Una metafisica come sapere del profondo

Una metafisica come sapere del profondo

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Quella di Henri Bergson (1859 – 1941) è una filosofia in difesa della soggettività, volta a ridare dignità all’esperienza singolare della realtà, in un mondo dove l’esperienza è costantemente esteriorizzata, “in terza persona”, relativistica e, proprio per questo, facilmente esprimibile.

Il pensiero bergsoniano consiste così a tutti gli effetti in una denuncia verso i rischi generati dall’adozione di una prospettiva metodologica ristretta, soprattutto nell’ambito della conoscenza, la quale, se limitata ad un sapere verificabile, ripetibile e sperimentabile, diventa incapace di comprendere veramente l’uomo.

Questa sintesi ha però contribuito alla formazione del falso mito che vede Bergson come “nemico della scienza”, quindi antipositivista, irrazionalista e idealista. Il filosofo francese, invece, è sì intenzionato a proporre una metafisica come sapere del profondo, intesa come conoscenza disinteressata in grado di cogliere ciò che ogni cosa, ogni realtà è in se stessa; ma comunque non vuole rinunciare alla fedeltà verso i fatti e alla vocazione della filosofia del concreto.

Premesso ciò, per comprendere al meglio il “metodo bergsoniano”, in questo articolo faremo riferimento in particolare alla sua opera “Introduzione alla metafisica” – scritta nel 1902 e pubblicata l’anno successivo sulla prestigiosa “Revue de métaphysique et de morale” –, con anche alcune incursioni nelle opere “Pensiero e movimento” del 1938, “Saggio sui dati immediati della coscienza” del 1889 e “L’evoluzione creatrice” del 1907.

Bergson definisce e approfondisce il suo significato di metafisica facendone un contraltare rispetto alla scienza, legata all’intelligenza e l’analisi. Soffermiamoci per prima cosa su quest’ultimo aspetto.

La scienza, sull’onda della sensibilità positivista, aveva privilegiato una visione del reale del tutto incentrata sui rapporti quantitativi tra fenomeni, capendo come, una conoscenza così strutturata, fosse efficacemente finalizzabile all’azione e, quindi, alla manipolazione della realtà. Si prenda il tempo: quando la scienza studia il tempo – scrive Bergson – lo spazializza (proietta il tempo nello spazio, ex. l’orologio con le sue lancette), ovvero lo rende misurabile, lo divide in un certo numero di intervalli tutti uguali (le cosiddette unità di tempo) rendendo possibile la calcolabilità matematica attraverso i relativi multipli e sottomultipli. Infatti, per poter misurare e contare le unità di tempo che passano, è necessario operare col pensiero un’astrazione dalla loro individualità qualitativa e trattarle tutte come identiche. Cosi la conoscenza scientifica si delinea come:

  • ripetibile, perché ogni unità è qualitativamente identica all’altra e quindi priva di specificità e unicità;
  • reversibile, poiché, tornando indietro nella serie temporale, non si incontra una realtà passata qualitativamente diversa da quella presente, ma si ripete semplicemente l’enumerazione di unità spaziali identiche e omogenee tra loro.

Per rendere ancora più immediata la comprensione della sua riflessione, il filosofo francese utilizza una precisa immagine: quella della collana di perle. Così come la collana è composta da tante perle una di fianco all’altra, uniformi, sferiche, distinte ma al tempo stesso uguali, il “tempo spazializzato” della scienza si compone di tanti momenti della medesima grandezza che si susseguono l’uno con l’altro, ognuno perfetto in se stesso e simile a quello successivo. Questo modo di conoscere proprio della scienza si fonda sull’analisi, che scomponendo l’oggetto analizzato, tende a svilupparsi mediante simboli. In altre parole, si riporta tutto a elementi conosciuti, comuni a quell’oggetto e ad altri:

