Una famiglia creativa

Una famiglia creativa


Maurizio Andolfi

Neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta della famiglia

di Maria Lucia De Luca

Maurizio Andolfi nasce a Roma il 28 novembre 1942, in piena seconda guerra mondiale, e conosce suo padre all’età di tre anni al ritorno dal fronte in Corsica. Gli anni successivi, soprattutto quelli delle scuole superiori e del corso di laurea in Medicina, «sono caratterizzati – racconta in una sua autobiografia – da un altro tipo di “guerra” assai più penosa e privata. Crescere in un contesto familiare costantemente minacciato nella sua integrità dalle crisi psicotiche di mio fratello minore Silvano mi ha permesso di comprendere tante cose e di costruire le basi della mia futura scelta di psicoterapeuta della famiglia».

L’11 settembre 1972, appena specializzato in Neuropsichiatria infantile, si trasferisce a New York, da cui giungono gli echi dei pionieri della Terapia familiare, e lascia il primo gruppo di Psicoterapia familiare romano guidato da Luigi Cancrini a cui aveva appartenuto per quattro anni.

A New York incontra Israel Zwerling, «il più grande psichiatra sociale di tutti i tempi», che gli offre una borsa di studio in psichiatria sociale e comunitaria presso la Family Study Section dell’Albert Einstein College di Medicina. Partecipa a gruppi di formazione presso l’Ackerman Family Institute e lavora con Salvador Minuchin – che considera suo maestro di vita e di terapia – e Jay Haley presso la Philadelphia Child Guidance Clinic. Dal pensiero di Minuchin e dall’influenza di Murray Bowen Andolfi deriva i concetti di interdipendenza relazionale all’interno della famiglia, mentre da Carl Whitaker, suo secondo ma non meno importante maestro, apprende lo stile di lavoro su più generazioni familiari e la forte vicinanza al bambino.

Nel frattempo, dopo solo due mesi di permanenza negli USA, gli giunge la notizia del suicidio del fratello Silvano. Questa dolorosissima esperienza, e gli sforzi fatti per uscirne soprattutto attraverso le relazioni con i propri familiari, gli permettono «di superare i tanti pregiudizi, così radicati nella professione dello psicoterapeuta, che impediscono di vedere il positivo all’interno della famiglia».

Torna a Roma alla fine del 1974 dove lascia la facoltà di Medicina per quella di Psicologia, presso la quale a tutt’oggi è docente di Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari.

Nel 1975 fonda l’Istituto di Terapia familiare insieme a Carmine Saccu, esperienza che si concluderà nel 1992, anno in cui nasce l’attuale Accademia di psicoterapia della famiglia di cui è direttore.

Nel 1977 fonda Terapia familiare, rivista di punta nel dibattito culturale italiano e internazionale, che ancora oggi dirige.

Negli ultimi anni il suo impegno sociale si è espresso maggiormente all’interno dei progetti condotti dalla Fondazione Silvano Andolfi rivolti alle problematiche dell’immigrazione, della mediazione culturale delle situazioni di marginalità sociale.

È autore di importanti pubblicazioni tra cui Terapia con la famiglia (Astrolabio, Roma, 1977), Tempo e mito nella psicoterapia familiare (conAngelo C.,Bollati Boringhieri, Torino, 1987), Il colloquio relazionale (A.P.F., Roma, 1994), Manuale di Psicologia relazionale(A.P.F., Roma, 2003).

Pioniere della terapia familiare in Italia fin dai primi anni Settanta, Maurizio Andolfi continua a essere un innovatore e un rivoluzionario. Fondatore della psicologia relazionale, ne utilizza i fondamenti non solo all’interno della psicoterapia ma anche come sistema di mediazione culturale nell’ambito di problematiche come quelle dell’immigrazione e dei senzatetto.

