Un'analisi della gestione pandemica alla luce di un cambiamento di fase

Un'analisi della gestione pandemica alla luce di un cambiamento di fase


E’ indubbio che la pandemia e le misure messe in campo dai governi in relazione, vera o puramente retorica, a questa abbiano rappresentato un fatto politico di un’importanza notevole. Si deve però procedere nell’analisi di questi eventi partendo da una visione che contempli sia il “prima”, ossia l’insieme dei processi che hanno portato alla situazione pre-covid, sia il “dopo” ossia lo sviluppo possibile di questi al di là della contingenza pandemica e delle sue immediate conseguenze. Assolutizzare la pandemia o i vari strumenti della gestione pandemica, pensare che questi abbiano in se stessi una giustificazione rappresenta un grave errore, perché porta all’incomprensione dei fenomeni, che vengono quindi ricondotti a cause vaghe ed occulte, e all’impossibilità di elaborazione di una risposta adeguata, sostituita da iniziative velleitarie o in una vera e propria “caccia ai fantasmi”, mentre invece la Storia non perde tempo ed incalza anche gli incauti rimasti intrappolati in eventi passati.

Le cause “lontane”: tagli e privatizzazioni 

Senza dubbio il recente disvelamento al grande pubblico della grande rete internazionale di bio-laboratori collegati ai programmi militari statunitensi da parte della Federazione Russa, così come le mai chiarite operazioni del già noto laboratorio di Fort Detrick, Maryland, hanno rinvigorito i dubbi riguardo l’origine del SARS-Cov-2. Ma al di là di qualsiasi ricostruzione, sulla quale non è possibile in nessun caso esprimersi con certezza, è assolutamente certo che l’impatto che il coronavirus ha avuto sulla nostra società è stato pesantemente condizionato dallo stato dei sistemi sanitari. Là dove più alta è stata la capacità di resistenza allo stress ospedaliero portato dalle primissime fasi della pandemia, dove le condizioni generali della salute della popolazione erano migliori, dove l’intervento statale è stato caratterizzato dalla volontà di tutelare realmente la salute dei cittadini si sono visti percorsi ben diversi rispetto a dove sistemi sanitari in agonia hanno visto unicamente appoggi retorici e mediatici. L’Italia è arrivata al 2020 dopo aver affrontato decenni di continui tagli alla spesa sanitaria, ben documentati per il periodo 2010-2019 dal rapporto della Fondazione Gimbe del luglio 2019 (https://www.gimbe.org/pagine/1229/it/report-72019-il-definanziamento-20102019- del-ssn). Leggendo questo si scopre che nel periodo preso in considerazione quasi 40 miliardi di euro sono stati decurtati alla spesa sanitaria, mentre venivano chiusi 200 ospedali, con la perdita di 45.000 posti letto, 10 mila medici e 11 mila infermieri. Ma non solo: percorsi di privatizzazione, parziale o integrale, si sono sommati a quelli di “accorpamento”, che nella creazione di ospedali unici hanno privato di copertura sanitaria intere province. Tutto ciò è avvenuto in perfetta aderenza con le direttive europee, e ritrova la medesima volontà affermata nel PNRR del governo Draghi, che oltre ai magri investimenti nella sanità, (4 mld all’anno per sei anni, a debito, indirizzati allo sviluppo della “telemedicina”, al passaggio al privato di un'ampia gamma di trattamenti quali diabete ed ipertensione, al decurtamento del personale in un’ottica di “sostenibilità delle spese” e, ovviamente, al pagamento dei vaccini) promette un’accelerazione nei processi di privatizzazione e aziendalizzazione, favorito in questo dal progetto dell’autonomia differenziata. Al 19 marzo 2020 si contavano in totale 5.200 posti letto in terapia intensiva, concentrati soprattutto nelle regioni del centro-nord, che sommati ai posti in ospedali diurni e quelli generali portano la cifra totale a poco più che 150 mila, circa uno ogni 400 italiani, per una popolazione di 59,5 milioni di abitanti, con un'età media di 45 anni, e con un terzo della popolazione che ogni anno, con un qualsiasi codice d’urgenza, si reca all’ospedale. La distribuzione di questi come detto non è per nulla omogenea: tenendo conto dei posti letto massimi attivati durante la pandemia (superiori in alcuni casi di diverse volte a quelli attivi in tempi regolari) si passa dai 27 del Molise (305 mila abitanti, uno ogni 11mila cittadini), ai 1260 della Lombardia (11 milioni di abitanti, uno ogni 8700 cittadini), ai 163 della Sardegna (1,34 milioni di abitanti, uno ogni 10 mila cittadini) , ai 600 della Campania (16 milioni di abitanti, un posto letto ogni 28mila cittadini) (https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=82888).