L’analisi è l’operazione che riduce l’oggetto a elementi già conosciuti, cioè comuni a questo oggetto e ad altri oggetti. Analizzare consiste allora nell’esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è. Ogni analisi è così una traduzione, un’elaborazione in simboli, una rappresentazione prodotta da punti di vista successivi , dai quali si annotano i punti di contatto tra l’oggetto nuovo, che si studia, e gli altri oggetti, quelli che si pensa di conoscere già. Nel suo desiderio eternamente inappagato d’abbracciare l’oggetto attorno al quale è condannata a girare, l’analisi moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta; essa cambia senza posa i simboli per completare una traduzione sempre imperfetta. E così va avanti all’infinito.” 1

In questo passo dalla chiarezza disarmante, Bergson illustra ottimamente il procedere dell’analisi, la quale offre solo la conoscenza relativa a un punto di vista. Entrando più nello specifico, il filosofo francese parla di “percorso dell’intelligenza”, il quale va dal concetto alla cosa: infatti, se ogni analisi non è che una traduzione dell’oggetto in simboli/concetti, allora va rappresentando un lavoro interessato, cioè un’attività conoscitiva fatta in vista di un vantaggio e di un interesse da soddisfare. L’attività non è dunque rivolta alla vera e propria conoscenza delle cose, ma al loro uso.

Si giunge dunque alla cosa attraverso la generalizzazione delle sue proprietà, che sono costantemente messe in relazione con altri oggetti (quelli che si pensa già di conoscere). I simboli si sostituiscono all’oggetto, rinviando ad un concetto generale e astratto, togliendo ogni possibile spazio per l’individualità e l’unicità. Bergson in questo modo coglie la principale funzione dell’intelligenza: il rappresentare stati e cose. Il percorso analitico scatta delle istantanee sulla mobilità indivisa del reale e ottiene, rimpiazzando alla mobilità la stabilità, al continuo il discontinuo, sensazioni e idee; tale percorso concepisce il movimento unicamente in funzione dell’immobilità, quest’ultima incarnata da concetti rigidi, “prefabbricati“, che invano si sforzano di afferrare la realtà in divenire.

Tuttavia, a questo procedere scientifico che riduce la realtà alla sola dimensione quantitativa, ponendosi nei suoi confronti unicamente in termini di utilità, Bergson oppone una conoscenza disinteressata, totalmente diversa da quella tecnica, che non assume nessun punto di vista e non poggia su alcun simbolo; una conoscenza, cioè, in grado di entrare nella cosa, nella realtà, cogliendo ciò che ogni cosa, ogni realtà, è in se stessa: la metafisica.

Questa riflessione nasce sempre in seno al concetto di tempo: Bergson critica la visione “in terza persona” dell’esperienza, conscio che nell’uomo venga meno la capacità di analizzare gli avvenimenti all’esterno rispetto alla coscienza. Provo ora a spiegarmi meglio, e per farlo riporto un famoso estratto, presente in “Pensiero e movimento”, opera in cui il pensatore francese, nel 1938, alla fine del suo itinerario filosofico, fa il punto critico del proprio pensiero:

“Provate in effetti a rappresentarvi oggi l’azione che compirete domani. Anche se sapete già quello che farete, la vostra immaginazione evoca forse il movimento da eseguire, ma di ciò che penserete e ciò che proverete eseguendolo, non potete sapere niente oggi, perché il vostro stato d’animo comprenderà domani tutta la vita che avrete vissuto fino a quel momento, con in più ciò che vi aggiungerà il momento particolare. Per riempire in anticipo questo stato del contenuto che deve avere, avrete bisogno giusto del tempo che separa oggi da domani, poiché non sapreste diminuire di un solo istante la vita psicologica, senza modificarne anche il contenuto. Potete voi, senza snaturarla, abbreviare la durata di una melodia? La vita interiore è questa stessa melodia, dunque, supponendo che voi sappiate ciò che farete domani, non prevederete della vostra azione, che la sua configurazione esteriore; ogni sforzo per immaginarne in anticipo la configurazione interna, occuperà una durata che, di prolungamento in prolungamento, vi condurrà fino al momento in cui l’atto si compie e in cui non ha più senso pensare di prevederlo. Che significherà allora un tale prevedere se l’azione nel momento in cui si compie è veramente libera, vale a dire creata interamente nel suo disegno esteriore, così come nella sua colorazione interna?”