Punto chiave del suo approccio teorico e metodologico è l’idea di famiglia come sistema dinamico dove i diversi fattori di cambiamento, intesi come evoluzione dei singoli individui e del gruppo familiare nella sua totalità, contribuiscono a un progressivo avanzamento nel tempo verso nuovi stadi di sviluppo e di crescita.

Una famiglia in trasformazione, piena di problemi, di sofferenze, di contraddizioni, ma ricca anche di tutte le qualità per migliorare. Spesso a partire dagli elementi apparentemente più deboli, i bambini, che Andolfi considera maestri di vita.

«Al di là dei miei maestri ufficiali – scrive in una sua autobiografia – credo che gli insegnamenti più importanti mi siano giunti dai pazienti psicotici e dai bambini. In fondo in entrambi esiste ben vivo il pensiero magico che è la strategia migliore per fare e disfare la realtà in situazioni di pericolo e di cambiamento. Se gli psicotici mi hanno aiutato ad apprendere il linguaggio dell’irrazionalità, i bambini sono stati fondamentali per mantenere sempre vivo in me lo stupore e la curiosità per tutto quello che ci circonda».

Professore, lei parla della famiglia come di un luogo in cui possono nascere traumi e problemi, ma dove è allo stesso tempo possibile individuare le risorse per superarli… La sua idea di un sistema che trova dentro di sé la “guarigione” è molto vicina al Buddismo. Come è arrivato al concetto di famiglia “autoterapeutica”?

È stata molto importante la mia esperienza a New York negli anni Settanta, dove ero arrivato subito dopo la specializzazione in Neuropsichiatria infantile. Qui ho incontrato pionieri della terapia familiare come Nathan Ackerman, Sal Minuchin, Jay Haley, e in seguito Carl Whitaker, tutti appartenenti al pensiero sistemico che considera la famiglia come un sistema autocorrettivo, stabilmente collegato e organizzato. Da tali incontri è scaturita in me la ferrea convinzione che è un grave errore e spesso un danno osservare un bambino staccandolo dalle connessioni affettive e relazionali con la sua famiglia. Mi ha fortemente influenzato anche la mia formazione psicoanalitica presso la Karen Horney Clinic di New York, improntata a una visione molto positiva, costruttiva, dello sviluppo dell’individuo.

Oggi, invece, i giovani psicologi sono formati a vedere tutto in termini di psicopatologia e quindi di malattia. Non inquadrano i problemi in una cornice ecologica, positiva. Evidentemente anche i professori hanno la tendenza a far capire che la parte più seducente, più attrattiva di questo mestiere è il malessere, che non viene visto come una forma esistenziale inevitabile ma come patologia.

Un altro elemento è costituito dal mio “ingresso” nella famiglia attraverso il bambino. I bambini, anche nelle situazioni più disgregate, più difficili, ti offrono sempre una prospettiva positiva. È infatti raro, se non li abbiamo rovinati noi grandi, che non portino una visione di speranza, di cambiamento.

Poi l’esperienza di tanti errori… Quando facevamo terapia familiare qui a Roma nel 67-68 e le famiglie si rivolgevano a noi come ultima speranza, noi le colpevolizzavamo tantissimo, facendo sentire i genitori inadeguati e negativi.

Ha detto che i bambini sono stati i suoi maestri…

Per me sono fonte di idee, di guida… soprattutto all’interno della terapia familiare, ma anche nell’insegnamento. Purtroppo ascoltare i bambini è considerata una forma di marginalità culturale, quasi fossero minoranze etniche. Il bambino dà fastidio se parla, perciò non lo si fa parlare mai; per proteggerlo gli si tappa la bocca. Nella realtà siamo abituati a parlare del bambino, non “con” il bambino. Per me ascoltarlo è stata una grande lezione. Whitaker diceva che quando un bambino parla bisognerebbe sempre avere il registratore pronto, perché dopo cinque minuti non ti ricordi più le sue parole.

