Se la memoria è senza il memoriale - parte 1

Se la memoria è senza il memoriale - parte 1

di Cosmo Intini



 

“Venne a casa sua e i suoi non Lo ricevettero” (Gv 1,11)

Una contraddizione palese o apparente?

Data la loro concomitanza, molto spontaneamente viene da chiedersi in questi giorni come possano ritenersi conciliabili due eventi quali la scadenza commemorativa ebraica del ‘Giorno della memoria’ (27 gennaio) e la genocida invasione armata, israeliana, della Striscia di Gaza.

Volendo qui di seguito operare una riflessione in merito a quella che da alcuni viene percepita come una stridente contraddizione, mentre da altri è invece riaffermata e giustificata come coerentemente rientrante nella medesima ratio, prescinderemo tuttavia dall’approfondirci sulle posizioni più generali che vengono usualmente assunte a partire dalle logiche contrapposte.

Da una parte, insomma, non insisteremo su quei tentativi portati avanti da coloro che, ‘ideologicamente’, riducono tutto al contesto della persecuzione razziale che il popolo ebraico sarebbe chiamato a subire e fronteggiare[1].

D’altra parte, non trarremo nemmeno conclusioni sulla base dello sconcerto ‘emotivo’ che l’opinione pubblica mondiale sta largamente mostrando di fronte al fatto che proprio coloro i quali si sono sempre lagnati di essere le sofferenti vittime, oggi si sono esplicitamente rivelati quali impietosi invasori e carnefici.

In verità, l’esigenza di offrire nel merito un nostro contributo nasce sulla base di una precisa convinzione: per meglio inquadrare la questione è necessario abbandonare ogni forma di approccio di carattere soggettivo - ideologico o emotivo che sia - per affidarsi invece all’oggettività desumibile da considerazioni basate su principi metafisici.

In quanto cattolici, poi, ci chiediamo allo stesso tempo quale posizione sarebbe più opportuno assumere, volendoci esprimere alla luce delle nostre convinzioni di fede.

 

Differenza tra memoria e memoriale 

Intanto risulterà utile specificare subito quale sia la differenziazione che si pone tra ‘memoria e memoriale’.

Nonostante ciò sembri inerire ‘direttamente’ solo al primo dei due avvenimenti citati (memento: Giorno della memoria e genocidio di Gaza), proprio codesta questione, purché affrontata da un punto di vista metafisico, risulta invece indicativa e dirimente per inquadrare ‘indirettamente’ anche il secondo di essi. Questo perché è tale presa in carico che ci permette di discernere e consapevolizzare, in maniera anche più generale, quali siano le peculiarità della natura ‘essenziale’ (ossia l’‘essenza’ ontologica) della cultura ebraica. In tal modo, potremo operare insomma una ‘sintesi’ che, proprio in quanto tale, porrà in risalto il ‘filo rosso’ posto alla base di qualunque ‘agire’ di essa cultura.

Premesso ciò, va precisato che mentre la ‘memoria’ è semplicemente il ricordo di un fatto passato – come appunto lo sono, per gli Ebrei, l’Olocausto o il biblico Esodo dall’Egitto - il ‘memoriale cristiano’ invece è qualcosa di più.

Se in senso stretto esso coincide con la celebrazione Eucaristica, in senso lato esso esprime invece l’interezza stessa del salvifico sacrificio patito dal Cristo Logos sulla Croce. Tuttavia, a differenza della semplice ‘memoria’, il ‘memoriale’ non è solo il ricordo del fatto storico già avvenuto, ma è anche la sua ‘ripresentazione’, la sua ‘ri-attualizzazione’ ontologica. È proprio tale suo rinnovato e rinnovante ‘porsi in atto’ ciò che permette al cristiano di ogni epoca di parteciparvi sempre direttamente, presentemente e concretamente. E questo diviene possibile dal momento che il sacrificio di Cristo è stato offerto una volta per tutte sulla Croce e rimane sempre ‘attuale’: ossia ‘in atto’[2].

Non da ultimo, un aspetto importante e significativo del ‘memoriale’ risiede nel fatto che il ‘vero’ cristiano, contestualmente alla propria partecipazione e coerentemente con la propria attestazione di fede, deve aver cura di disporsi secondo una totale ‘con-formazione’ ontologica con esso. Solo in tal modo, infatti, egli potrà realmente ‘partecipare’ della grazia salvifica promanante dal sacrificio del Cristo Logos; la quale è sì ‘gratuitamente’ a lui elargita da Dio, ma a cui egli deve rispondere, per poterne beneficiare, con una immediata manifestazione di apertura e disponibilità ontologica alla ‘ricezione’.

