American Gods

American Gods

Neil Gaiman

20
è
primavera
e
il
capripede
palloNaro fischia
da
lon
tanis
simo.
E.E. CUMMINGS

A bordo di un’auto a noleggio Shadow uscì dalla foresta alle otto e trenta del mattino, percorse la discesa senza superare i settanta chilometri orari ed entrò nella città di Lakeside tre settimane dopo averla lasciata, sicuro che non ci sarebbe tornato mai più.
La attraversò, sorprendendosi di quanto poco fosse cambiata in quelle settimane, un’eternità, per lui, e parcheggiò a metà della carrozzabile che conduceva al lago. Poi scese dalla macchina.

Sul lago gelato non c’erano più le baracche dei pescatori, nessun fuoristrada, nessuno seduto davanti a un buco nel ghiaccio con la canna da pesca e una scorta di birra. Il lago era scuro: non più coperto dallo strato bianco di neve, adesso lasciava intravedere qua e là in superficie chiazze d’acqua sopra le quali si rifletteva la luce, e sotto il ghiaccio l’acqua era nera, mentre il ghiaccio era abbastanza trasparente da rivelare l’oscurità sottostante. Il cielo era grigio sopra il lago cupo e deserto.

Quasi deserto.

C’era ancora una macchina parcheggiata vicino al ponte, in una posizione tale che per chiunque attraversasse la città era impossibile non notarla. Era verde sporco, il tipo di macchina che la gente abbandona nei parcheggi. Le era stato levato il motore. Era il simbolo di una scommessa, in attesa che il ghiaccio, squagliandosi pericolosamente, la lasciasse inghiottire per sempre. In fondo alla breve carrozzabile c’era una catena, con un cartello che proibiva l’ingresso a pedoni e veicoli, GHIACCIO SOTTILE, c’era scritto, sopra una sequenza di simboli contrassegnati da una croce: niente macchine, niente pedoni, niente gatti delle nevi, PERICOLO.

Shadow ignorò il cartello e cominciò a scendere. L’argine era scivoloso, la neve si era già sciolta trasformando il terreno in fanghiglia e l’erba offriva scarsa aderenza. Continuando a scivolare, percorse con cautela un piccolo pontile di legno e da lì scese al lago.

Lo strato d’acqua sopra il ghiaccio, un’acqua fatta di ghiaccio e neve sciolti, era più spesso di quel che gli era sembrato dall’alto, e il lago era diventato peggio di una pista di pattinaggio, costringendo Shadow a lottare per restare in piedi. Affondò fino alle caviglie e l’acqua gli entrò negli stivali. Acqua ghiacciata che intorpidiva le membra. Mentre attraversava a fatica il lago ghiacciato Shadow provava uno strano distacco; era come se stesse guardando un film di cui lui era l’eroe: un investigatore, forse.

Si diresse verso la bagnarola, dolorosamente consapevole del fatto che lo strato di ghiaccio era ormai troppo sottile, e che l’acqua sotto era fredda quasi al punto di ghiacciarsi di nuovo. Continuò a camminare, scivolando e cadendo più volte.
Passò accanto a mucchi di bottiglie e lattine vuote e aggirò i buchi scavati dai pescatori, buchi che non si erano più richiusi, pieni di acqua nera.
La bagnarola era più lontana di quanto aveva pensato dalla strada. Sentì un forte
crac

provenire dalla parte meridionale del lago, il rumore del legno che si spezza, seguito da un suono sordo, come se qualcuno avesse fatto vibrare la corda di un contrabbasso grande come il lago. Uno scricchiolio imponente come quello di una gigantesca porta molto antica che protestava. Shadow proseguì sforzandosi di non cadere.
È un suicidio,
gli sussurrò la voce della ragione in un angolo della mente.
Non potresti lasciar perdere?
«No» disse a voce alta. «Devo sapere.» E continuò a camminare.

Arrivò alla bagnarola e, ancora prima di toccarla, capì di non essersi sbagliato. Intorno alla macchina aleggiava un miasma, un vago fetore di putrefazione che prendeva anche alla gola. Fece il giro e guardò dentro. I sedili erano tutti rotti e macchiati. L’abitacolo era vuoto. Cercò di aprire le portiere. Erano chiuse con la sicura. Provò il bagagliaio. Chiuso anche quello.
Rimpianse di non aver portato con sé un piede di porco.

