American Gods

American Gods

Neil Gaiman

La pioggia scendeva a raffiche violente dal cielo grigio, una pioggia gelata che lo pungeva in faccia, e il soprabito leggero era già inzuppato mentre si avvicinavano all’ex pulmino scolastico che li avrebbe portati nella città più vicina.

Quando arrivarono al pulmino erano bagnati fradici. Erano in otto a lasciare il carcere. Dentro ne rimanevano mille e cinquecento. Shadow prese posto e rabbrividì fino a quando non cominciò a funzionare il riscaldamento, chiedendosi che cosa avrebbe fatto, adesso, e dove sarebbe andato.
Figure spettrali gli affollavano la mente, non invitate. Con l’immaginazione stava lasciando una prigione diversa in un altro tempo, un tempo molto lontano.

Era rimasto chiuso in una stanza buia troppo a lungo: la barba era incolta e i capelli un groviglio. I secondini lo avevano accompagnato giù per una scala di pietra grigia e su una piazza piena dei colori accesi di cose e persone. Era giorno di mercato e il rumore e le luci lo frastornavano mentre socchiudeva gli occhi per difendersi dal sole che inondava la piazza; annusava l’aria umida e salmastra e tutti i buoni odori del mercato, e alla sua sinistra il sole scintillava riflesso nell’acqua…

Il pulmino si fermò con un sobbalzo a un semaforo rosso.
Il vento ululava e i tergicristalli si trascinavano pesanti di pioggia, trasformando la città in un’imbrattatura umida, rossa e gialla. Benché fosse primo pomeriggio di là del finestrino sembrava già notte.
«Merda» disse il suo vicino cercando di togliere con la mano la condensa dal vetro per guardare una passante tutta bagnata che correva sul marciapiede. «C’è la figa, là fuori.»

Shadow deglutì. Gli venne in mente che non aveva ancora pianto, che in effetti non aveva provato niente. Niente lacrime. Nessun dolore. Zero.
Si ritrovò a pensare a un certo Johnnie Larch che era stato in cella con lui durante i primi tempi e che gli aveva raccontato di essere uscito, una volta, dopo cinque anni dietro le sbarre, con in tasca cento dollari e un biglietto aereo per Seattle, dove viveva la sorella.

Arrivato all’aeroporto aveva mostrato il biglietto all’impiegata e lei gli aveva chiesto la patente.
Gliel’aveva data. Era una patente scaduta da un paio d’anni. L’impiegata aveva detto che non era valida come documento di identità. Lui le aveva risposto che forse non era valida come patente di guida ma certamente bastava per identificarlo, e comunque chi cazzo credeva che fosse, se non era lui?
Lei gli aveva detto di non alzare la voce.

Lui le aveva ordinato di dargli la carta d’imbarco perché altrimenti se ne sarebbe pentita. Non aveva nessuna intenzione di farsi mancare di rispetto in quel modo. In galera non ti lasci mancare di rispetto.
Allora lei aveva premuto un pulsante e nel giro di pochi secondi gli agenti di sicurezza dell’aeroporto erano intervenuti e l’avevano convinto ad andarsene senza fare storie, e siccome lui non se ne voleva andare era seguito un alterco.

Risultato, a Seattle Johnnie Larch non c’era mai arrivato. Aveva passato due giorni nei bar della città, e una volta finiti i cento dollari aveva rapinato un distributore di benzina con una pistola giocattolo per pagarsi da bere, finché la polizia lo aveva beccato mentre pisciava per strada. Nel giro di poco tempo era tornato dentro a scontare il resto della pena nonché un extra per il lavoretto al distributore.

La morale della storia, secondo Johnnie Larch, era questa: mai far incazzare quelli che lavorano all’aeroporto.
«Sei sicuro che il concetto non sia più tipo: "Il genere di comportamento che funziona in particolari ambienti, come quello carcerario, può non funzionare o rivelarsi addirittura dannoso all’esterno di quell’ambiente?"» aveva domandato Shadow, finito di ascoltarlo.
«No, da’ retta a me, amico: non far incazzare quelle troie dell’aeroporto.»

Shadow quasi sorrise, immaginando la scena. La sua patente era valida ancora per qualche mese.
«Stazione degli autobus! Tutti fuori!»
L’edificio puzzava di piscio e birra rancida. Shadow salì su un taxi e chiese al conducente di portarlo all’aeroporto. Gli disse anche che gli avrebbe dato una mancia di cinque dollari se avesse guidato senza parlare. Arrivarono in venti minuti senza scambiare nemmeno una parola.