Tempo fa abbiamo curato una serie televisiva che si chiamava I perché dei bambini. Prima abbiamo chiesto ai nostri studenti – adulti – di ipotizzare un po’ di domande che avrebbero potuto fare dei bambini. Una fatica pazzesca… Poi abbiamo messo insieme una ventina di bambini di tutte le età, dai tre ai dodici anni e ne sono uscite un’infinità, per esempio: «Perché i pesci non hanno le gambe?» e molte altre che non ricordo.

Per questo aspetto ho ulteriormente valorizzato i bambini.

Anche come esperti di relazione?

Io penso che siano addirittura pensatori sistemici autodidatti. Un bambino è la sintesi di due individui ed è già di per sé un’entità sistemica, che sa come muoversi all’interno del triangolo genitori-figlio. Per esempio ho notato che i bambini – se non li manipoliamo troppo – hanno un senso di giustizia sistemica fantastico, perché anche riguardo al peggior genitore sanno trovare delle dimensioni costruttive. Provate invece a chiedere a un adulto cosa pensa del coniuge, della suocera e di suo fratello… escono spesso critiche e la visione è parziale e unilaterale.

Cosa intende per manipolazione del bambino?

Ciò che normalmente si definisce abuso affettivo.

Noi siamo una società basata su quello che si vede, si tocca e si fa e non certamente su quello che realmente pesa… Oggi, ad esempio, i figli non vengono più picchiati, ma subiscono una serie di terribili soprusi in termini affettivi. Non gli diamo uno scappellotto ma gli diamo botte da orbi sotto altri aspetti. L’apparenza però è pulita: una forma di ipocrisia sociale.

L’abuso affettivo si determina tutte le volte che un bambino viene eccessivamente responsabilizzato, quando viene chiamato a immedesimarsi in parti che l’adulto non svolge perché immaturo. Ad esempio quando viene plagiato da un genitore contro l’altro, cosa che accade spesso, perché le “migliori” lotte si fanno attraverso i figli. Credo che questa sia la cosa più dura, perché un bambino abusato in questo modo fatica a ritrovare il senso di equilibrio relazionale, cioè a rapportarsi con i genitori in modo equilibrato.

Sono abusi che sul corpo non si vedono, il bambino li porta dentro.

:IMM:Lei parla sempre di psicologia relazionale e del grave errore di osservare un bambino staccandolo dalle connessioni familiari o affettive. Perché? Un bambino non può avere problematiche personali?

Certo. È naturale che il bambino abbia problematiche personali, ma l’errore è che ne diventi depositario un tecnico e che i genitori vengano esclusi da questo processo di conoscenza. Credo che questo genere di trattamenti infantili sia criminale, perché il danno che ne deriva al bambino è molto grave.

Purtroppo noi abbiamo inventato la psicoanalisi infantile. In verità le premesse erano positive. Bollea per primo ha posto l’accento sui bisogni del bambino e ha costruito questa attenzione – in un’Italia da sempre disinteressata a questi problemi – sul bambino, sino ad allora oggetto dei più incredibili abusi. L’errore più grave, secondo me, è stato quello di creare “tecnici dei bambini” invece di “tecnici delle famiglie”. Il tecnico dei bambini, cioè lo psicoterapeuta infantile, è il maggior nemico della famiglia perché la esclude.

In casi particolari di abuso, di abbandono, di incapacità intellettuale, di ritardi, di psicosi, in tante situazioni in cui i genitori sono carenti, si può pensare che un tecnico possa dare aiuto, ma nella stragrande maggioranza dei casi l’aiuto migliore che può dare uno di noi è quello di ricreare i ponti tra il bambino e i genitori, non di escluderli mettendosi al loro posto. Io ritengo che questo sia danno che si aggiunge a danno: i bambini vengono da noi perché hanno dei problemi e il fatto che vengano aggiustati, riparati da noi esperti, costituisce ulteriore deresponsabilizzazione e frustrazione dei membri della famiglia. In questo io sono molto radicale: il peggior genitore è migliore del migliore terapeuta. Non lo dico perché è un teorema, ma perché l’ho vissuto nella pratica: non esiste un peggior genitore che sia peggiore e basta.