Analizziamo bene questo passo.

  • Potete voi, senza snaturarla, abbreviare la durata di una melodia? La vita interiore è questa stessa melodia”.

Questa è ovviamente una domanda retorica e spiega, con l’immagine della melodia, le caratteristiche proprie del tempo vero, quello “della vita”. In una melodia musicale le note non si succedono l’una all’altra come se fossero una lunga catena di suoni separati, ma al contrario ogni singola nota, inserita nell’armonia melodica prodotta dalla loro successione, acquisisce una tonalità emotiva unica e diversa dalle altre; non possono essere interscambiabili. Ecco, “la vita interiore è questa stessa melodia”: il tempo della vita non corrisponde al tempo che viene misurato attraverso parti separate, attraverso simboli; esso è un flusso continuo nel quale ogni istante successivo è ricco di tutti gli istanti precedenti.

  • “Anche se sapete già quello che farete, la vostra immaginazione evoca forse il movimento da eseguire, ma di ciò che penserete e ciò che proverete eseguendolo, non potete sapere niente oggi, perché il vostro stato d’animo comprenderà domani tutta la vita che avrete vissuto fino a quel momento, con in più ciò che vi aggiungerà il momento particolare.”

L’uomo, in virtù delle sue esperienze passate, può certo immaginarsi il suo stato d’animo, il movimento e il contesto che tra 24 ore vivrà compiendo quella precisa azione. Tuttavia questo, per il filosofo francese, significa astrattamente estrapolare il momento futuro e ipotetico da una concezione di tempo spazializzato, scientifico, che per sua natura permette di estrarre momenti dal passato (ricordi) e, come da esempio, dal futuro (ipotesi). L’uomo, attraverso il percorso dell’intelligenza, cerca quindi di ricostruire la vita in modo aporetico componendo una serie di immobilità, non rendendosi conto di lasciare per strada tutti quegli istanti o, meglio, tutta la durata che trascorre tra l’immaginarsi l’azione e lo svolgersi effettivo del movimento.

  • “Ogni sforzo per immaginarne in anticipo la configurazione interna, occuperà una durata che, di prolungamento in prolungamento, vi condurrà fino al momento in cui l’atto si compie e in cui non ha più senso pensare di prevederlo.”

Come visto dinanzi, il tempo della vita è qualcosa di concreto e di interiore, costituito da momenti non definiti che si compenetrano, si accavallano e si sommano tra di loro alla maniera di una melodia. Il tempo della vita si identifica, perciò, con il concetto di durata: ovvero il cumolo di esperienze, informazioni, stati d’animo, avvenimenti, azioni compiute e incontri che io farò nel lasso di tempo che mi divide dall’azione ipotizzata. Questa durata andrà ad influire nelle modalità di svolgimento dell’azione o nella sua mancata attuazione. Dunque l’uomo, nel procedere della vita, fatta di esperienze e scelte, non può pensare scientificamente di poter “tornare indietro” o “proiettarsi in avanti”: egli non può sbarazzarsi del suo “io che dura”. Va da sé che il tempo della vita, a differenza di quello della scienza, è irreversibile, ovvero composto da momenti irripetibili, qualitativamente diversi, che possono essere solo ri-creati ma non ri-vissuti. L’uomo per Bergson è sempre da un lato conservazione, relativamente al portarsi dietro tutto quello che è stato, e dall’altro creazione, a proposito della possibilità di scegliere, cambiare (il passato non condiziona in maniera deterministica), che implica sempre l’insorgere di qualcosa di nuovo e di imprevedibile. Un’immagine fortemente evocativa ed esemplificativa è quella della valanga, la quale nasce nel momento in cui si stacca della neve che, rotolando, comincia ad accumularne di nuova, senza che quella presente in origine venga persa.

