jacobinitalia.it Il lavoro al tempo della crisi del clima - Jacobin Italia

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Jacobin Italia@JacobinItalia·22 Giu

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La questione ecologica è diventata un problema politico grazie e non malgrado le lotte del movimento operaio. Adesso però è evidente che il benessere per tutti e tutte non si otterrà producendo di più ma distribuendo meglio

È piuttosto diffusa, nel nostro paese più che altrove, l’abitudine a pensare che le ragioni dell’ambiente e quelle del lavoro siano irrimediabilmente contrapposte. L’idea di fondo è che il ricatto occupazionale – «O la salute o la fabbrica» – sia scritto nel destino di lavoratrici e lavoratori industriali. Tertium non datur: si pensi alla tragedia dell’Ilva di Taranto. Questa interpretazione ha trovato una sua legittimazione storiografica. Tuttavia è, se non del tutto falsa, certamente parziale; in ogni caso, per nulla innocente. Datare la politicizzazione delle questioni ambientali a cavallo tra anni Settanta e Ottanta – cioè dopo il grande ciclo di conflitti fordisti – è un modo di interiorizzare la sconfitta di uno straordinario ciclo di lotte (1968-1973) che aveva indicato nella democrazia economica, cioè nell’equità sociale, la condizione necessaria per contrastare il degrado ambientale sui luoghi di lavoro (in particolare l’inquinamento di aria, suoli e acque), in certi casi eliminandolo del tutto.

Che tale sconfitta sia effettivamente avvenuta è indubbio; del fatto che fosse necessaria, invece, è lecito diffidare. Di più: il peggioramento delle basi materiali della riproduzione della biosfera rende quantomai urgente gettare un nuovo sguardo su quel passaggio storico. Altrettanto parziale, ma rovesciato: il problema non è il rapporto lavoro-natura, ma la tanto sbandierata compatibilità tra ambiente e capitale. Liberarsi di questo feticcio apre lo spazio per (ri)annodare istanze ambientaliste, rivendicazioni sindacali e campagne di movimento. In breve: ciò di cui si sente il bisogno. In questo quadro, tornare a interrogare i conflitti sulla nocività tra gli anni Sessanta e Settanta serve a capire come la questione ecologica sia diventata un problema propriamente politico grazie e non malgrado l’azione conflittuale del movimento operaio. 

È grazie a lotte durissime e innovative come quelle ai reparti verniciatura della Fiat, o in quelli dove si trattava il cloruro di vinile al petrolchimico Montedison, che il tema della salubrità dell’ambiente – prima in fabbrica, poi su tutto il territorio – da questione tecnica riguardante i siti produttivi diventa posta in gioco della negoziazione sindacale e di movimento. 

La ricercatrice Stefania Barca suggerisce l’evocativo termine ambientalismo operaio per descrivere il costituirsi di un sapere di parte sull’ambiente di lavoro che non accettava d’essere ignorato o prevaricato: il luogo di lavoro diventava un tipo particolare di ecosistema, la classe operaia ne faceva il suo habitat «naturale» e finiva per conoscerlo meglio di chiunque altro. Non è un caso che i conflitti contro la nocività industriale siano i primi a sottoporre a critica feroce la cosiddetta monetizzazione del rischio, l’idea cioè che un aumento salariale o uno scatto di livello potessero «compensare» l’esposizione a sostanze inquinanti anche molto pericolose. È su questa irrisarcibilità della salute operaia che figure centrali di quelle battaglie, come Ivar Oddone a Torino o Augusto Finzi a Porto Marghera, incentrarono una duratura azione militante le cui tracce sono facilmente visibili e portano dritti alla riforma sanitaria che nel 1978 istituì il Servizio sanitario nazionale. 

Questa critica non diventerà patrimonio comune dell’agire sindacale, il cui bilancio è da considerarsi negativo dal momento che l’introduzione di maggiori misure di sicurezza non seguì una logica sistemica ma fu subordinata a singole scelte aziendali. Ciò non toglie però che sia stata prima di tutto la forza degli operai organizzati (in forme sindacali o direttamente politiche) a far saltare il meccanismo compensativo e a porre come inaggirabile la questione ecologica. Solo in un secondo momento emergerà il movimento ambientalista, molto legato al tema del nucleare. Una nuova sensibilità post-materialista, fondata su valori etico-estetici piuttosto che socio-economici, si sarebbe affermata nei ceti medi urbanizzati solo negli anni Ottanta. 

Due elementi importanti vanno aggiunti: il primo è che le lotte contro la nocività industriale del ciclo 1968-1973 non avrebbero avuto l’impatto dirompente che in effetti ebbero se non si fossero collegate ai più ampi conflitti che in quel periodo certificavano il protagonismo sociale dei soggetti della sfera della riproduzione (in particolare il pensiero femminista). Il secondo aspetto è che il movimento operaio non riuscì a esprimere una strategia univoca al riguardo: emerse piuttosto una tensione tra le prospettive di liberazione del lavoro salariato – sostenute per esempio da Bruno Trentin, al tempo segretario della Fiom, e dalla sinistra sindacale – e l’ambizione di liberarsi dal lavoro salariato – fatta propria dalle organizzazioni operaiste: Potere Operaio prima, Autonomia operaia poi.

