American Gods

American Gods

Neil Gaiman

Si stava facendo tardi. Aveva fame e quando si rese conto di essere veramente affamato prese la prima uscita ed entrò nella città di Nottamun (1301 ab.). Fece il pieno di benzina all’Amoco e chiese alla cassiera annoiata dove poteva trovare qualcosa da mangiare.
«Al Jack’s Crocodile Bar. A ovest sulla County Road N.»
«Crocodile Bar?»

«Sì. Secondo Jack il coccodrillo dà un tono al locale.» Sul retro di un volantino color malva che pubblicizzava la vendita di polli arrosto, vendita il cui ricavato sarebbe stato devoluto a favore di una bambina bisognosa di un rene nuovo, gli disegnò il percorso per arrivare. «Ci sono un paio di coccodrilli, un serpente e una di quelle cose tipo lucertolone.»
«Un’iguana?»
«Esattamente.»

Attraversò la città, oltre un ponte, e dopo altri tre chilometri si fermò di fronte a una costruzione rettangolare con l’insegna luminosa della Pabst.
Il parcheggio era semivuoto.
Dentro, l’aria era densa di fumo e dal jukebox uscivano le note di
Walking After Midnight.
Shadow si guardò in giro per scovare i coccodrilli ma non riuscì a trovarli. Si chiese se la donna dell’area di servizio non lo avesse preso in giro.
«Cosa le preparo?» chiese il barista.

«Una birra alla spina e un hamburger completo. Con le patatine.»
«Un piatto di chili per cominciare? È il miglior chili dello stato.»
«Va bene. Dov’è il bagno?»
L’uomo indicò la porta d’angolo. Sopra lo stipite c’era una testa di alligatore imbalsamata. Shadow entrò.

Era un bagno pulito, ben illuminato. Prima di tutto Shadow si diede un’occhiata intorno, un’ispezione dettata dalla forza dell’abitudine. ("Ricordati, Shadow, mentre stai pisciando non ti puoi difendere" disse Low Key, pacato come sempre, nel ricordo.) Entrò nell’orinatoio di sinistra. Abbassò la cerniera e con grande sollievo pisciò per un’eternità leggendo il ritaglio di giornale appeso ad altezza occhi, con foto di Jack in compagnia di due alligatori.

Dall’orinatoio alla sua destra — eppure era certo di non aver sentito entrare nessuno — arrivò un cortese grugnito.
Visto in piedi l’uomo vestito di chiaro era più imponente di come gli era sembrato sull’aeroplano. Era alto quasi come Shadow, e Shadow era un colosso. Fissava dritto davanti a sé. Finì di pisciare, diede una scrollatina per liberarsi delle ultime gocce e chiuse la cerniera.

Poi sorrise come una volpe bloccata da una recinzione di filo spinato. «Allora» disse, «il tempo per pensare ce l’hai avuto. Lo vuoi o no il mio lavoro?»

Altrove, in America

Los Angeles, ore 23.26

In una stanza rosso scuro — il colore delle pareti è quello del fegato crudo — c’è una donna alta vestita come il personaggio di un fumetto con il sedere fasciato da un paio di shorts di seta attillatissimi e i seni prorompenti dalla camicia gialla annodata stretta. Porta i capelli neri legati in una crocchia alta sulla testa. In piedi accanto a lei c’è un uomo di bassa statura con una maglietta verde oliva e un paio di costosi blue jeans. Nella mano destra stringe un portafogli e un cellulare Nokia con la mascherina bianca rossa e blu.

Nella stanza rossa c’è un letto con le lenzuola di satin, bianche, e un copriletto color sangue di bue. Ai piedi del letto un tavolino di legno sul quale è appoggiata una statuetta di pietra dai fianchi enormi con sembianze femminili e, davanti, un candeliere.
La donna porge all’uomo una piccola candela rossa. «Tieni» dice. «Accendila.»
«Io?»
«Sì. Se vuoi avermi.»
«Dovevo farmi fare un pompino in macchina e via.»

«Può darsi» risponde lei. «Allora non mi vuoi?» Fa scorrere le mani dalle cosce al seno in un gesto di presentazione, come se stesse dimostrando un prodotto nuovo.
Una sciarpa di seta rossa sopra la lampada d’angolo tinge di rosso anche la luce.
L’uomo la guarda sbavando, poi prende la candela e la ficca nel candeliere. «Hai da accendere?»

Lei gli passa una scatola di fiammiferi. Lui ne prende uno, accende lo stoppino: la fiamma ondeggia e poi si stabilizza, la statua di donna senza testa, tutta fianchi e seno, sembra muoversi.
«Metti i soldi sotto la statua.»
«Cinquanta sacchi.»
«Sì. Adesso vieni qui e amami.»
Lui sbottona i blue jeans e si sfila la maglietta verde oliva. Lei gli massaggia le spalle con le sue dita scure, poi lo fa voltare e comincia a usare le mani, la lingua.

Lui ha l’impressione che la luce nella camera rossa sia diventata più fioca, e che ci sia solo la candela, che brucia con una bella fiamma, a illuminarla.
«Come ti chiami?» le chiede.
«Bilqis» risponde lei alzando la testa. «Con la Q.»
«Con che?»
«Non importa.»
Adesso lui trattiene il respiro. «Voglio mettertelo dentro» dice. «Lasciatelo mettere dentro.»
«D’accordo, dolcezza. Come vuoi. Però tu devi fare qualcosa per me.»
«Ehi» ribatte lui già sulle sue. «Sono io che pago, non dimenticartelo.»