Poi attraversò incespicando il terminal troppo illuminato. Il fatto di avere una prenotazione elettronica lo preoccupava. Il suo biglietto era fissato per venerdì, e non sapeva se gli avrebbero potuto spostare la prenotazione. Tutto quello che aveva a che fare con l’elettronica gli sembrava magico e quindi capace di scomparire in qualsiasi momento.

Comunque era tornato in possesso del suo portafoglio, dopo tre anni, con dentro alcune carte di credito scadute e una Visa che, scoprì con piacere, era ancora valida fino alla fine di gennaio. Aveva il numero della prenotazione e la certezza che una volta a casa tutto si sarebbe, chissà come, aggiustato. Laura doveva essere viva. Forse si era trattato di un imbroglio per farlo uscire qualche giorno prima. Oppure di un caso di omonimia: il corpo estratto dai rottami apparteneva a un’altra Laura Moon.

Oltre le vetrate dell’aeroporto vedeva i fulmini. Shadow si accorse che tratteneva il respiro, come se aspettasse qualcosa. Il rombo distante del tuono. Espirò.
Una donna bianca lo fissava da dietro il banco con l’aria stanca.
«Buongiorno» le disse.
Sei la prima estranea in carne e ossa con la quale parlo da anni.
«Ho la prenotazione di un biglietto elettronico. Sarebbe per venerdì, ma devo partire oggi. C’è stato un decesso nella mia famiglia.»

«Mmm. Mi dispiace.» La donna digitò sulla tastiera, fissò lo schermo del monitor e digitò qualcos’altro. «Nessun problema. C’è posto sul volo delle tre e mezzo. Può darsi che parta in ritardo a causa del maltempo, quindi tenga d’occhio il tabellone. Ha bagagli?»
Le mostrò la sacca che portava a tracolla. «Non devo fare il check-in per questa, vero?»
«No. La tenga pure. Ha un documento di identità?»

Shadow le fece vedere la patente. Non era un aeroporto grande, ma lo stupiva la quantità di gente che vi si aggirava senza fare niente. Osservò qualcuno appoggiare i bagagli per terra con disinvoltura, portafogli infilati nelle tasche, borsette incustodite sotto le sedie. Fu soltanto allora che si rese conto di non essere più in prigione.

Trenta minuti all’imbarco. Comperò una fetta di pizza e il formaggio fuso gli bruciò le labbra. Prese il resto e andò verso i telefoni. Chiamò Robbie alla Muscle Farm, ma gli rispose la segreteria telefonica.
«Ciao Robbie» disse. «Dicono che Laura è morta. Mi hanno fatto uscire prima. Sto tornando a casa.»
Poi, visto che ci si può sempre sbagliare, lo sapeva per esperienza diretta, compose il numero di casa e ascoltò la voce registrata di Laura.

"Ciao, non sono in casa oppure non posso rispondere. Lasciate un messaggio e vi richiamerò. Buona giornata."
Shadow non riuscì a lasciare un messaggio.
Rimase seduto su una seggiola di plastica vicino al cancello stringendo la sacca così forte da farsi male alla mano.

Pensò alla prima volta che l’aveva vista. Non sapeva nemmeno il suo nome. Era l’amica di Audrey Burton. Era con Robbie in un séparé del Chi-Chi quando lei era entrata dietro Audrey e lui era rimasto a fissarla. Aveva i capelli lunghi, castani, e gli occhi così azzurri che Shadow aveva erroneamente creduto si trattasse di lenti a contatto colorate. Lei aveva ordinato un daiquiri alla fragola insistendo per farglielo assaggiare, e quando lui l’aveva provato era scoppiata a ridere felice.

A Laura piaceva che gli altri provassero quello che piaceva a lei.
Quando le aveva dato il bacio della buonanotte le sue labbra sapevano di daiquiri alla fragola e da quel momento in poi non aveva più desiderato baciare nessun’altra.

Una voce femminile annunciò che il volo era pronto per l’imbarco e la fila di Shadow fu proprio la prima a essere chiamata. Aveva un posto in coda, con un sedile vuoto accanto. La pioggia batteva incessante contro la fusoliera: Shadow immaginò un gruppo di bambinetti che lanciavano giù dal cielo manciate di piselli secchi.
Quando cominciò il decollo si addormentò.

Era in un luogo buio, e la cosa che lo stava fissando aveva una testa di bufalo orribilmente pelosa, ed enormi occhi acquosi. Il corpo era quello di un uomo, lucido d’olio.
«Cambiamenti in vista» disse il bufalo senza muovere le labbra. «Vi sono alcune decisioni da prendere.»
Il bagliore delle fiamme si rifletteva sulle pareti umide della caverna.
«Dove mi trovo?»