Confrontando sommariamente questi dati con quelli di altri paesi si scopre non solo che l’Italia si posizione al di sotto della media europea sia per investimenti nella sanità, sia per numero di posti letto (https://www.openpolis.it/la-disponibilita-di-posti-letto-negli-ospedali-deuropa/). In particolare l’Italia si posizionava, al 2018, al ventiduesimo posto su ventisette paesi. A livello mondiale, con i dati pre-pandemici del 2020, invece la vediamo scivolare addirittura al sessantacinquesimo posto, superata, fra gli altri, da Corea del Nord (13,2 posti letto ogni 1000 abitanti), Bielorussia (10,8 posti letto ogni 1000 abitanti), Russia (8 posti letto ogni 1000 abitanti), Serbia (5,6 posti letto ogni 1000 abitanti), Cuba (5,3 posti letto ogni 1000 abitanti), Cina (4,3 posti letto ogni 1000 abitanti), San Marino (3,8 posti letto ogni 1000 abitanti) e Micronesia (3,2 posti letto ogni 1000 abitanti). (“CIA world factbook 2020”, 1 gennaio 2020). Paesi enormi o minuscoli, con redditi nazionali ben più alti o molto più bassi di quello italiano, che però sono riusciti a garantire in maniera quantitativamente migliore l’accesso al sistema sanitario ai propri cittadini. Le cause della disastrosa gestione pandemica in Italia nascono proprio da questa situazione di estremo malessere del Sistema Sanitario Nazionale, trasformato da tempo in un insieme di “aziende sanitarie” vere e proprie società per azioni interessate unicamente al profitto, alla vendita sul mercato di un servizio come un altro, senza particolare cura per la centralità che dovrebbe avere in una democrazia sana l’accessibilità e le capacità di un sistema sanitario. Dalla precarizzazione degli operatori sanitari alla chiusura di reparti ed ospedali, è chiaro come la colpa primigenia di ogni dissesto sanitario vada ricercata nella classe politica italiana e nel sistema di potere di cui è stata, ed è, espressione.