Dunque, come abbiamo visto, il procedere della scienza tende a suddividere, a pensare, in una prospettiva profondamente utilitaristica, che la conoscenza sia la somma di piccole componenti uguali, giustapponibili e facilmente calcolabili. Al contrario, ogni vissuto della coscienza non si manifesta attraverso le categorie dell’intelletto “spazializzante”, bensì come flusso continuo, totalità, durata. Bergson nel “Saggio sui dati immediati della coscienza” scrive:

nel nostro io c’è successione senza esteriorità reciproca, fuori dell’io esteriorità reciproca senza successione”.

Nel tempo della durata ci sono degli stati mentali che durano e non si distinguono. Per esempio, nel compiere un’azione o nel vivere momenti emotivamente densi, si fa esperienza di un susseguirsi di numerosi stati mentali, legati all’azione compiuta, al contesto, a chi si ha di fronte, al pensiero dell’azione futura, al ricordo di un’azione passata, alle proprie preoccupazioni, alle proprie speranze e così via. Ognuno di questi elementi, nell’esperienza soggettiva, fa parte di una continuità e non viene messo in successione. Tutto diventa un’unica cosa: la nostra durata.

In altri termini, all‘omogeneità intrinseca, alla struttura dello spazio si oppone l’eterogeneità pura della durata: una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, che si compenetrano senza contorni precisi.

La metafisica bergsoniana è proprio quella conoscenza che ha come oggetto la durata, “il nostro io che dura“, e non l’io superficiale, schematizzato ed esteriorizzato, in cui gli stati mentali vengono distinti quantitativamente, simbolizzati come elementi spaziali e giustapposti l’uno all’altro. La metafisica è in grado di cogliere ciò che ogni cosa, ogni realtà, è in se stessa e la sua è una conoscenza che attinge l’assoluto, che coglie la realtà nella sua perfezione e come realtà infinita.

Per essere più chiari, vediamo di fare il punto.

  • L’assoluto non rimanda a riferimenti divini, ma sta unicamente a significare che la metafisica non è un sapere che gira intorno alla cosa, bensì la coglie dall’interno. Così facendo, ne possiede un assoluto, ovvero ciò che dal punto di vista conoscitivo non è relativo ad altro.
  • Assoluto è sinonimo di perfezione, nel senso che è perfettamente ciò che è. Bergson prende ad esempio un personaggio di un romanzo: il romanziere potrà moltiplicare i tratti del suo carattere, far parlare e agire il suo eroe a suo piacimento, ma questo non eguaglierà il semplice e indivisibile sentimento che – scrive Bergson – “proverei se, per un istante, coincidessi con il personaggio medesimo”. A quel punto gesti, azioni, discorsi cesserebbero d’essere accidenti che mano a mano si aggiungono ad un’idea (condannata ad essere incompleta) del personaggio; bensì il personaggio “mi sarebbe offerto tutto d’un colpo nella sua integralità e le mille sfaccettature che lo rappresentano, invece d’aggiungersi all’idea e arricchirla, mi sembrerebbero al contrario staccarsi da essa, senza tuttavia renderla sterile o impoverirne l’essenza”. Pertanto, mentre ogni altra rappresentazione non è che il prodotto di un punto di vista e di una traduzione – e per questo è sempre imperfetta – quella metafisica è perfetta in quanto coglie il senso interiore dell’originale.
  • Assoluto è anche infinito, poiché la conoscenza metafisica è interesse verso qualcosa di semplice e indivisibile, ma anche oggetto di un numero infinito di tentativi di esaurire la cosa vista dall’esterno. Citando Bergson, un assoluto dal di dentro è una cosa semplice, ma esaminato dal di fuori – ovvero relativamente a inesauribili punti di vista – diventa “la moneta d’oro di cui non si sarà mai finito di dare il resto”.

Ne consegue che un assoluto non può essere dato che per intuizione. L’intuizione è, a conti fatti, la facoltà che rende possibile la conoscenza metafisica. Essa conosce ciò che una cosa propriamente è, la sua essenza, ciò che è interiore. Non usa icone, al contrario, per sussistere esige l’assenza di simboli, concetti, mediazioni e traduzioni.