«Nella terra e sottoterra» rispose l’uomo-bufalo. «Sei dove attendono coloro che sono stati dimenticati.» I suoi occhi erano liquide biglie nere, e la voce un rombo dall’altro mondo. Puzzava come una vacca bagnata. «Credi» disse la voce tonante, «se vuoi sopravvivere devi credere.»
«Credere? A cosa?»
L’uomo-bufalo fissò Shadow e si issò, enorme, con occhi di bragia. Aprì la bocca maculata che all’interno era rossa per via del fuoco che bruciava dentro, sottoterra.
«A tutto» ruggì.

Il mondo vorticò e si capovolse e Shadow era di nuovo sull’aeroplano ma continuava ugualmente a vorticare. Qualche fila più avanti una donna gridò poco convinta.
I fulmini saettavano con bagliori accecanti. Il comandante comunicò che avrebbe cercato di guadagnare quota per allontanarsi dal temporale.

L’aeroplano sobbalzava procedendo a scossoni e Shadow si domandò con freddezza se sarebbe morto. Sembrava possibile, stabilì, anche se improbabile. Guardò fuori del finestrino l’orizzonte squarciato dai lampi.
Poi si riappisolò e sognò di essere ancora in prigione e che durante la coda per entrare nella sala mensa Low Key gli sussurrava che qualcuno aveva pagato un killer per ucciderlo, ma Shadow non poteva sapere chi era né perché, e quando si risvegliò si stavano preparando all’atterraggio.

Scese barcollando dall’aeroplano, battendo le palpebre per svegliarsi.
Tutti gli aeroporti si somigliano, pensò. E secondario il luogo in cui sorgono, è sempre un aeroporto: piastrelle e passaggi e toilette, cancelli, edicole e luci al neon. Anche questo sembrava un aeroporto qualsiasi. Il problema era che non si trattava dell’aeroporto dov’era diretto. Era più grande, molto più affollato, con un numero di cancelli decisamente troppo alto.
«Signora, mi scusi.»

L’impiegata alzò gli occhi dal foglio. «Prego?»
«In che aeroporto siamo?»
Lei lo guardò perplessa, come per capire se parlasse sul serio e infine disse: «St Louis».
«Ero diretto a Eagle Point.»
«Infatti. Ma è atterrato qui per via del maltempo. Non l’hanno annunciato?»
«È possibile. Mi sono addormentato.»
«Deve parlare con quel signore con la giacca rossa.»

Era un uomo alto quasi quanto Shadow e sembrava appena uscito dal ruolo del padre di famiglia in una sitcom degli anni Settanta. Digitò qualcosa sulla tastiera del computer e poi gli disse di correre — «Corra!» — al cancello in fondo al terminal.
Shadow attraversò di corsa l’aeroporto, ma quando arrivò al cancello lo trovò chiuso. Restò a osservare di qua dal vetro l’aereo che si allontanava.

La donna all’assistenza clienti (piccola e scura di pelle, con un neo sul naso) si consultò con una collega e fece una telefonata. («Niente da fare, l’imbarco per il suo volo è già chiuso. L’hanno cancellato dal tabellone.») Poi stampò una carta d’imbarco nuova. «Questa la porterà a destinazione» gli disse. «Telefoniamo al cancello per dire che l’aspettino.»

A Shadow sembrava di essere diventato il pisello che viene fatto saltare fra le tre tazze, o una carta mescolata nel mazzo. Attraversò di nuovo l’aeroporto correndo e si trovò più o meno nel punto da cui era appena tornato.
Al cancello un ometto gli ritirò la carta d’imbarco. «La stavamo aspettando» dichiarò staccando la matrice e restituendogli il pezzetto con il numero del posto assegnato, il 17D. Shadow si affrettò a salire e lo sportello dell’aeroplano si chiuse alle sue spalle.

Attraversò la prima classe, quattro posti in tutto, di cui tre occupati. L’uomo con la barba, vestito di chiaro, seduto accanto al posto libero della prima fila, gli sorrise e alzò il braccio picchiettando con un dito sul quadrante dell’orologio. Shadow proseguì.
Sì, d’accordo, ti sto facendo fare tardi,
pensò.
Mi auguro che sia l’ultima delle tue preoccupazioni.