Le cause “immediate”: irrazionalità e capri espiatori

Dal patetico, e paternalisticamente razzista, invito ad “abbracciare un cinese” alle “zone”, passando per le “fasi”, i “piani” e il coprifuoco, la gestione pandemica italiana è stata caratterizzata dalla più profonda irrazionalità e dall’incapacità di provvedere ad un approccio “strategico” e di lungo respiro. Le iniziative di potenziamento sanitario, anche per colpa della sottomissione di questo comparto agli ordinamenti regionali, sono state segnate dall’anarchia, dalla corruzione e dall’inefficacia, mentre il susseguirsi di “regole” in continua evoluzione, comunicate spesso a mezzo social, hanno non solo minato profondamente la fiducia dei cittadini nei confronti degli esecutivi, ma hanno anche contribuito alla più generale incapacità di provvedere con una risposta chiara, univoca ed efficace. E’ inutile soffermarsi poi sul contenuto pratico di certe disposizioni: non merita menzione l’irrazionalità di fondo delle restrizioni per la consumazione ai tavoli unita al divieto di farla ai banconi, tramutatasi poi nel suo opposto, per venire poi ad essere trasformata ulteriormente nell’obbligo d’asporto per tornare poi alla riaffermazione della “salubrità” di tavolini e sedie. E’ invece più importante soffermarsi sui processi di colpevolizzazione che si sono susseguiti. Davanti alla manifesta incapacità dell’ordine costituito tanto di impedire la diffusione dei contagi quanto di garantire assistenza sanitaria ai malati, covid e non covid, i governi hanno scelto la strada della colpevolizzazione dei cittadini. Chi praticava sport, chi portava a spasso il cane, chi violava il “lockdown”, chi faceva aperitivi è stato incolpato di tutti i mali della società, della morte di decine di migliaia di persone, in un rassicurante processo di rimozione delle colpe sistemiche, come se fosse stato qualche “runner” a privare la sanità di decine di migliaia di posti letto! Ciò non deve stupire: appartiene in realtà pienamente all’orizzonte ideologico neoliberale, che proprio nell’iper-responsabilizzazione dell’individuo e nel dissolvimento del contesto statale e sociale costruisce il proprio nucleo. In un approccio individualista finalizzato all’espulsione dal campo del politico delle masse popolari, il sistema neoliberale propugna la visione secondo la quale sia il comportamento del singolo, inteso in senso astratto come unico soggetto. Il singolo, chiamato a dover tutelare una salute che, contraddittoriamente, si definisce “pubblica”, si fa carico di una responsabilità “di tutti”: lo Stato, le istituzioni politiche, si ritirano nell’invisibilità. Non si tratta di garantire tramite l’azione politica, quindi collettiva, un adeguato livello di preparazione e di risposta, ma unicamente di seguire regole di comportamento individuale, con non poca dose di scaramanzia e di culto per l’autorità. Ma non solo: di fondo vi è un altro elemento cardine dell’ideologia neoliberale, quello connesso alla scarsità delle risorse e all’impossibilità di una diversa configurazione della loro distribuzione. Davanti al problema sanitario rappresentato dal sovraffollamento dei mezzi pubblici la soluzione non è stata aumentare il numero di questi, ma limitare gli ingressi. Davanti all’insufficienza materiale delle strutture sanitarie la risposta è stata limitare le cure “non-covid”, abbandonando a sé stessi i malati, con migliaia e migliaia di morti per patologie non curate. E’ anche importante evidenziare come il numero delle vittime della pandemia non possa che essere stato accresciuto poi dalla folle politica della “tachipirina e vigile attesa” difesa con estrema forza ancor oggi dal ministro Speranza, misteriosamente sopravvissuto nella sua posizione al cambio dell’esecutivo. E come non ricordarsi del divieto assoluto di praticare autopsie sulle vittime, cosa che avrebbe potuto accelerare non di poco lo sviluppo di protocolli di cura. Altro che “runner” e aperitivi! Come già accaduto per la crisi ambientale e quella del “debito pubblico”, responsabilità sistemiche vengono attribuite ai cittadini, ai quali è preclusa l’azione politica a favore di un’affermazione etica individuale, incapace di rimuovere gli ostacoli alla risoluzione del problema o di evidenziare le cause reali di questo. Lo Stato viene al contempo deresponsabilizzato, con la colpa della catastrofe sanitaria scaricata sui cittadini, e riaffermato nel suo ruolo di “guardiano notturno”, in cui il pensiero liberista lo vuole limitare. Le istituzioni che si sono dimostrate assenti nel contesto socio-sanitario ritornano in tutta la loro potenza tramite pattugliamenti, coprifuochi, autocertificazioni, divieti, droni e sanzioni. Apice di questo tendenza si ebbe con l’introduzione del “Green Pass”, che permetteva al contempo di avere sempre un comodo capro espiatorio su cui scaricare le colpe e verso il quale attirare la rabbia di una popolazione sempre più stanca e provata, e di fungere da elemento catalizzante in svariati processi d’ordine sociale, economico e geopolitico.