Strinse una mano a pugno dentro al guanto, contò fino a tre e colpì forte il finestrino dal lato del volante.
La mano gli faceva male ma il finestrino era rimasto intatto.
Pensò di prendere la rincorsa e dare un calcio al vetro; certo così sarebbe riuscito a romperlo, se non fosse scivolato. L’ultima cosa che desiderava era disturbare troppo la bagnarola facendo cedere il ghiaccio su cui era appoggiata.

La guardò. Poi si avvicinò all’antenna della radio — il tipo di antenna che sale e scende, bloccata in alto da almeno dieci anni — e dopo averla un po’ scossa riuscì a spezzarla alla base. Afferrò l’estremità più sottile, dove una volta doveva esserci stato un pulsantino metallico ormai scomparso, e la piegò a gancio.

Riuscì a infilarla tra il vetro e la gomma di protezione del finestrino spingendola fino alla sicura. Armeggiò, annaspò alla cieca fino a quando il gancio di metallo non si strinse intorno alla chiusura, e a quel punto tirò.
Sentì che il gancio improvvisato perdeva la presa.
Sospirò e ripeté l’operazione, più lentamente, con più attenzione. Gli sembrava di sentire il ghiaccio lamentarsi quando spostava il peso da un piede all’altro. E piano… piano…

L’aveva agganciato. Tirò verso l’alto e la sicura della portiera scattò. Shadow cercò di aprirla con la mano guantata, impugnò la maniglia e tirò; la portiera non cedeva.
È bloccata,
pensò,
congelata. Per questo non si apre.
Cercando di aprirla scivolò e all’improvviso la portiera cedette disseminando pezzi di ghiaccio dappertutto.
Nell’abitacolo il miasma era più intenso, un fetore di decomposizione e morte da sentirsi male.

Allungò una mano sotto il cruscotto, trovò il gancio di plastica nera che comandava l’apertura del baule e tirò con forza.
Sentì un piccolo tonfo alle spalle, quando il bagagliaio scattò.
Scivolando fece il giro della macchina appoggiandosi per non cadere.
È nel baule,
pensò di nuovo.
Il bagagliaio era socchiuso. Si chinò per aprirlo completamente.

L’odore era cattivo, ma avrebbe potuto essere molto più intenso: il fondo del baule era coperto da un paio di centimetri di ghiaccio mezzo sciolto. C’era una ragazza, dentro. Indossava una tuta da neve rossa, tutta macchiata, adesso, e i capelli diritti erano lunghi. Siccome aveva la bocca chiusa Shadow non poteva vedere l’apparecchio con gli elastici azzurri, però sapeva che c’era. Il freddo l’aveva conservata come in un freezer.

Gli occhi erano spalancati, la morte l’aveva colta mentre piangeva: le lacrime che le si erano congelate sulle guance non si erano ancora sciolte.
«Sei sempre stata qui» disse Shadow al cadavere di Alison McGovern. «Tutti quelli che sono passati sul ponte ti hanno vista. Tutti quelli che sono entrati in città ti hanno vista. I pescatori ti sono passati vicino tutti i giorni e nessuno sapeva.»
Allora si rese conto di quant’era stupida, la sua ultima affermazione.

Qualcuno doveva pur sapere. Qualcuno l’aveva pur messa lì dentro.
Allungò le braccia per vedere se riusciva a tirarla fuori. Appoggiò tutto il peso alla macchina e, forse, fu quello a provocare il disastro.

Il ghiaccio sotto le ruote anteriori cedette di colpo in quel preciso momento, forse a causa dei suoi movimenti, o forse no. La macchina affondò il muso nel lago buio e imbarcò acqua dalla portiera aperta. Shadow sentì l’acqua che gli bagnava le caviglie, anche se il punto dove si trovava lui sembrava ancora solido. Si guardò intorno affannosamente, chiedendosi come fare a cavarsi dai guai. Troppo tardi, anche lì il ghiaccio cedette di botto scagliandolo contro la macchina e la ragazza morta dentro il bagagliaio, e il posteriore andò giù, e Shadow con lei, nelle acque fredde. Erano le nove e dieci del mattino del ventitré marzo.

Prima di andare sotto riuscì a prendere un profondo respiro e a chiudere gli occhi, ma il freddo dell’acqua lo colpì come un muro, mozzandogli il fiato.
Rotolò nell’acqua scura trascinato dalla macchina.
Era sotto il lago, nelle sue gelide tenebre, appesantito dagli indumenti, dai guanti e dagli stivali, fasciato e intrappolato nel piumino che assorbiva l’acqua e diventava pesante.

Stava ancora cadendo. Cercò di allontanarsi dalla macchina ma era impossibile, poi un tonfo gli riecheggiò in tutto il corpo, non nelle orecchie, e si rese conto che il piede sinistro era piegato, intrappolato sotto la macchina che si stava appoggiando sul fondale, e venne assalito dal panico.
Aprì gli occhi.