“Si chiama intuizione questo spazio di simpatia con la quale ci si trasporta all’interno di un oggetto in modo da coincidere con quel che esso ha di unico e, quindi, d’inesprimibile […] Allora la metafisica è la scienza che pretende di fare a meno dei simboli.”

Se, dunque, la metafisica pretende di fare a meno dei simboli, sarà impossibile passare dal concetto alla cosa per conoscerla in se stessa; diversamente, sarà fattibile compiere il percorso inverso: dalla cosa afferrata per intuizione ricavare i concetti della realtà. Questo implica uno sforzo: rompere o, come vedremo a breve, rovesciare il modo consueto e ordinario di considerare ogni cosa secondo punti di vista e mediante simboli (analisi) e aprire a un’altra prospettiva: quella dell’intuizione. Infatti, agli occhi del filosofo francese, la scienza non risulta affatto confinata al solo ambito pratico operativo, ma, anzi, anch’essa bagna nell’assoluto proprio come l’intuizione, anch’essa è nella verità, tant’è che il suo errore è fecondo. La trascrizione simbolica della cosa non inquina, rovescia il senso semmai. Il semplice a cui aspira Bergson va necessariamente a complicarsi in una costellazione di simboli e concetti, che del semplice ne sono il rovescio.

Pertanto, il “certains travail” del filosofo consiste nell’adottare comportamenti diversi, superando il pragmatismo e le abitudini mentali più utili alla vita, che ostacolano il lavoro dell’intuizione:

Filosofare consisterà nel porsi nell’oggetto medesimo con uno sforzo d’intuizione.”

E qual è l’oggetto privilegiato di questa intuizione? Ovviamente è l’io di ciascuno di noi, che procede nel tempo:

“Vi è almeno una realtà che cogliamo completamente dal di dentro, per intuizione e non con la semplice analisi. Essa è la nostra stessa persona nel suo scorrere attraverso il tempo, il nostro io che dura.”

Al di là del tempo spazializzato, come abbiamo visto, c’è il tempo della durata, cioè quel flusso di stati interiori che, se passasse attraverso uno spettro dalle mille sfumature (ennesima immagine bergsoniana) “tingendosi ogni volta di ognuna delle sue sfumature, mostrerebbe i cambiamenti graduali, ciascuno dei quali annuncerebbe il seguente e ricapitolerebbe in sé quelli che lo precedono.”

Il lettore più attento, nell’osservare il variegato utilizzo di immagini e metafore da parte di Bergson, potrebbe essere giunto ad un più che lecito quesito: esse non sono pur sempre traduzioni? La risposta è meno scontata di quello che può sembrare. Infatti, il filosofo è da un lato consapevole dell’impossibilità di definire la durata, poiché non vi è metafora che tenga, ogni definizione tenderà a sacrificare un aspetto a danno di altri; a questo, poi, si aggiunge il fatto che i concetti – incapaci di cogliere l’unicità e irripetibilità della realtà e antitetici al flusso continuo della durata – sono necessari per qualsiasi definizione, visto che tutte le altre scienze gli utilizzano. Tuttavia, dall’ altro lato, a questa impossibilità di ricostruire la realtà vivente attraverso concetti rigidi non segue l’incapacità di coglierla in qualche altra maniera.

Infatti, Bergson ha sì palesato come le dimostrazioni che sono state fornite rispetto alla relatività della conoscenza siano invalidate da un vizio originario (il supporre che ogni conoscenza parta necessariamente da concetti con contorni fissi, attraverso i quali afferrare la realtà che scorre), ma è anche portavoce della convinzione che vede il nostro spirito in grado di percorrere il cammino inverso mediante l’intuizione. Per questo, a detta sua, urge rifondare le categorie del pensiero, ormai radicate nell’analisi; urge liberarsi dai concetti rigidi e oltrepassarli creandone di diversi, tanto diversi da poterli solo a stento definire tali. Questi concetti devono essere fluidi, “su misura”, agili, mobili, sempre pronti a modellarsi sulle forme fuggevoli dell’intuizione, capaci quindi di seguire la realtà in tutte le sue pieghe e di adottare il movimento stesso della vita interna delle cose.