 

Logos divino e logos umano

La ‘con-formazione’ più completa e propria che l’uomo possa attuare col Cristo, in quanto Logos, è appunto quella che egli deve adottare a livello del suo stesso logos: intendendo con questo termine non tanto la ‘ragione’ razionalmente intesa, quanto la diade ‘pensiero-parola’ che pone la totalità della ‘persona umana’ (spirito, anima e corpo) in analogia di ‘immagine e somiglianza’ con ‘Dio Creatore’: Colui che, attraverso la Sua Parola, è causa e origine dell’‘Ordine logico’ del mondo (κοσμος).

Ciò che rende l’uomo simile a Dio è la propria libertà di arbitrio e di potere, la propria dignità di ‘persona’ in quanto dotata dell’iniziativa e della padronanza dei propri atti; in una parola: in quanto ‘ragionevole’[3].

Va di conseguenza anche ribadito che l’adesione di ‘con-formità’ tra logos umano e Logos divino non può avvenire sul piano del puro e semplice sentimentalismo o dell’emotività soggettiva (fede devozionistica). Riprendendo la terminologia adoperata da S. Paolo, il più vero e totalizzante atto di fede si manifesta non tanto con la semplice ‘fiducia’ (πιστις), quanto con l’omo-loghìa; parola la quale, usualmente tradotta con ‘confessione e testimonianza di fede’, indica nell’accezione più propria, appunto, la ‘conformità’ con il Logos (omos + logos).

 

Logos metafisico e logos naturale: un rapporto di analogia e comunione

Se la presenza nell’essere umano della ‘ragione’ intimamente correlata alla sua capacità anche di ‘parola’, ne fa un unicum fra le creature, ciò acquisisce una ancor più significativa valenza alla luce di quella che è la natura della ‘Rivelazione cristiana’.

Il tutto si può spiegare partendo dall’assunto del Prologo del Vangelo di Giovanni, secondo cui Cristo Gesù è il Logos (Gv 1,1-14)! Tale complesso termine, che riveste un ruolo chiave nell’ambito della Rivelazione, innanzitutto mutua dal contesto filosofico-culturale greco, da cui direttamente deriva, il duplice significato appunto di ‘pensiero e parola’. «Logos [] è uno di quei termini che da soli potrebbero riassumere sinteticamente l'esperienza culturale degli antichi Greci. Logos significa parola, pensiero, razionalità, capacità dell'essere umano di connettere e sviluppare i propri pensieri: è ciò che caratterizza l'uomo rispetto agli animali, detti appunto àloga, irrazionali»[4].

Seppure le due facoltà umane di ‘pensiero e parola’ vadano sempre intese nella loro identicità e coincidenza ontologica, ovvero nella loro corrispondenza e correlazione operativa, in maniera tale che nessuna di esse possa ritenersi prescindibile dall’altra, tuttavia delle due si presenta ‘centrale’ la seconda, dato il carattere per l’appunto ‘rivelativo’ della teologia vetero e neotestamentaria; nonché, più in generale, data la funzione mediatrice svolta da essa parola, al fine di esprimere e comunicare il pensiero.

Tale contingenza viene del resto confermata dal precipuo, prevalente permanere di tale accezione nella più generica traduzione che del termine greco Logos viene effettuata dal latino Verbum.

In effetti, «il nucleo centrale di logos si situa nell'ambito del ‘dire’: qualsiasi vocabolario ci indica come primo ed essenziale valore di logos la comunicazione verbale, l'attività del parlare, il discorrere. E poiché il comunicare coi nostri simili implica la facoltà di intessere discorsi dotati di senso, logos assume altri valori correlati con la razionalità umana, e viene a significare ‘criterio’ e ‘ragione’. In quanto parola e pensiero, logos si contrappone a ergon: la semplice affermazione rispetto alla realtà, la riflessione rispetto all’azione»[5].

Ma la ricchezza di implicazioni legate al termine logos non si esaurisce qui. Vanno difatti pure valutate quelle derivanti relativamente all’uso che se ne è fatto in seno al greco biblico, o più precisamente veterotestamentario.