L’aeroplano gli sembrava pieno, mentre percorreva il corridoio diretto verso la coda, anzi, scoprì che lo era davvero e che al 17D era già seduta una donna di mezza età. Shadow le mostrò la carta e lei gli mostrò la sua: erano identiche.
«Può sedersi, per favore?» chiese la hostess.
«No» rispose lui. «Temo di no.»

La hostess fece schioccare la lingua e controllò le due carte, poi ingiunse a Shadow di seguirla e gli indicò il posto vuoto della prima classe. «A quanto pare è il suo giorno fortunato» disse. «Desidera bere qualcosa? C’è ancora un po’ di tempo prima del decollo e se lo merita, dopo lo spavento di trovarsi senza posto.»
«Mi piacerebbe una birra. Di qualsiasi marca.»
La hostess si allontanò.

L’uomo vestito di chiaro seduto accanto a lui picchiettò di nuovo con l’unghia sul quadrante dell’orologio. «Sei in ritardo» disse, e gli fece un grande sorriso che non esprimeva alcuna simpatia.
«Prego?»
«Pensavo che non ce l’avremmo fatta.»
La hostess servì la birra a Shadow.
Per un attimo lui pensò che l’altro fosse matto, poi decise che si riferiva all’aeroplano. «Mi dispiace averla fatta aspettare» disse in tono cortese. «Ha molta fretta?»

Il velivolo cominciò la manovra di allontanamento dal cancello e la hostess venne a ritirare il bicchiere. L’uomo in chiaro le sorrise e disse: «Non preoccuparti del mio, me lo tengo stretto» e lei gli lasciò il bicchiere di Jack Daniel’s protestando debolmente che era contro i regolamenti della compagnia aerea. («Lascia che sia io a deciderlo, mia cara.»)
«Il tempo è certamente un fattore essenziale. Comunque no, non ho fretta. Mi preoccupavo soltanto che non riuscissi a farcela.»

«Molto gentile da parte sua.»
L’aeroplano scaldava i motori, ancora fermo ma tutto teso al decollo.
«Gentile un corno» rispose l’uomo in chiaro. «Ho un lavoro per te, Shadow.»
Un rombo e il piccolo velivolo sobbalzò in avanti respingendo Shadow contro lo schienale. Si erano staccati da terra e le luci dell’aeroporto fuggivano sotto di loro. Guardò il suo vicino.

Aveva i capelli più grigi che rossi e la barba, corta, più rossa che grigia. Una faccia scabra, squadrata, con gli occhi di un grigio chiarissimo. Indossava un vestito costoso, color gelato alla vaniglia squagliato. La cravatta, di seta, era grigio scuro, fermata da una spilla d’argento a forma di albero: fusto, rami e radici profonde.
Durante il decollo non fece cadere neppure una goccia di Jack Daniel’s.
«Non vuoi chiedermi che tipo di lavoro?»
«Come fa a sapere il mio nome?»

L’uomo ridacchiò. «Oh, sapere come si chiama la gente è la cosa più facile del mondo. Un pizzico di cervello, un pizzico di fortuna e un pizzico di memoria. Chiedimi che tipo di lavoro.»
«No» rispose Shadow. La hostess gli portò un’altra birra e lui la sorseggiò.
«Perché no?»
«Sto tornando a casa, dove ho un lavoro che mi aspetta. Non ne voglio un altro.»

Il sorriso ruvido dell’uomo non cambiò, ma adesso sembrava palesemente divertito. «A casa non ti aspetta nessun lavoro» disse. «Non c’è niente, per te. Mentre io ti sto offrendo un impiego perfettamente rispettabile, ben pagato, con un certo margine di sicurezza e considerevoli premi di indennità. Se vivi abbastanza a lungo posso perfino pagarti i contributi. Ti interessa?»
«Deve aver visto il mio nome sulla borsa.»
L’uomo non fece commenti.

«Chiunque lei sia» riprese Shadow, «non poteva sapere che avrei preso proprio questo volo. Non lo sapevo neanch’io, e se non fossi atterrato all’aeroporto di St Louis non sarei nemmeno qui. Io credo che lei sia un buontempone, o forse una specie di truffatore. Comunque, direi che la cosa migliore è interrompere subito questa conversazione.»
L’uomo scrollò le spalle.

Shadow prese la rivista di bordo ma l’aereo procedeva a scatti e sobbalzi, rendendo difficile la lettura. Le parole gli attraversavano la mente volteggiando come bolle di sapone senza lasciare traccia.
Il suo vicino sorseggiava tranquillamente il Jack Daniel’s a occhi chiusi.