Il “Green Pass” oltre il Covid 

Vedere la certificazione verde e le altre misure emergenziali unicamente alla luce del contesto pandemico sottrae a queste la loro vera valenza politica. In realtà, al di là della patina “sanitaria”, si ha un complesso intreccio in processi che attraversano da decenni il nostro emisfero se non tutto il mondo, da quelli connessi alla precarizzazione del lavoro alla digitalizzazione, dalla militarizzazione della società all’esigenza di abituare a certe pratiche di razionamento e restrizione. La “didattica a distanza” e lo “smart working” non sono entrati certo nelle agende politiche con la pandemia. Anzi, le autorità europee da anni parlano con insistenza di digitalizzazione e di integrazione all’interno degli ordinamenti scolastici di elementi digitali quali libri elettronici e lezioni via internet. Lo stesso si può dire sia avvenuto nel mondo del lavoro, dove l’esigenza di ridurre i costi del lavoro e connessi ad esso (illuminazione, riscaldamento, infortuni) si è collegato alla necessità di applicare la concezione gestionale “just in time” finanche ai singoli lavoratori, arrivando al completo abbattimento della barriere fra vita personale e vita lavorativa e all’affermazione del criterio di piena reperibilità insito nel telelavoro. Tali processi non rientrano in piani maliziosi o in una predisposizione morale del sistema economico italiano, ma in una generale tendenza dell’economia mondiale che necessariamente punta alla massimizzazione dei margini del profitto anche attraverso la razionalizzazione della produzione e alla diminuzione dei costi. La causa dell’impatto particolarmente nocivo che queste politiche hanno avuto nella nostra parte del mondo va da ricercare poi non tanto nelle caratteristiche tecniche del fenomeno in sé, ma nel contesto della sua applicazione: la razionalizzazione del lavoro è avvenuta non già in favore della produzione e degli interessi del lavoratore, ma in favore dei possidenti e dei loro margini di profitto. Il Green Pass, come affermato da Colao, si pone come punto di partenza per quello che chiama “wallet” europeo, ossia l’unione virtuale di documenti comunitari e nazionali sanitari, fiscali e identificativi con mezzi di pagamento elettronici. Anche qui però non ci troviamo davanti ad una novità pandemica: già da diverso tempo, per esempio, i tesserini universitari, così come le carte d’identità, sono stati digitalizzati, e uniti spesso anche a carte prepagate. E’ chiaro quindi come ancora una volta il contesto pandemico abbia rappresentato il terreno ideale per catalizzare determinati processi, fornendo sia spunti per graduali applicazioni pratiche di nuove tecniche e tecnologie, sia situazioni per le quali la loro introduzione possa venire percepita come meno traumatica, in qualche modo giustificata. A priori della sua funzione coercitiva nell’ambito della campagna vaccinale, il Green Pass ha rappresentato soprattutto un mezzo attraverso il quale portare avanti le spinte alla digitalizzazione già insite nella nostra società, rese necessarie tanto dalle esigenze economiche (maggiore razionalizzazione della produzione, minori costi, maggiori possibilità d’accumulo di dati e incrementazione della funzionalità dei servizi), quanto di controllo (tracciabilità, sorveglianza, regolamentazione dell’accesso a prodotti e servizi, finanche all’esercizio di diritti politici e sindacali). Infine non si può non ricordare come la fase di chiusura della nostra economia, che, come ricorda il rapporto Istat “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” (https://www.istat.it/it/files/2020/06/Imprese-durante-Covid-19.pdf) ha riguardato in particolare le piccole imprese, lasciando pressoché intonse quelle collegate ai grandi circuiti confindustriali, possa essere letta come una grande campagna condotta dal grande capitale con l’obbiettivo di assorbire il piccolo capitale e di aprire alla sua azione ampi spazi di mercato, secondo il principio della “distruzione creativa” già espresso a suo tempo da Mario Monti. A questo va collegata la campagna d’aggressione condotta dalle stesse forze contro i diritti dei lavoratori non solo con la contrazione dei diritti di sciopero e la sottomissione del diritto al lavoro al "lasciapassare" governativo, ma anche con la grande campagna di licenziamenti e precarizzazione che la stagione pandemica ha portato. Il grande capitale ha visto il biennio 2020-2021 come una ghiotta occasione per moltiplicare le proprie dimensioni e il proprio potere politico. L’accumulazione del capitale non è dimostrata unicamente dal vertiginoso incremento dei patrimoni dei più ricchi unito all’impoverimento generale della popolazione, ma anche dal sempre maggiore controllo che i gruppi economici dominanti riescono avere a livello politico. Vi è poi un ulteriore livello di lettura degli strumenti di gestione pandemica: quello legato al contingentamento delle risorse e al disciplinamento. L’introduzione di misure come la chiusura delle attività, il coprifuoco e la contingentazione degli ingressi nelle strutture, più che a motivi sanitari rispondeva a ragioni di ordine pubblico e di costruzione di una vera e propria “esercitazione”. Ora, a due anni di distanza e alle porte di una devastante crisi economica ed energetica, possiamo vedere come le medesime parole d’ordine, spogliate delle vesti pandemiche, vengano riproposte: la chiusura delle attività “non necessarie”, razionamenti energetici, e interruzione di esercizi notturni e dell’illuminazione cittadina (primo passo verso il coprifuoco) rappresentano la riproposizione di schemi consolidati, all’imposizione dei quali le forze dell’ordine e l’esercito sono ormai addestrati e dotati di esperienza. A far da sfondo non può che esserci il conflitto mondiale che contrappone il blocco occidentale composto da Stati Uniti, Unione Europea (anche se a diversi gradi) e i più stretti paesi satellite, alle forze del “mondo multipolare”, con in testa la Federazione Russa e la Repubblica Popolare cinese, e comprendenti, fra gli altri, paesi come l’Iran, il Venezuela e Cuba, con il crescente supporto di colossi come India, Indonesia e Brasile. E’ appunto alla luce di questa crescente conflittualità, che ha segnato prepotentemente l’ultimo decennio, che vanno letti i fenomeni attuali. La preparazione ad uno stato di guerra, “tradizionale” o asimmetrico, ha condizionato anche la gestione sociale della pandemia. 