Sapeva che laggiù era buio: razionalmente sapeva che era troppo buio per vedere, invece vedeva ogni particolare. Il volto pallido di Alison McGovern che lo fissava dal baule aperto. Le altre macchine, le bagnarole degli anni passati, sagome di carcasse arrugginite nell’oscurità, erano semisepolte nel fango.
E chissà quali altri mezzi di trasporto avevano messo in mezzo al lago,
si chiese,
prima dell’avvento delle automobili.

Ogni vettura, lo sapeva con certezza, conteneva un bambino morto. Erano decine… e ognuna era stata parcheggiata sul ghiaccio sotto gli occhi di tutti per l’intero inverno, per poi sprofondare nelle acque fredde con l’arrivo della bella stagione.
Era lì che riposavano Lemmi Hautala e Jessie Lovat e Sandy Olsen, Jo Ming e Sara Lindquist e gli altri bambini. Laggiù dove regnavano gelo e silenzio…

Tirò per liberare il piede. Era impigliato. La pressione nei polmoni stava diventando insopportabile. Sentiva un dolore lancinante nelle orecchie. Espirò lentamente e l’acqua formò una piccola scia di bollicine intorno alla sua faccia.
Tra poco,
pensò,
tra poco dovrò respirare. Oppure soffocherò.
Appoggiò le mani al paraurti e spinse con tutte le sue forze. Niente.
È soltanto l’involucro di una macchina,
si disse.

Hanno tolto il motore che è la parte più pesante. Ce la puoi fare. Continua a spingere.
Spinse.
Lentamente, un tormentoso centimetro dopo l’altro, la bagnarola scivolò sul fango e lui riuscì a liberare il piede. Scalciò cercando di risalire in superficie. Non si mosse.
La giacca,
si disse.
Il piumino. È bloccato, è impigliato da qualche parte.

Lo sfilò dalle braccia, armeggiò con le dita intorpidite intorno alla cerniera ghiacciata, poi l’aprì con uno strappo, sentì la stoffa cedere e freneticamente si liberò dal suo abbraccio spingendo verso l’alto, lontano.

Ebbe la sensazione di salire, ma non capiva più dov’era il sopra e dov’era il sotto e stava soffocando, il dolore nel petto e nella testa erano troppo forti, doveva inspirare, era certo che avrebbe inghiottito acqua fredda e sarebbe morto. Poi con la testa colpì qualcosa di solido.

Ghiaccio. Aveva cozzato contro lo strato di ghiaccio sul lago. Lo colpì con i pugni ma non aveva più forza nelle braccia, non trovava appigli, niente contro cui spingere. Il mondo si era dissolto nella fredda tenebra sotto il lago. Restava soltanto il freddo.
È ridicolo,
pensò. E allora gli tornò in mente un vecchio film con Tony Curtis che aveva visto da bambino,

dovrei girarmi sulla schiena e spingere il ghiaccio verso l’alto schiacciando la faccia contro per trovare un po’ d’aria, così potrei respirare, ci deve essere dell’aria nell’intercapedine,
invece stava solo galleggiando, stava morendo congelato e non avrebbe potuto muovere un muscolo nemmeno se ne fosse andato della sua vita, e in effetti c’era proprio quella in gioco.
Il freddo divenne insopportabile, il gelo si trasformò in calore.
Sto morendo,

pensò. Questa volta provò una rabbia, un furore profondo, e afferrando quel dolore e quella rabbia si dimenò, costringendo all’azione muscoli che non avrebbero voluto muoversi mai più.
Allungò una mano, sentì che raschiava il bordo del ghiaccio e veniva a contatto con l’aria. Annaspò in cerca di un appiglio e sentì che un’altra mano stringeva la sua e tirava verso l’alto.

Picchiò con la testa contro lo strato di ghiaccio, con la faccia ne raschiò la parte inferiore, riemerse all’aria passando da un buco, non potendo far altro che inghiottire aria, mentre l’acqua nera del lago gli colava dal naso e dalla bocca. Batté le palpebre, non riusciva a vedere nient’altro che la luce abbagliante e una sagoma indistinta, qualcuno che lo tirava forte costringendolo a uscire e diceva qualcosa a proposito del fatto che sarebbe congelato: perciò coraggio, amico, forza, e Shadow riemerse scrollandosi come una foca, tremando, tossendo.