Per non parlare di come vengono colpevolizzati i padri, per il fatto che sembra che sette su dieci dopo la separazione si disinteressino dei figli. Ma in una visione sistemica non ci si può fermare a dire soltanto che la madre è tanto responsabile e il padre è tanto irresponsabile. Si deve vedere il rapporto tra i due. Ci dobbiamo chiedere quanto l’iper-responsabilità materna faciliti lo sgancio paterno o quanto i nostri sistemi di intervento favoriscano questa condizione. Non è infatti infrequente che l’operatore si sostituisca a un membro della famiglia, nell’intento di colmarne aspetti carenti.

Può parlarci dei “miti familiari”?

I miti familiari sono dei modelli di interpretazione della realtà con funzioni prescrittive che emergono dal vasto patrimonio culturale della famiglia. Hanno la funzione di unione e coesione, creando una sorta di identità di quel nucleo familiare che dà stabilità e senso di sicurezza, spesso a spese di eventuali scelte o autonomie individuali.

Sono rappresentati da una serie di copioni che i membri della famiglia sono costretti a recitare e che diventano quasi delle prescrizioni di comportamento… quelle regole, fisse e immutabili, che i genitori trasmettono ai figli, che non sono regole neutre ma dipendono da ciò che si è assimilato nelle famiglie d’origine.

Due sono gli atteggiamenti negativi rispetto a essi: conformarvisi o opporvisi totalmente. Per esempio, si pensa di aver scelto liberamente di sposarsi, di avere dei figli, di seguire certe strade professionali, ma poi, quando ci si trova in situazioni critiche, di difficoltà, ci si chiede il perché sia andata in un certo modo e ci si accorge che tante delle apparenti libere scelte personali sono state condizionate da questi miti familiari.

Perché i genitori si scontrano sui modelli educativi? Quasi sempre quando ci sono problemi di coppia si finisce con lo scontrarsi sull’educazione dei figli perché i modelli educativi rappresentano la proiezione nella vita di adulti di regole che sono state fondanti durante l’infanzia, come ad esempio stare a cena tutti insieme.

Cosa intende dire?

Consideriamo il caso di una ragazza anoressica, gravemente problematica. Nella sua famiglia non si riesce a stare seduti a tavola tutti insieme. Se vediamo la sua storia familiare, scopriamo che il padre viene da una famiglia autoritaria, sette figli, botte… ma con la regola di mangiare a casa tutti insieme. La madre invece, rimasta orfana di padre da bambina, non sopportava l’uomo con cui sua madre si era messa in tempi troppo rapidi e saltava i pasti, non mangiava mai con loro; da quando aveva dieci anni mangiucchiava qua e là. Adesso, a quarant’anni, pensa che non si debba mangiare tutti insieme perché questo è il suo modello familiare, che si scontra con quello del marito, che invece ha il mito dell’unione. E non è facile metterli d’accordo; i miti possono diventare una miscela esplosiva…

Elaborare il mito familiare vuol dire invece avere la possibilità di distanziarsi da tutto ciò che in esso è rappresentato, ma anche di accettarlo e farlo proprio per quelle parti che non contrastano con la ricerca di un’identità autonoma.

Nel momento in cui la propria cultura familiare viene ammessa a far parte del mondo personale si può comprendere pienamente che la realizzazione di sé si raggiunge solo attraverso il superamento di tutta una serie di crisi e tentativi.

