È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo


Mark Fisher, 11 luglio 1968 - 13 gennaio 2017

Tratto da Realismo Capitalista (2009), NERO, Roma, 2017

In una delle scene chiave de I figli degli uomini, il film di Alfonso Cuarón del 2006, il protagonista Theo (interpretato da Clive Owen) fa visita a un amico alla centrale elettrica di Battersea, ormai un incrocio tra un ufficio governativo e una collezione d’arte privata. Tesori come il David di Michelangelo, Guernica di Picasso o il maiale gonfiabile dei Pink Floyd, sono conservati in un edificio che è a sua volta uno stabile storico ristrutturato. Sarà il nostro unico sguardo sulla vita delle élite, rintanate lì dentro per proteggersi dagli effetti di una catastrofe che ha provocato la sterilità di massa: da generazioni, non nascono figli.
Theo domanda all’amico che senso ha mettersi a collezionare tante opere d’arte, visto che nessuno potrà più vederle: il pretesto non possono essere le nuove generazioni, per il semplice motivo che non ce ne saranno. La risposta è nichilista ed edonista assieme: «Molto semplice: non ci penso».
A rendere interessante una distopia come I figli degli uomini è il fatto che riflette in maniera puntuale la temperie del tardo capitalismo. Quello che ci troviamo di fronte non è il classico scenario totalitario di titoli distopici come V per Vendetta, il film di James McTeigue del 2005: d’accordo, nel romanzo di P.D. James da cui è tratta la pellicola di Cuarón la democrazia è sospesa e il paese è retto da un autoproclamato Governatore; ma la sceneggiatura del film, tutto questo lo lascia saggiamente sullo sfondo. Per quel che ne sappiamo, le misure autoritarie che intuiamo dalla trama possono essere state attuate all’interno di una cornice ancora
democratica, almeno nominalmente. La cosiddetta guerra al terrore ci ha già preparato a simili sviluppi; la normalizzazione della crisi ha prodotto una situazione nella quale la fine delle misure d’emergenza è diventata un’eventualità semplicemente impensabile: quand’è che la guerra potrà davvero dirsi conclusa?
Guardando I figli degli uomini ho inevitabilmente pensato alla frase di volta in volta attribuita a Fredric Jameson o Slavoj Žižek, quella secondo la quale è più facile immaginare la fine del mondo
che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente. Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti. Con I figli degli uomini questo non avviene: il mondo che prefigura sembra un’estrapolazione o un’esacerbazione del nostro, più che una realtà alternativa vera e propria. In quel mondo come nel nostro, ultra-autoritarismo e Capitale non sono in alcun modo incompatibili: i
campi d’internamento e le caffetterie in franchise coesistono in tutta tranquillità. Ne I figli degli uomini lo spazio pubblico è abbandonato, popolato da null’altro che immondizia e animali in libertà (una scena particolarmente suggestiva è ambientata in una scuola ormai a pezzi dentro la quale troviamo una renna che corre). I neoliberali, ovvero i realisti capitalisti per eccellenza, hanno più volte celebrato la distruzione dello spazio pubblico: ma contrariamente alle loro aspirazioni ufficiali, ne
I figli degli uomini non assistiamo a nessun arretramento dello Stato, quanto semmai un ritorno dello Stato alle sue originarie funzioni di stampo
militare e poliziesco. (A proposito: se ho parlato di aspirazioni «ufficiali» è perché l’ideologia neoliberale, nonostante ami da sempre scagliarsi contro lo Stato, è proprio sullo Stato che ha surrettiziamente contato. Il fenomeno è stato particolarmente evidente durante la crisi del 2008, quando – come da indicazione degli ideologi neoliberali – gli Stati si sono precipitati in soccorso del sistema bancario.)
Ne I figli degli uomini la catastrofe non è dietro l’angolo, né è già avvenuta: piuttosto, viene attraversata. Non c’è un momento preciso in cui il disastro si compie, né il mondo finisce con un bang: semmai si esaurisce, sfuma, va lentamente a pezzi. Da dove viene questa catastrofe, chi lo sa: le sue cause affondano in un passato lontano, e sono così assolutamente scollegate dal presente da non sembrare altro che il capriccio di qualche entità maligna, un miracolo negativo, una maledizione che nessuna penitenza potrà mai emendare.
Una simile rovina potrà essere placata soltanto da un intervento ancor meno prevedibile dell’origine stessa della maledizione. Agire è inutile; ad avere
senso, è solo un speranza insensata. Proliferano superstizione e religione, primi rifugi dei disperati.
Ma che dire della catastrofe in sé? È chiaro che il tema della sterilità va letto metaforicamente, come allusione a un altro tipo di ansia. Quello che
sostengo è che quest’ansia vada letta in termini culturali, e che il film ponga la seguente questione: senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?

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