Ansimando profondamente si lasciò cadere sul ghiaccio sottile, pur sapendo che ormai non avrebbe resistito a lungo neanche quel pezzo. I suoi pensieri erano lenti e densi come sciroppo.
«Lasciatemi qua» cercò di dire. «Me la caverò.» Parlava strascicando le parole.
Aveva bisogno di riposare un momento, tutto lì, voleva riposare e poi si sarebbe alzato per mettersi in salvo. Era evidente che non poteva restare lì per sempre.

Sentì uno strattone, dell’acqua sulla faccia. Qualcuno gli sollevò la testa. Si accorse che lo trascinavano sulla schiena, avrebbe voluto protestare, spiegare che aveva bisogno di riposare un po’ — magari fare un sonnellino, era chiedere troppo? — e che dopo si sarebbe ripreso. Se soltanto l’avessero lasciato in pace.

Non credeva di essersi addormentato, comunque era in piedi in mezzo a una grande prateria con un uomo con la testa e le spalle di un bufalo e una donna con la testa di un enorme condor, e c’era anche Whiskey Jack tra i due che lo guardava con tristezza scuotendo la testa.
Whiskey Jack gli voltò le spalle e si allontanò lentamente. L’uomo-bufalo si allontanò con lui. La donna uccello di tuono si avviò, poi piegò la testa e con un colpo d’ali planò.

Shadow si sentiva perduto. Avrebbe voluto chiamarli, implorarli di tornare, di non abbandonarlo, ma tutto stava diventando informe: se n’erano andati, la prateria sbiadiva e ogni cosa divenne vuota.

Sentiva un gran male. Era come se ogni cellula del suo corpo, ogni nervo, si stesse scongelando e risvegliando, rendendo nota la sua presenza con un bruciore doloroso.
Una mano dietro la testa lo teneva per i capelli, un’altra gli sosteneva il mento. Aprì gli occhi convinto di trovarsi in ospedale.

Aveva i piedi nudi, indossava ancora i jeans ma era nudo dalla cintola in su. L’aria era satura di vapore. Vedeva uno specchio da barba su un muro di fronte e una bacinella, uno spazzolino azzurro dentro un bicchiere sporco di dentifricio.
Le informazioni venivano processate lentamente dal cervello, un dato per volta.
Gli bruciavano le dita delle mani. Gli bruciavano le dita dei piedi.
Cominciò a gemere.
«Buono, Mike. Buono, adesso» disse una voce conosciuta.

«Come?» cercò di dire. «Cos’è successo?» La sua voce suonava innaturale.
Era immerso in una vasca da bagno piena d’acqua calda. Lui credeva che l’acqua fosse calda, però non ne era certo. Gli arrivava fino al collo.

«La cosa più stupida che si può fare con qualcuno che sta morendo per congelamento è metterlo davanti al fuoco. La seconda cosa più stupida è avvolgerlo nelle coperte, specialmente se i vestiti che porta sono già bagnati. Le coperte lo isolerebbero, trattenendo il freddo all’interno. La terza cosa più stupida — questa è la mia opinione personale — è di togliergli tutto il sangue, riscaldarlo e rimetterglielo dentro. È quello che fanno i medici oggigiorno. Complicato, costoso. Stupido.» La voce arrivava dall’alto, da dietro.

«La cosa più intelligente e più rapida da fare è quello che per secoli hanno fatto i marinai quando un uomo cadeva in mare. Metti il poveraccio dentro l’acqua calda. Non troppo calda. Calda giusta. Adesso, per tua informazione, quando ti ho trovato sul ghiaccio eri sostanzialmente morto. Come ti senti, Houdini?»
«Fa male» rispose Shadow. «Fa male dappertutto. Mi ha salvato la vita.»
«Credo di sì. Riesci a tenere su la testa da solo?»
«Forse.»
«La lascio andare. Se affondi ti riacciuffo.»

Le mani lasciarono la presa.
Shadow si accorse di scivolare piano piano verso il basso. Allungò le mani, afferrò i bordi della vasca e poi appoggiò la schiena. Il bagno era piccolo, la vasca di metallo aveva lo smalto coperto di macchie e di graffi.
Un vecchio entrò nel suo campo visivo. Aveva l’aria preoccupata.

«Ti senti meglio?» chiese Hinzelmann. «Stai lì tranquillo. Ti ho riscaldato ben bene il salotto. Quando te la senti ti presto un accappatoio così posso mettere i pantaloni nell’asciugatrice insieme al resto. D’accordo, Mike?»
«Non mi chiamo Mike.»
«Se lo dici tu.» Il vecchio contrasse la faccia da folletto in un’espressione di disagio.