In un “ritratto letterario” lei racconta come degli episodi difficili della sua vita siano diventati punti di inizio del suo lavoro e del suo pensiero. Anche il Buddismo – che nasce proprio dal voler dare una risposta alla sofferenza umana – parla di trasformare il veleno in medicina…

Questa capacità di superare le difficoltà si chiama “resilienza”, nel nostro vocabolario strano. Credo che quest’idea faccia parte della componente universale di tutte le religioni. Io vengo da una tradizione cattolica, che ho poi abbandonato, ma anche lì la matrice è quella: riuscire a passare attraverso la sofferenza per arrivare a qualcosa di più profondo, interiore.

Spesso invece molte persone crescono con il sentimento di quello che non hanno avuto e ci stanno così male che tutti i loro rapporti, con i familiari, i genitori, le altre persone, finiscono per essere danneggiati. Ma uno non può bere quaranta anni dopo il latte che non ha bevuto quando era piccolo. Questa è la sindrome da indennizzo, di quello che è arrabbiato con tutti perché non ha avuto quel nutrimento che si aspettava.

Il punto però non è tornare indietro e far avere a questa persona la famiglia del mulino bianco, ma aiutarla ad accettare i suoi buchi, le sue perdite, le sue carenze come un punto di forza e non di debolezza… Per farle diventare un punto di forza si deve aver elaborato queste perdite, e si ha bisogno di un sostegno. A volte un aiuto può essere un partner, un figlio, un confidente, la religione per chi ha fede, cioè qualche cosa che permetta di ritrovare la forza da ciò che non si ha avuto. Invece le persone pensano che la forza provenga solo da quello che si ha avuto.

C’è bisogno di uno scopo?

È fondamentale. Consideriamo gli immigrati. Hanno un progetto davanti: devono mandare i soldi a casa, sforzarsi di emergere, far andare i figli a scuola e superare i nostri pregiudizi.

Oggi nelle nostre famiglie manca spesso un progetto, un obiettivo. Il benessere diventa un fine e non un mezzo per realizzare qualcosa, anzi oscura lo scopo.

Nello schema sclerotico della nostra società gli immigrati sono una delle poche speranze di nuove bombe sociali, di nuovi eventi che irrompono.

Non è possibile ricacciare la povertà, la sofferenza, il bisogno di trovare delle condizioni di vita migliori per sé e la propria famiglia, con leggi, leggine, razzismi… l’America ne è un esempio. Da quando c’è il mondo tutti i popoli si sono spostati dove ci sono migliori risorse. Per giunta, questo è stato sempre un vantaggio sociale, ovunque. Sul piano genetico tutte le popolazioni meticce sono più belle e forti di quelle autoctone; sul piano dei figli c’è la speranza di riequilibrare il tasso di natalità nei paesi occidentali, e ulteriori arricchimenti si riscontrano sul piano del cibo, delle tradizioni, della musica, della vitalità, dello sport, della cultura.

Per non parlare dell’educazione: si pensa che l’immigrato sia “sporco, brutto e cattivo”. Noi invece abbiamo fatto una ricerca sulla qualità della vita delle famiglie immigrate intervistando duecentocinquanta famiglie in tutta Italia e abbiamo scoperto che uno dei loro problemi più gravi è l’educazione dei propri figli nelle nostre scuole, dove non esiste più la figura del genitore, non si rispettano gli insegnanti, non si rispettano le autorità costituite, non c’è rispetto umano. Cose che ci farebbero dire: ma come, parla lui che viene dall’ultimo paese dell’Africa!

C’è una grande somiglianza tra queste culture dell’emigrazione e gli italiani degli anni Cinquanta, non tanto perché emigravano a loro volta, quanto perché allora c’era il sentimento delle generazioni che uscivano dalla guerra, dalla distruzione e che dovevano ricostruire… Adesso i nostri giovani cosa devono ricostruire? Semmai devono distruggere perché gli è stato costruito sopra, e quindi si trovano handicappati, in una condizione di relativo benessere dove non possono superare i genitori, anzi non vogliono. Molto spesso gli adolescenti dicono: noi non vogliamo fare la vita dei nostri genitori, è una faticata.