Politica vaccinale dello Stato italiano 

Dalla primavera del 2021 l’attenzione delle politiche pandemiche si è spostata progressivamente sempre più sull’ambito vaccinale, fino al punto di una sovrapposizione quasi esatta. E’ stata diffusa da ambienti governativi, non senza però senza superficiali riproposizioni da parte della galassia “dissidente”, che in Italia si sarebbe verificato niente di diverso da quello che era in corso in tutto il mondo. Questo in realtà non corrisponde in realtà. Sebbene in molti paesi siano state introdotte forme di “incentivo”, coercitivo o meno, alla vaccinazione, questa ha visto una natura ben diversa a seconda del paese preso in considerazione. La campagna vaccinale si è fondata nel nostro paese come negli USA e in gran parte dell’Ue unicamente sui sieri forniti dalle multinazionali occidentali come Pfizer, Moderna e Astrazeneca, spesso fondati sulla tecnologia mRNA, oggetto da anni di studi ma mai applicata nel campo vaccinale su larga scala, con un fermo rifiuto all’apertura a qualsiasi farmaco estero. E’ infatti interessante notare come i vaccini più diffusi al mondo, dal russo Sputnik V ai cinesi Sinopharm e Coronavac, passando per l’indiano Covaxin e il cubano Soberana, siano fondati su vettori adenovirali o sul virus inattivato, con i farmaci mRNA Pfizer e Moderna diffusi quasi esclusivamente ai paesi occidentali, e tenuti ermeticamente al di fuori di Stati quali l’Iran, la RPC, la Russia e il Venezuela. Questo mentre la totalità dei vaccini extra-europei non veniva riconosciuta in Occidente: non solo gli Stati sono stati obbligati a rivolgersi unicamente alle case farmaceutiche euro-americane, ma i cittadini stranieri non sono stati riconosciuti come “vaccinati” sul territorio occidentale, con non pochi problemi per turisti, studenti e lavoratori. Eclatante è il caso di San Marino, che, concluso l’accordo con la Federazione Russa per la fornitura dello Sputnik, vide i propri cittadini vaccinati non riconosciuti come tali dallo Stato italiano! In un contesto di smantellamento del sistema sanitario pubblico e dell’industria farmaceutica di Stato, l’imposizione coatta dell’acquisto di farmaci risponde al crescente potere che anche il capitalismo di “Big Pharma” riesce ad esercitare anche tramite la pressione politica delle istituzioni ad esso collegate. Un potere immenso che è riuscito ad imporre agli Stati contratti secretati, i cui testi sono custoditi gelosamente. E’ lecito pensare che oltre a tutele legali di ogni tipo per eventuali effetti avversi questi celino accordi commerciali di lunga durata, che costringono gli Stati all’acquisto ai prezzi vertiginosi proposti di numerose “tranche” di dosi, a prescindere dall’andamento pandemico o della risposta della popolazione. Le multinazionali del farmaco, sfruttando la leva data dal contesto pandemico, hanno così ottenuto non solo profitti strabilianti, testimoniati dalle reazioni entusiaste della borsa ad ogni recrudescenza della malattia, ma anche l’accesso ad una sperimentazione di massa “sul campo” che può fornire dati commerciali e sanitari utilissimi ai loro progetti, ovviamente a discapito dei cittadini e senza il minimo riguardo per la loro salute. Non è infatti un caso come rispetto ai vaccini extra-europei “tradizionali” quelli ad mRNA della Pfizer e di Moderna presentino percentuali di affetti avversi ben più alte, con un numero di effetti collaterali possibilmente collegabili che si attesta a quote superiori al milione, con diverse migliaia di morti che possono facilmente avere una correlazione con la vaccinazione. Questi dati sono comunque da contestualizzare in un clima di forte repressione della denuncia degli effetti avversi, di una loro minimizzazione, se non negazione, per mezzo mediatico e di una raccolta dati puramente passiva. Stretta fra gli interessi delle multinazionali del farmaco e una vera e propria lotta geopolitica portata in seno alla campagna vaccinale, l’Italia ancora una volta ha visto la sovranità popolare violata dall’imposizione di pratiche sanitarie dalla dubbia efficacia e da un comprovato rischio relativo. Ma non è solo il cinismo di “Big Pharma” a dover essere messo alla berlina: è la totale negazione di ogni indipendenza nazionale la vera causa della scellerata gestione pandemica. Paesi sovrani dalle capacità tecniche anche inferiori all’Italia, come l’Iran e Cuba, sono stati in grado di autodeterminare anche la propria politica sanitaria e vaccinale, producendo con la loro industria pubblica vaccini “tradizionali” che non hanno visto la stessa politica d’imposizione che abbiamo visto noi in Italia e in Occidente probabilmente per onorare gli accordi segreti con le multinazionali del farmaco, a discapito della libertà di scelta terapeutica e della salute dei cittadini. 