Shadow lesse la lista dei canali di musica disponibili sui voli transoceanici e studiò la mappa del mondo dove le linee percorse dalla compagnia aerea erano disegnate in rosso. Poi finì di leggere la rivista e, seppure con riluttanza, la chiuse e la ripose nella tasca del sedile.
L’uomo aprì gli occhi. C’era qualcosa di strano nei suoi occhi, pensò Shadow. Uno era più scuro dell’altro. Anche lui lo stava guardando. «A proposito» disse, «mi dispiace per tua moglie, Shadow. Una grave perdita.»

Fu sul punto di dargli un pugno, invece prese un profondo respiro. ("Come ti ho già detto, è meglio non far incazzare quelle troie all’aeroporto" disse Johnnie Larch da un ricordo, "perché potrebbero farti risbattere dentro in un amen.") Contò fino a cinque.
«Dispiace anche a me» disse.
L’uomo scosse la testa. «Se solo non fosse stato necessario farla soffrire» disse, e sorrise.
«È morta in un incidente d’auto» replicò Shadow. «Ci sono modi peggiori per morire.»

L’altro scosse di nuovo la testa, lentamente. Per un momento a Shadow sembrò incorporeo; come se l’interno dell’aeroplano fosse di colpo molto reale e il suo vicino no.
«Shadow, non è uno scherzo. Non è un trucco. Posso pagarti meglio di chiunque altro. Sei un ex detenuto. Non faranno la fila per assumerti.»
«Senti, signor non-so-come-cazzo-ti-chiami» disse Shadow sovrastando il frastuono dei motori, «i soldi di tutto il mondo non basterebbero.»

Il sorriso diventò più largo e a Shadow tornò in mente un documentario sugli scimpanzé in cui veniva spiegato che quando scimmie e scimpanzé sorridono in realtà mostrano i denti per esprimere odio, aggressività o terrore. Il sorriso di uno scimpanzé è da interpretare come una minaccia.

«Lavora per me. Qualche rischio c’è, è ovvio, ma se sopravvivi potrai avere tutto quello che il tuo cuore desidera. Potresti diventare il prossimo re d’America. Adesso, dimmi chi potrebbe ricompensarti con tanta generosità?»
«Ma chi sei?»
«Ah, sì. Siamo nell’era dell’informazione — signorina, potrebbe servirmi un altro Jack Daniel’s? Poco ghiaccio — anche se ovviamente non è mai stato diverso. Informazione e conoscenza: due valute che non sono mai andate fuori corso.»
«Ti ho domandato chi sei.»

«Vediamo. Be’, visto che oggi è sicuramente il mio giorno, perché non mi chiami Wednesday? Sono il signor Wednesday. Anche se, considerato il tempo, potresti addirittura chiamarmi Thursday. Che ne dici?»
«Ma come ti chiami, veramente?»

«Lavora per me e lavora bene» rispose l’uomo in chiaro «e magari te lo dirò. Ecco qua. Questa è la mia offerta. Pensaci su. Nessuno pretende che tu dica immediatamente di sì senza neanche sapere se stai per finire in una vasca piena di piraña o in pasto agli orsi. Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale.
«Non c’è niente da decidere» disse Shadow. «Tu non mi piaci. Non voglio lavorare per te.»

«Come ho già detto» rispose l’uomo senza aprire gli occhi, «non c’è fretta. Prenditi tutto il tempo necessario.»
L’aeroplano atterrò con uno scossone e alcuni passeggeri scesero. Shadow guardò dal finestrino: era un piccolo aeroporto in mezzo al nulla e prima di arrivare a Eagle Point c’erano altri due scali intermedi. Gettò un’occhiata all’uomo vestito di chiaro, il signor Wednesday. Sembrava addormentato.

Impulsivamente si alzò, afferrò la borsa e imboccò il corridoio. Scese la scaletta e a passo regolare attraversò la pista bagnata, diretto verse le luci del terminal. Cadeva una pioggia leggera.
Prima di entrare nell’edificio si fermò e si voltò a guardare. Nessun altro era sceso, dopo di lui. Entrò e noleggiò un’automobile, una piccola Toyota rossa, scoprì una volta arrivato nel parcheggio.

Aprì la cartina che gli avevano fornito in dotazione e la spalancò sul sedile accanto al suo. Eagle Point si trovava a circa trecentottanta chilometri.
Il temporale era passato, ammesso che fosse arrivato fin lì. Faceva freddo e il cielo era sereno. Le nuvole correvano davanti alla luna e per un attimo Shadow non capì cosa si stesse muovendo, se erano le nubi o la luna.
Guidò per un’ora e mezzo verso nord.


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