In conclusione, l’intuizione procede nel senso stesso della vita, tuttavia nel nostro vivere è quasi completamente sacrificata all’intelligenza e all’analisi. Infatti, agli occhi di Bergson, pare che le migliori energie della coscienza siano andate tutte esaurite nello sforzo di conquistare la materia, sforzo che passa da un’adattamento alle abitudini della materia stessa (ragionamento strumentale e utilitaristico). A dispetto di ciò, l’intuizione non sparisce, bensì, seppure vaga e discontinua, rimane, tant’è che il pensatore francese ne “L’evoluzione creatrice” scrive:

(L’intuizione) è una lampada quasi spenta, che solo di tanto in tanto si riaccende, appena per qualche istante. Essa si ravviva, in sostanza, là dove è in gioco un interesse vitale. Sulla nostra personalità, sulla nostra libertà, sul posto che occupiamo nell’insieme della natura, sulla nostra origine e forse anche sul nostro destino, essa proietta una luce debole e vacillante, ma che tuttavia riesce a rompere l’oscurità della notte in cui ci lascia l’intelligenza. Di queste intuizioni fuggevoli, capaci di illuminare il loro oggetto solo a lunghi intervalli, la filosofia deve impadronirsi, prima per conservarle in vita, e poi per ampliarle e accordarle tra loro.”

Tuttavia, la cosa sarà mai dicibile come tale? La sua trascendenza pare essere di principio e Bergson ne è consapevole. La sua grandezza, però, sta proprio nel non proiettarla lì in alto, inarrivabile, nel noumeno, ma rendendola infinitamente comunicabile. Per questo la metafisica, quale scienza, deve essere un’impresa collettiva, fatta di errori, rettifiche e, sopra ogni cosa, di immagini, le quali sono, come scrive Rocco Ronchi, “un modo di inerire al vero, la durata, mancandolo ed esprimendolo al tempo stesso” 2.

Il filosofo è perfettamente consapevole – e qui ci ricolleghiamo a quando detto poche righe sopra – di come il semplice dell’assoluto vada a complicarsi in un insieme di segni, i quali non sono altro che il ribaltamento di tale semplicità. Ergo, pone le immagini come ciò che, meglio di ogni altra cosa, riesce ad esprimere il reale pur mancandolo; reale che, all’interno di questo rapporto d’implicazione, – sempre citando Ronchi – “si fa percepibile solo nel sintomo in cui si fa sensibile dissimulandosi3. Rimanendo in tema, tale rapporto è esprimibile attraverso l’immagine dell’unità dell’oro rispetto alla sua liquidità negli spiccioli, i quali non bastano mai a pareggiarlo. Essa mostra la semplicità del pezzo d’oro articolarsi nelle infinite monete, il quale inevitabilmente trascende e insieme fonda; tuttavia esso non è mai altrove che in esse.

Pertanto, l’intuizione è la via che ci introduce alla durata attraverso il suo essere, incredibilmente, un’interpretazione. Tutti le immagini bergsoniane che si sono via via succedute e articolate nelle sue opere ne sono la riprova: è intesa appunto come atteggiamento simpatetico nei confronti della realtà, con un calarsi dentro le cose, ed è un errore grave ricondurla ad un lampo che ci teletrasporta in presenza della cosa in sé.

Per concludere con una massima, possiamo dire che, per Bergson, l’intuizione (con cui la metafisica è strettamente connessa) è metodo, non “colpo di pistola”.

NOTE:

[1] Tutte le citazioni che nell’articolo non sono prima introdotte segnalando l’opera di appartenenza, sono tratte da Henri Bergson, Introduzione alla metafisica, a cura di Rocco Ronchi, Orthotes, 2012.

[2] Rocco Ronchi, Un’introduzione al reale, presente in Henri Bergson, Introduzione alla metafisica, Orthotes, 2012.

[3] Ibidem.

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