“Nuova normalità” e ristrutturazione politica

A segnare ancora una volta l’unicità della gestione pandemica occidentale vi è il concetto di “New Normal”, declinato dalle istituzioni italiane come “Nuova Normalità”. Questa locuzione, partendo dall’ovvia considerazione che ogni accadimento storico porti dell modificazioni strutturali spesso irreversibili al mondo, vuole significare lo sfruttamento della crisi globale pandemica come occasione per attuare una ristrutturazione politica, sociale ed economica del nostro sistema, per andare a codificare quelle modificazione che, iniziate non certo con la pandemia, da questa sono state resi più palesi o più rapide nella loro applicazione. La “Nuova Normalità” va quindi a significare il tramonto del parlamentarismo a favore dello strapotere degli esecutivi, l’affermazione definitiva del metodo di governo tecnocratico, la sottomissione delle informazioni al vaglio dei cosiddetti “fact-checker” di regime, l’imposizione della digitalizzazione come strumento di precarizzazione del lavoro e di lotta contro le classi meno abbienti, la progressiva chiusura dell’orizzonte del dibattito e delle opzioni politiche (a coronamento del thatcheriano “There is no alternative”) e la generale irreggimentazione della società posta come condizione necessaria alla sopravvivenza della stessa. E’ inutile dire che basterebbe fare poche centinaia di chilometri verso Est o Sud per rendersi conto che questa prospettiva, data per ovvia e scontata nel nostro mondo e ripresa sia da Confindustria che dai Presidenti del Consiglio, sia completamente sconosciuta, quando non direttamente contestata. Per la stragrande maggioranza dell’umanità e degli Stati la pandemia, al netto di contraddizioni, malversazioni e crisi, ha rappresentato veramente un ostacolo sulla via dello sviluppo, e non già l’opportunità di “reset” decantata dai governi occidentali. Le motivazioni di questo vanno ricercate nella generale crisi sistemica che il nostro mondo attraversa, con la crescita della tensione sociale da un lato, quella della forza degli avversari internazionali dall’altro e la progressiva incapacità di portare sia al miglioramento delle condizioni di vita al suo interno, sia a quella delle capacità di reggere la competizione militare, economica e tecnologica. Davanti alle prospettive di un collasso sempre più imminente e di uno scontro sempre più certo, il sistema in cui viviamo ha preso l’unica strada per esso possibile: si è chiuso su se stesso. La “società aperta”, portata al suo estremo storico, ha generato un qualcosa di fortemente autoritario, autoreferenziale, chiuso e ostile al mondo, in perenne stato di guerra e che, come tutti gli imperi, si vede costantemente sotto minaccia. L’utilizzo strumentale delle emergenzialità, dal terrorismo al covid passando per l’immigrazione, si inserisce perfettamente in questo disegno. 

Quali prospettive?

Da questa analisi risulta chiaro come la pandemia e le politiche pandemiche non debbano essere viste “in sé e per sé”, ma analizzate in un’ottica politica globale. Ciò è la condizione necessaria per evitare semplificazioni erronee che chiamano in causa disegni diabolici, complotti genocidi o altre ipotesi tanto sistemiche quanto sterili. Da qui ne risulta che la contestazione delle politiche pandemiche deve naturalmente procedere verso una più generale contestazione del sistema neoliberista, imperialista e unipolare, per la rivendicazione della piena indipendenza nazionale, della supremazia della sovranità democratica dei popoli e per la costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso che renda i nocivi antagonismi internazionale un qualcosa del passato, soprattutto alla luce del dispiegarsi di una crisi economica e sociale senza precedenti nella Storia recente, che unisce la minaccia della povertà a quella della distruzione bellica.

Unicamente comprendendo il dato politico della gestione pandemica chi si è mobilitato spinto dalle contraddizioni di questa può vedere la propria lotta guadagnare un senso integrale e raggiungere i propri obbiettivi.


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