Lei gli si mette cavalcioni e sussurra: «Lo so, dolcezza, lo so, tu mi paghi e invece dovrei essere io a pagare te, guardati, sono veramente una donna fortunata…».

Lui increspa le labbra come per dire che non è tipo da farsi incantare da quei discorsi da puttana, che non si fa fregare; lei è una prostituta, cazzo, mentre lui è praticamente un produttore, e sa tutto sulle fregature che si tirano all’ultimo minuto, però lei non vuole altri soldi. «Dolcezza» gli dice, «mentre mi scopi, mentre mi sbatti dentro quel grosso cazzo duro, mi potresti adorare?»
«Cosa dovrei fare?»

Lei si muove avanti e indietro: strofina la testa turgida del pene contro le labbra bagnate della vulva.
«Mi potresti chiamare dea? Mi potresti adorare? Mi potresti venerare con il tuo corpo?»
Lui sorride. Tutto lì? Ognuno è libero di eccitarsi come gli pare. «Ma certo» dice. Lei fa scivolare una mano tra le gambe e se lo infila dentro.
«Ti piace, vero, dea?» annaspa lui.
«Venerami, dolcezza» risponde Bilqis, la prostituta.

«Sì. Venero i tuoi seni e i tuoi capelli e la tua figa. Venero le tue cosce e i tuoi occhi e la tua bocca rossa come le ciliegie…»
«Sì…» cantilena lei, cavalcandolo.

«Venero i tuoi capezzoli dai quali scorre il latte della vita. Il tuo bacio è dolce come il miele e le tue carezze bruciano come il fuoco e io le venero.» Adesso le sue parole sono diventate più ritmiche, seguono il movimento dei corpi. «Portami il desiderio del mattino e la pace e la benedizione della sera. Lascia che cammini al buio senza incontrare pericoli e che venga di nuovo fino a te e ti dorma accanto e faccia ancora l’amore con te. Ti venero con tutto me stesso, con tutta la mia mente, con tutti i miei sogni e il mio…» si interrompe, prende fiato. «Ma cosa fai? E stranissimo. Stranissimo veramente…» e guarda in basso cercando di vedere il punto dove i loro corpi si congiungono, ma lei gli mette un dito sotto il mento e lo costringe ad alzare la testa in modo che possa vedere solo la sua faccia e il soffitto.

«Continua a parlare, dolcezza» gli dice. «Non ti fermare. Non è bello?»
«Una cosa così bella non l’avevo mai provata» le risponde lui in tutta sincerità. «I tuoi occhi sono stelle che bruciano nel…, merda, firmamento, e le tue labbra gentili come onde lambiscono la sabbia e io le venero» e adesso spinge sempre più a fondo dentro di lei; si sente elettrizzato, come se tutta la parte inferiore del suo corpo avesse ricevuto una scarica ad alto voltaggio: fallico, congestionato, beato.

«Concedimi il tuo dono» borbotta senza più rendersi conto di quello che dice, «il tuo dono più autentico e fammi sentire sempre. … sempre così… ti prego… io…»
E poi quando il piacere arriva all’apogeo dell’orgasmo, la sua mente esplode nel vuoto e tutto il suo essere si fonde con il perfetto nulla mentre sprofonda, continua a sprofondare…

A occhi chiusi, in preda agli spasmi, si abbandona all’istante, poi gli sembra di rollare, e di essere appeso a testa in giù, benché continui a provare piacere.
Apre gli occhi.
Sforzandosi di ritrovare il senno e la ragione pensa al momento della nascita e senza paura, in un attimo di perfetta lucidità post-coitale, si domanda se ciò che vede è realtà o illusione.
Ecco cosa vede:

È entrato dentro di lei fino al petto e mentre osserva incredulo e meravigliato lo spettacolo lei gli appoggia le mani sulle spalle e imprime una leggera pressione.
Il corpo di lui scivola ancora più dentro.
«Ma come fai?» chiede, o pensa di chiedere, ma forse lo pensa soltanto.

«Sei tu che lo fai, dolcezza» sussurra lei. Lui sente le labbra della vulva stringerglisi intorno al petto e alla schiena, costringendolo, avvolgendolo. Si domanda che cosa penserebbero, se lo vedessero. Si domanda perché non ha paura. E poi capisce.
«Ti venero con il mio corpo» sussurra, mentre lei lo spinge dentro del tutto. La vulva gli accarezza la faccia e i suoi occhi scivolano nell’oscurità.
Lei si distende sul letto come un’enorme gattona e sbadiglia. «Sì» dice. «Proprio così.»

Il cellulare Nokia suona, una trasposizione elettronica dell’
Inno alla gioia.
Lei lo prende e se l’avvicina all’orecchio.
Ha il ventre piatto, la vulva piccola, chiusa. Un velo di sudore le imperla la fronte e il labbro superiore.
«Pronto?» dice. E poi aggiunge: «No, dolcezza, non c’è. È andato via».
Spegne il telefono prima di adagiarsi completamente sul letto nella camera rossa, si stira un’altra volta, chiude gli occhi e si addormenta.


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