Ma i bambini hanno anche tanti valori, che però non riescono a motivarli abbastanza.

Hanno tante informazioni, più che valori. Gli adulti devono aiutare il bambino a decodificare questi messaggi, devono dargli una graduatoria di priorità. Il bambino da un certo punto di vista vede tutto, ha il mondo in mano, ha tanti mezzi tecnici, il telefonino a dodici anni. Ha tanto di più, ma anche tanto di meno. Perché gli manca la possibilità di confrontarsi col poco, quindi la creatività, e poi non ha la famiglia con cui crescere. Molti bambini crescono con i nonni, spesso i genitori sono marginali nella fase di crescita. Inoltre molte famiglie si rompono e i bambini diventano bagagli che vanno da un punto a un altro.

Non sono così convinto che stiano tanto meglio.

Lei parlava di diversi linguaggi, di imparare a comprenderli, a decodificarli, a metterli in comunicazione. Di partire dall’ascolto e anche dalla comprensione.

Oltre all’ascolto è importante il modo in cui si risponde a un bambino: è vero che l’ascolto è importante, ma come gli parli? Abbiamo fatto delle ricerche in cui viene fuori che il tempo medio di gioco di un genitore con un bambino è di quattro minuti al giorno. E se pensiamo che molto del gioco è pedagogico, educativo, i minuti si riducono ulteriormente, perché tanti genitori giocano con i figli per passare delle regole. Molti adulti non sanno come è costruito il gioco, cosa vuol dire giocare, non ce l’hanno dentro. Ma si può imparare, il gioco, si apprende dal bambino, bisogna avere un po’ di tempo e la capacità di mettersi a fare il bambino…

Comunicazione è anche questo: conoscere e usare il linguaggio opportuno. Il linguaggio del bambino è ludico, mentre quello di un adolescente è quasi costantemente una sfida, una provocazione. Con l’adolescente bisogna trovare una via di confidenza, di complicità, di dialogo indiretto… certo non lo puoi mettere davanti a te e chiedergli come sta, lui non te lo dirà mai. Gli adulti dovrebbero cercare di adeguare il loro linguaggio a quello dei loro interlocutori.

Per non parlare poi della comprensione più difficile, il maschile e il femminile… Il più delle volte si cerca di portare l’altro nel proprio linguaggio, si dice «lui (o lei) non mi capisce mai, non mi ascolta», il che è vero. Ma quando vai in un paese straniero non puoi parlare in italiano, perché non ti capiscono, devi parlare la lingua locale, devi studiarla…

Così, nella relazione maschile-femminile, i linguaggi si possono imparare cogliendone alcuni aspetti oppure chiedendo, facendosi spiegare il senso di tante cose… Alla fine si impara, se però anche l’altro ha la stessa curiosità. Quando invece nelle coppie ci sono dei ruoli subalterni, cosa che avviene spessissimo e il maschile è dominante oppure la donna è accentratrice, uno dei due deve seguire l’altro e ci sono mille occasioni di prevaricazione. In questi casi non si può imparare questo linguaggio, perché non lo si vuole nemmeno ascoltare.

Noi viviamo un grave dramma, quello che i terapeuti, soprattutto quelli familiari, sono tutte donne. Allora, come si fanno a comprendere i linguaggi di due mondi diversi se è tutto al femminile?

Per finire: un consiglio ai genitori.

Il pediatra di mio figlio mi diceva: segui il bambino. Se non è un problema grave lui sa indicarti come muoverti. Consiglio alle madri di seguire i bambini.

E ai papà?

Ai papà consiglio di fare una rivoluzione. Di fare il neo maschilismo, di trovare un modo loro di fare i genitori, non di essere assenti o di imitare le mamme. Perché non ci riusciranno mai.

(si ringrazia Monica Aitanga Leva per la preziosa collaborazione)

BS n 99 - 2003 | luglio/agosto



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