«L’incontro con la cultura semitica fa assumere a logos nuovi significati. Nella versione dei Settanta il termine semitico sottostante è in genere dabar, che a sua volta viene reso ora con logos ora con rhema: la scelta dipende dal gusto dei traduttori, varia a seconda dei libri e non comporta sostanziali differenze semantiche. Diversamente da quanto abbiamo visto in greco, la parola ebraica ha un aspetto dinamico: alla parola concreta (dâbâr) si contrappone lo spirito (ruah) e dabar vale ‘parola’ e ‘fatto’: è la parola che si realizza e diviene realtà. La parola per eccellenza è quella di Dio, parola creatrice, parola di promessa, parola di Rivelazione, parola che diviene atto nel momento stesso in cui è proferita. Ma dabar contiene anche un aspetto noetico: la parola come tramite tra l’uomo e la realtà, come segno che rimanda oltre la parola stessa»[6].  

Dunque, analogamente al greco logos, anche il termine ebraico dabar risulta esser legato principalmente al ‘dire’, costruito come esso è sulla radice *dbr-, il cui verbo significa appunto ‘parlare’. Tuttavia, in senso veterotestamentario il “dicere Dei est facere[7]; ovvero, inversamente, il “facere Dei est dicere”. Il dabar ebraico non è quindi un logos nell’usuale senso classico-filosofico della lingua greca, cioè una parola pensata, ma è un ‘evento’.

In Isaia si legge: «la parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11). Donde appare che la biblica ‘dabar-parola’ non è solo ‘parola’, ma anche e soprattutto ‘atto e realizzazione’.

Va però specificato che l’esperienza ebraica del linguaggio non assegna propriamente alla lingua uno statuto di strumento; pertanto tale evento realizzante di cui il dabar è artefice, in realtà è molto di più di un semplice ‘denominare’ ovvero di un qualunque generico ‘fare’.

In sintesi: l‘essenza del ‘fatto’ non va disgiunta dall’essenza del ‘detto’! Ciò significa che in pratica la lingua ebraica non ritiene esserci dicotomia tra linguaggio e reale; pertanto, il dabar indica che «[] l’esistenza delle cose e degli esseri – così come i loro modi di essere, la loro storia, ecc. – è depositata in potenza nelle parole: parole che non servono affatto a designarli, ma che ingiungono loro di essere. In altri termini, se l’universo del linguaggio contiene già in germe, in modo non dispiegato, tutto l’universo dell’ente, il primo non appartiene al secondo: ne è la condizione di apparizione»[8].  

Infine, nel Nuovo Testamento, che può considerarsi il luogo ove il pensiero greco ed il messaggio biblico attuano il loro incontro ‘provvidenziale’ - e perciò non casuale - il significato di logos giunge a definitiva caratterizzazione. Logos diviene cioè «[] la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il Logos, e il Logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una ‘condensazione’ della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco»[9].

Il carattere associativo del dabar, che aveva rappresentato il ponte unificante tra l’universo del linguaggio e quello dell’ente, riconfluendo per via provvidenziale nel greco logos, trova il proprio estremo compimento giungendo a sancire l’incontro tra Creatore e creatura, Dio e uomo, nell’‘Uomo-Dio’!

A differenza del dabar, da cui perviene e che comunque oltrepassa, il Logos cristiano non solo è la condizione di apparizione degli esseri, ma si rende ontologicamente anche da essi ‘partecipabile’. E vedremo tra breve in quale maniera tutto ciò avvenga attraverso il proprio ‘depositarsi’ nella lingua greca; la quale, in tal caso, va a sostituirsi alla lingua ebraica come ‘lingua della rivelazione e dell’Alleanza’, per affermarsi così quale lingua ‘sacralizzata’ dalla e nella ‘Nuova Alleanza’ cristiana! 

Da concetto astratto ed invisibile il Logos-Creatore diviene reale e visibile, personificandosi ed incarnandosi nell’uomo. Ciò costituisce un ‘avvenimento’ del tutto particolare, in quanto non soltanto ciò che è intrinseco si estrinseca, l’implicito si esplicita, il nascosto si manifesta, il velato si rivela; ma più precisamente possiamo dire che: ciò che estrinseca, estrinsecando si estrinseca; ciò che esplicita, esplicitando si esplicita; ciò che manifesta, manifestando si manifesta; ciò che rivela, rivelando si rivela.

Siamo insomma al cospetto non di un semplice ‘atto’, di una semplice ‘realizzazione’, quanto piuttosto dell’’atto realizzatore in sé’: l’Atto che si attua, l’Essere che è! Per dirla con l’ontologia tomista: siamo al cospetto non di un ente la cui essenza semplicemente ‘partecipa’ dell’essere, ma di un Ente la cui Essenza ‘coincide’ con l’Essere! La qual cosa ci rimanda pure direttamente alla metafisica di Es 3,14 allorché Dio si rivela a Mosè nel proprio Nome: “Io sono Colui che sono”. 

