquel estrasse gli intestini luccicanti e serpentini annidati nel ventre e nella pelvi. Li fece scorrere tra le dita centimetro dopo centimetro, descrivendoli come "normali" al microfono, poi li infilò in un secchio appoggiato sul pavimento. Con una pompa aspirò tutto il sangue dal petto della ragazza e ne misurò il volume. Poi ispezionò la cavità toracica. Disse: «Tre lacerazioni del pericardio, sangue coagulato e liquido».

Le afferrò il cuore, lo staccò dalle arterie e lo rigirò tra le mani per esaminarlo. Premette il pulsante con il piede e disse: «Due lacerazioni del miocardio; una di un centimetro e mezzo nel ventricolo destro e una di un centimetro e otto nel ventricolo sinistro».
Estrasse i polmoni, uno dopo l’altro. Il sinistro era stato perforato ed era mezzo collassato. Li pesò, pesò il cuore e fotografò le ferite. Dai due polmoni tagliò una fettina, il campione di tessuto, che mise dentro un barattolo.

«Formaldeide» sussurrò il signor Ibis desideroso di rendersi utile.
Jacquel continuava a parlare nel microfono, descrivendo ogni fase dell’operazione, man mano che rimuoveva fegato, stomaco, milza, pancreas, reni, utero e ovaie.
Pesò tutti gli organi, normali e intatti. Da ciascuno tagliò un campione che mise in un contenitore con formaldeide.

Dal cuore, dal fegato e da uno dei reni tagliò un altro pezzetto che si infilò in bocca e cominciò a masticare lentamente, facendoli durare, mentre lavorava.
Stranamente a Shadow sembrò una cosa giusta: un gesto rispettoso, per niente osceno.
«Dunque starai con noi per un po’?» domandò Jacquel mentre masticava la fettina di cuore della ragazza.
«Se mi volete» rispose Shadow.

«Certamente» disse il signor Ibis. «Non vedo perché dire di no con tutte le buone ragioni che abbiamo per dire sì. Finché resterai qui sarai sotto la nostra protezione.»
«Spero che dormire sotto lo stesso tetto con i defunti non ti disturbi» disse Jacquel.
Shadow pensò alle labbra fredde e amare di Laura. «No» disse. «Finché rimangono defunti.»

Jacquel si voltò a guardarlo: i suoi occhi scuri erano interrogativi e freddi come quelli di un cane del deserto. «Qui i morti restano morti» si limitò a dire.
«Io ho l’impressione che riescano a tornare indietro con una certa facilità.»

«Niente affatto» intervenne Ibis. «Anche gli zombie sono fatti a partire dai vivi. Un po’ di polvere, qualche incantesimo, qualche stimolo ed ecco lo zombie. Vivono, ma credono di essere morti. Riportare davvero alla vita un defunto, con il corpo e tutto, richiede molto potere.» Esitò, poi aggiunse: «Ai vecchi tempi, nella vecchia terra, era più facile».
«Si poteva legare il
ka

di un uomo al suo corpo per cinquemila anni» disse Jacquel. «Legarlo o liberarlo. Succedeva tanto tanto tempo fa.» Prese tutti gli organi che aveva tolto dal corpo della ragazza e rispettosamente li sistemò di nuovo nelle loro cavità. Rimise a posto gli intestini e lo sterno e avvicinò i lembi di pelle. Poi con un grosso ago e del filo la ricucì con gesti rapidi ed esperti, come se stesse cucendo una palla da baseball: la massa di carne si trasformò di nuovo nel cadavere una ragazza.

«Ho bisogno di una birra» disse Jacquel. Si sfilò i guanti e li gettò nel recipiente. In una cesta lasciò cadere il camice marrone e poi prese il vassoio con i barattoli dei campioni degli organi: fettine rosse, marroni e violacee. «Venite con me?»

Salirono le scale che portavano in cucina. Era una stanza tutta marrone e bianca, sobria e rispettabile, che a Shadow sembrò molto anni Venti. Appoggiato a una parete c’era un enorme frigorifero Kelvinator che ronzava con fragore. Jacquel lo aprì, infilò su un ripiano i barattoli con i pezzetti di milza, rene, fegato e cuore e tirò fuori tre bottiglie scure. Ibis prese tre bicchieri alti da una credenza con le antine di vetro. Poi fece segno a Shadow di sedersi al tavolo.

Versò la birra e porse un bicchiere a Shadow, poi a Jacquel. Era un’ottima birra, amara e scura.
«Buona» disse Shadow.


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