Shadow aveva perso il senso del tempo: rimase nella vasca fino a quando non riuscì a flettere le dita delle mani e dei piedi senza sentire troppo male. Hinzelmann lo aiutò ad alzarsi e fece scaricare l’acqua. Shadow sedette su un angolo della vasca e con l’aiuto del vecchio si sfilò i pantaloni.

Riuscì a mettersi senza eccessiva difficoltà un accappatoio di spugna troppo piccolo e, sempre appoggiandosi a Hinzelmann, andò a buttarsi su un antico divano nel salotto. Era stanco, debole, profondamente affaticato ma vivo. Nel camino bruciavano alcuni ceppi. Teste di daino dall’aria sorpresa occhieggiavano impolverate dalle pareti, contendendo lo spazio ad alcuni enormi pesci laccati.

Hinzelmann si allontanò con i suoi pantaloni e dopo una breve pausa dalla stanza vicina giunse il rumore sferragliante dell’asciugatrice. Il vecchio tornò con una tazza fumante.
«È caffè» disse, «che è uno stimolante. Ci ho messo un goccio di schnapps. Soltanto un goccio. È quello che si faceva una volta. Un medico oggi non lo consiglierebbe.»
Shadow prese la tazza con entrambe le mani. Su un lato c’era disegnata una zanzara e la frase "Donate sangue-Visitate il Wisconsin!".
«Grazie» disse.

«È a questo che servono gli amici» ribatté Hinzelmann. «Un giorno potresti essere tu a salvarmi la vita. Ma non pensiamoci adesso.»
Shadow sorseggiò il caffè. «Credevo di essere morto.»

«Sei stato fortunato. Ero sul ponte — avevo immaginato che il gran giorno sarebbe stato oggi, te lo senti, a un certo punto, quando hai la mia età — così ero lì con il mio orologio quando ti ho visto uscire. Ho gridato, ma sicuramente non mi hai sentito. Ho visto la macchina andare giù e ti ho visto andar giù con lei e ho pensato che eri perduto. Sono corso sul ghiaccio. Mi hai fatto vedere i sorci verdi. Devi essere rimasto sott’acqua quasi due minuti. Poi ho visto la mano che spuntava nel punto dov’era la macchina, è stato come vedere un fantasma…» Si interruppe. «Per fortuna che il ghiaccio ha retto mentre ti trascinavo a riva.»

Shadow annuì.
«È stato bravissimo» disse a Hinzelmann, e il vecchio sorrise radioso con la sua faccia da folletto.
Shadow sentì chiudersi una porta. Continuò a sorseggiare il caffè.
Adesso che riusciva a pensare più lucidamente cominciava a farsi delle domande.
Si chiedeva per esempio come avesse fatto un uomo anziano, alto metà di lui e pesante forse un terzo a trascinarlo svenuto sul ghiaccio fino alla macchina. Si domandava come avesse fatto a portarlo in casa e a infilarlo nella vasca.

Hinzelmann si avvicinò al camino e con le pinze mise un ceppo sottile nel fuoco.
«Vuole sapere che cosa stavo facendo sul ghiaccio?»
Hinzelmann scrollò le spalle. «Non sono affari miei.»
«Sa, non capisco…» Shadow esitò per mettere ordine nei pensieri, «non capisco perché mi abbia salvato la vita.»
«Be’» disse Hinzelmann, «perché è così che sono stato cresciuto, se vedi qualcuno nei guai…»

«No» lo interruppe Shadow. «Non è questo che intendevo. Voglio dire, lei ha ammazzato tutti quei bambini, ogni inverno un bambino. Ero l’unico ad averlo capito. Deve aver visto che aprivo il bagagliaio. Perché non mi ha lasciato annegare?»
Hinzelmann piegò la testa e si grattò pensieroso il naso ondeggiando avanti e indietro come se stesse riflettendo. «Be’» disse, «è una buona domanda. Credo di averlo fatto perché ero in debito con un certo individuo. E io sono uno che paga i debiti.»

«Wednesday?»
«Esatto, lui.»
«C’era una ragione per cui dovevo nascondermi proprio a Lakeside, vero? Una ragione per cui nessuno sarebbe mai riuscito a trovarmi?»
Hinzelmann non disse niente. Sganciò un pesante attizzatoio nero dal muro e attizzò il fuoco, facendo alzare una nube di scintille e fumo. «Questa è casa mia» rispose in tono petulante. «È una buona città.»
Shadow finì di bere il caffè e appoggiò la tazza sul pavimento. Lo sforzo gli sembrò sfinente. «Da quanto tempo vive qui?»


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