La compiuta ‘realizzazione’ consiste appunto nel fatto che il metastorico ed eterno ‘Essere che è’, proprio del Logos, viene a ‘fissarsi’ nella storia autolimitandosi in una ‘forma’ spazio-temporale, la quale (non a caso secondo il duplice senso del termine) a sua volta permette di farsi ‘fissare’ dall’occhio umano; e tale ‘forma’ è poi quella propria dell’uomo stesso: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in noi (εν ημιν)» (Gv 1,14).

Grazie a ciò, il Dio-Parola diviene per l’uomo da ascoltabile anche visibile, in Cristo Gesù: «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18); d’altronde lo stesso Cristo Gesù dice di sé: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Ed è proprio allora che il pensare greco, che aveva fatto del ‘vedere’ la propria struttura portante, provvidenzialmente incontra la fede veterotestamentaria, a sua volta strutturata sull’‘ascoltare’!

 

Carattere ‘col-legante’ del Logos

Giungiamo così al punto chiave! Pur mantenendo il logos i medesimi connotati che gli avevano riconosciuto sia il pensiero greco filosofico che la fede veterotestamentaria, adesso non è più solo questione di una ‘parola-ragione’ prettamente umana, né solo di un ‘evento (dal lat. ex-venio, ossia ‘ciò che viene da/ viene da Dio’) di cui l’uomo viene, semplicemente, ‘in-formato’.

Alla ‘parola-ragione’ umana è ora dato modo di potersi anche, e addirittura, ‘con-formare’ con quell’‘avvenimento (dal lat. ad-venio, ossia ‘ciò che viene a/ viene a noi’), costituito appunto dal ‘venire ad abitare in…noi’ della divina ‘Parola-Ragione che forma e crea’.

L’uomo può ‘fissare’ Dio perché il Logos si è fatto carne, cioè si è a sua volta ‘fissato’ nella ‘forma’ umana. Ovverossia, il logos umano può d’ora in poi analogicamente ‘con-formarsi’ proprio con il Logos: con Colui che è all’origine dell’essere, della vita, della ‘forma’ di ogni creatura[10].

La valenza ‘comunicativa’ della Parola divina non si limita più al senso di un semplice ‘trasmettere’ o di un ‘realizzare’, ma aggiunge altresì quello del ‘rendere comune’: ossia del ‘con-dividere’. La ‘parola-ragione’ umana è invitata cioè a partecipare ad Esso Logos, a dia-logare e con-formarsi con Lui, dopo averLo ‘con-templato’.

Ecco perché per poter ‘dia-logare’ con il Logos, al logos dell’uomo è risultato essenziale che gli fosse innanzitutto concesso di poter ‘vedere’ incarnato l’oggetto della Rivelazione: «[] e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14).

D’altro canto, è indicativo che questo carattere, per così dire ‘col-legante’, sia già implicito proprio nella derivazione etimologica che il sostantivo logos presenta dal verbo greco λεγω. Quest’ultimo infatti, oltre al significato del ‘dire, raccontare’ mantiene pure ulteriori e più originari sensi (non da un punto di vista temporale, bensì in quanto più prossimi al fondamento del senso stesso): ossia, quelli del ‘cogliere, raccogliere, riunire, radunare, custodire, mettere in serbo’ (dalla radice *leg-)[11].

Proprio in relazione a ciò, il pensatore M. Heidegger perviene ad individuare nel logos non solo la designazione dell’atto del ‘raccogliere e del riunire per custodire’, ma anche quello dell’insieme ‘raccolto’. Tramite una riflessione ontologica sul Frammento 50 di Eraclito[12], egli riconosce nel Logos (con la lettera maiuscola, in quanto è per lui ormai quello veramente ‘originario’) ciò che ‘mantiene l’ente nella propria presenza, l’essere dell’ente’: l’‘Uno che riunisce il Tutto’[13]!

Tale carattere di assolutezza ontologica è esattamente quanto possiamo desumere dalla da noi già indicata rivelazione del Nome di Dio a Mosè. L’“Io sono Colui che sono”, così come affermato in Es 3,14, non costituisce insomma una tautologia, un’autoreferenzialità, in quanto non trattasi di un pensiero-parola (logos) che ‘pensa-parla di sé’ (ovvero, si auto-denomina), ma di un Pensiero-Parola (Logos) che ‘è Sé’ (ovvero, si mostra)!