Nanni Balestrini e Primo Moroni, in quel meraviglioso libro che è L’orda d’oro, sostengono che l’incapacità di conciliare queste due opzioni – segnatamente attorno alla comune rivendicazione di una riduzione del tempo di lavoro – abbia portato alla sconfitta del ciclo di lotte 1968-1973. In luogo del potere operaio sulla composizione qualitativa della produzione si ebbe la reazione – violentissima – del capitale: frantumazione del lavoro, smantellamento del welfare e finanziarizzazione accelerata. Da un punto di vista ambientale la controffensiva delle élite fu duplice: in un primo momento, in assenza di una strategia di sviluppo capace di trasformare il problema ecologico da fattore di crisi a opportunità di profitto, la risposta al protagonismo operaio del decennio precedente fu l’inversione di tendenza rispetto alla forbice sociale: se fino a quel punto la dinamica era andata verso il restringimento, di lì in poi la polarizzazione di classe avrebbe ricominciato a crescere. In un secondo momento, con l’avvento del neoliberalismo e il crollo dell’Urss, la diseguaglianza continuò ad aumentare ma su di un mutato sfondo discorsivo. L’idea di sviluppo sostenibile indicò una possibile compatibilità tra crescita economica e cura dell’ambiente, mentre la green economy si spinse un passo più in là: la crisi ecologica non andava più considerata un ostacolo allo sviluppo, bensì una sua fondamentale condizione di possibilità (si pensi per esempio all’onnipresente retorica sull’economia circolare). 

La green economy è il tentativo di adattare il vincolo ambientale all’accumulazione di capitale trasformandolo da barriera a propulsore del valore. Si basa sulla creazione di mercati ad hoc, come quelli in cui ci si può scambiare permessi e crediti di emissione. Così si può postulare un’affinità elettiva tra logica del profitto e manutenzione ambientale. Con una certa preveggenza, già nel 1988 sulle pagine della rivista Primo Maggio, Sergio Bologna notava quanto il capitale avesse bisogno dell’ambientalismo per raggiungere la frontiera di una nuova rivoluzione industriale. Il rovesciamento è servito. Mezzo secolo fa la prima ondata di nocività ambientali (in particolare rifiuti e inquinamento) divenne un fatto politico sulla spinta delle lotte sociali e operaie. A partire dagli anni Novanta si assiste invece alla gestione neoliberale non soltanto di quelle nocività, ma anche della seconda ondata di danni ecologici (rischi biotecnologici, geoingegneria e cambiamento climatico). È il modello che dal Protocollo di Kyoto (1997) arriva fino all’Accordo di Parigi (2015): benché il riscaldamento globale rappresenti un fallimento del mercato (che non ha saputo contabilizzare le cosiddette «esternalità negative»), per farvi fronte si istituiscono altri mercati su cui scambiare merci-natura (per esempio la capacità delle foreste di assorbire CO2). Non si tratta di incursioni nell’iperuranio: i meccanismi flessibili che mercificano il clima sono il principale strumento di politica economica utilizzato dalla convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici.

Eppure qualcosa è cambiato negli ultimi mesi: il modello di governo della crisi climatica basato sul mercato si è sfaldato sia per defezioni interne – il cartello degli stati negazionisti capitanato da Trump è uscito allo scoperto – sia sotto la pressione di movimenti vecchi e nuovi – rispettivamente, i vari nodi della rete di giustizia climatica e i Fridays for Future. Insomma, è ormai conclamato che la scommessa della green economy non funzioni, che mostri cioè un’evidente contraddizione tra il (supposto) fine ecologico e gli (effettivi) mezzi economici dei mercati ambientali. Sebbene nessun miglioramento ecologico sia stato ottenuto grazie a questi mercati un’enorme quantità di denaro è stata trasferita, per ironia della sorte, ad azionisti di imprese del settore dell’energia fossile. Con questo sfaldamento dell’affinità tra ambiente e capitale – molto incensata ma mai realmente operativa – torna d’attualità l’alleanza tra natura e lavoro intravista per brevi anni e poi travolta dalla ristrutturazione capitalistica a trazione neoliberale. 

Il contesto di oggi è diverso: ci sono almeno due novità di cui bisognerà tener conto nel momento in cui sindacalisti, ambientalisti radicali e militanti del clima s’incontreranno per elaborare una strategia comune. In primo luogo, sappiamo che il metabolismo sociale (cioè la quantità di materia ed energia che attraversa il sistema sociale) deve snellirsi e che l’impatto antropico sui cicli di riproduzione della biosfera deve ridursi. Il benessere per tutte e tutti non si otterrà producendo di più, ma distribuendo meglio. Ciò non implica contrarre quella particolare tipologia di cooperazione che chiamiamo «processo lavorativo», ma svincolarla dall’esigenza di produrre profitti a ogni costo. La famosa crescita non dovrebbe rappresentare l’obiettivo indiscusso della politica economica, anche perché da decenni essa non garantisce un livello decente di uguaglianza. Il lavoro di cui c’è sempre più bisogno – riproduttivo, di manutenzione – non somiglia affatto a quello salariato delle otto ore al giorno (se va bene); assume piuttosto i tratti della cura collettiva e della messa in sicurezza. Insomma, una nuova bussola per la rotta indicata dalle lotte contro le nocività industriali: democrazia economica, cioè equità sociale, come condizione per contrastare il degrado ambientale – anche e forse soprattutto nella sua odierna e più insidiosa manifestazione, il cambiamento climatico. 

*Emanuele Leonardi è ricercatore del Centro de estudos sociales dell’Università di Coimbra. Ha scritto Lavoro Natura Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita (Orthotes editrice).

Fonte: https://jacobinitalia.it/il-lavoro-al-tempo-della-crisi-del-clima/



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