Se il primo ‘descrive’ un’essenza che rimane altra da sé, il secondo invece ‘manifesta’ Sé nella propria essenza: “è la propria essenza, intendendo con questo termine “l’atto positivo stesso per cui l’Essere è”[14].

Vogliamo sottolineare il fatto che tutto ciò, proprio in quanto ‘credibile’ - nel senso vero e proprio di un Logos divino che si mostri al logos umano religiosamente ‘degno di fede’ - può ritrovare riscontro in quella divina ‘circolarità’ che, così come affermato, stiamo assumendo debba sussistere tra ‘Essere, Essenza ed Ente’.

Trattandosi qui del ‘Santo Nome di Dio’, e in particolare del Dio fatto uomo, ci si deve insomma aspettare che il Nome di Gesù, il Logos per antonomasia, possegga la suscettibilità di esprimere la propria natura sacrale in maniera spontanea ed immediata, manifestando cioè una ontologica coincidenza tra ‘ciò che dice’ e ‘ciò che è’.

Se questo risultasse vero e verificabile, potremmo pertanto affermare, con ragione, che il logos cristiano possiede realmente quella possibilità di completa ‘con-formazione’ con il Logos divino e quindi con Dio; fattore che invece al logos ebraico rimane precluso, non avendo quest’ultimo accettato di ‘col-legarsi’ con Lui, mediante la propria disponibilità ed apertura a ‘riceverlo’.

Così è infatti scritto: «Venne a casa sua e i suoi non Lo ricevettero» (Gv 1,11)[15]

 


NOTE

[1] Oltretutto, detto incidentalmente, anche solo l’argomento relativo al cosiddetto ‘antisemitismo’ risulterebbe già viziato in partenza, alla luce del fatto che pure i Palestinesi sono un popolo di razza semita: anzi, addirittura a più titolo degli ebrei, viste le diversificate ascendenze a cui questi ultimi sono riconducibili a motivo della diaspora.

[2] Cfr. Eb 7,24-28.

[3] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1730, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999.

[4] Moreno Morani, La parola che mette d'accordo il messaggio e il pensiero, in l’Osservatore Romano (21/01/2010).

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. S. Tommaso, In 2 Cor 3,2,1.

[8] M. Zarader, Il debito impensato: Heidegger e l’eredità ebraica, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1995, p.55.

[9] Sua Santità Benedetto XVI, Discorso di Ratisbona (12/09/2006).

[10] Cfr. Gv 1,3: «[…] tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».

Cfr. pure Col 1,16-17: «per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui».

[11] È emblematico il permanere degli stessi significati anche nel latino lego: raccogliere, ascoltare, scegliere, nominare, leggere, ove con ‘leggere’ si configura l’azione di raccogliere le parole scritte.

[12]Ουκ εμου αλλα του λογου ακουσαντας ομολογειν (akousantos omologhein) σοφον εστιν εν παντα ειναι”, Eraclito (framm.50).

[13] Il fatto che nel frammento di Eraclito il termine logos risulti collegato con il verbo ‘udire’, ‘akouein’ (ακουειν) non va equivocato: il loro rapporto non si riduce a quello che, secondo il senso usuale del termine, lega il ‘discorso’ alla sua percezione! Propriamente qui l’‘ascolto’ non va inteso quale una ‘percezione sensibile delle orecchie’, ma piuttosto quale un ‘raccoglimento silenzioso prestante disponibilità ad un possibile ascolto, con atteggiamento di abbandono, appartenenza ed obbedienza’! Il senso è confermato anche dalla presenza dell’altro verbo, ‘omologhein’ (ομολογειν) – verbo che peraltro ci rimanda immediatamente all’omologhìa paolina – il quale letteralmente significa ‘dire la stessa cosa che dice un altro’; ma non nel senso di una banale ripetizione, bensì di un ‘essere d’accordo con il Logos’, in quanto si è già in sé ‘ordinati conformemente ad esso’. In altre parole: ‘raccogliersi per essere raccolti nel Logos che raccoglie’!

[14] Seguendo S.Agostino, si può dire che il nome di essentia appartiene in proprio solo a Dio, poiché tutto il resto rientra nella categoria delle substantiae. Cfr. De Trinitate, VII, 5, 10.

[15] Ciò dovrebbe peraltro offrire spunto di riflessione per tutti coloro che, senza operare i dovuti distinguo, meccanicamente usano ripetere che “Gesù era ebreo”!


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