Oltre il crepuscolo del mito di Westfalia

Oltre il crepuscolo del mito di Westfalia

di Mohamed M’Hadhbi


Molte critiche sono state formulate contro il fatto di considerare la Pace di Westfalia del 1648 come l'origine del moderno sistema statale internazionale, secondo le affermazioni della narrativa dominante nelle Relazioni Internazionali (RI). Vale la pena notare che, per quanto interessanti, queste critiche non hanno generato un'alternativa. Westfalia ha rappresentato una sorta di ostacolo cognitivo, sotto forma di costrutto ideologico, che ha impedito un resoconto oggettivo del moderno sistema statale nato dopo la Seconda guerra mondiale (WWII). L'obiettivo di questo articolo è proporre alcune pietre miliari che possano aprRIe la strada a una nuova visione del sistema statale moderno. Pertanto, spiegherò innanzitutto perché le caratteristiche principali del sistema statale moderno, ossia i principi di sovranità e territorialità, hanno visto la loro “condizione di possibilità” socio-storica concretizzarsi solo nel XX secolo. In seguito, sottolineerò l'originalità e l'alto grado di “sistematicità” del sistema statale del secondo dopoguerra e analizzerò i suoi pilastri principali. In terzo luogo, e infine, sostengo che il sistema statale moderno potrebbe essere meno liberale e meno anarchico di quanto ampiamente sostenuto.

 

È sorprendente osservare che né il testo degli accordi della Pace di Westfalia del 1648, né il contesto dell'epoca, permettono di considerarli come l'origine del sistema statale moderno. La presunta paternità non si basa su prove solide. I Trattati di Westfalia erano piuttosto un documento costituzionale del Sacro Romano Impero, che non menzionava la parola sovranità (De Carvalo, LeRIa, Hobson, 2011) - ma parlava invece di “possedimenti” e di ciò che si può dedurre come un'aspirazione comune alla pace regionale (Europa cristiana). I due trattati di Westfalia del 24 ottobre 1648 parlavano infatti “In nome della santissima e singola Trinità”, deploravano “l'effusione del sangue cristiano”, mentre cercavano “la gloria di Dio e il beneficio del mondo cristiano”. Per questo sono stati considerati “l'ultima pace cristiana” (Croxton, 2013). La questione della genealogia del moderno sistema statuale internazionale è stata probabilmente sopravvalutata e le è stata dedicata più attenzione del necessario.

 

In ogni caso, rimane abbastanza anacronistico cercare l'appartenenza della sovranità territoriale, come norma universale, a Westfalia 1648. Il “dritto degli Stati alla libertà da interventi esterni è stato sancito dal dritto internazionale solo per la prima volta nel XX secolo” (Glanville, 2013). Anche al di là degli accordi di Westfalia, si può notare che la filosofia giuridica del XVII secolo stava concettualizzando il “diritto di superiorità”, il “diritto di conquista” e parlava ancora di “schiavi” come nozione giuridica (Grotius, 2001). Insomma, il concetto di Westfalia era una sorta di “idea tipo che sta diventando una specie di caricatura” (Schmidt, 2011). In realtà, la sovranità territoriale e il non intervento negli affari degli altri Stati, come principi normativi universali, sono stati possibili solo nel secondo dopoguerra, dopo un periodo di gestazione di quasi trent'anni prima, caratterizzato da un'accanita richiesta di “pace internazionale”. Questa potrebbe essere l'unica somiglianza plausibile, anche se formale, con Westfalia, come disse Churchill (Ragnolini, 2018).

 

Dopo la Prima guerra mondiale, abbiamo assistito all'avvio di un processo che ha permesso l'emergere dei due presupposti per la nascita della sovranità territoriale come norma universalmente dominante, ovvero l'autodeterminazione, da un lato, e l'uguaglianza razziale, dall'altro. Da un punto di vista storico, infatti, prima della Prima guerra mondiale la storia del mondo era una storia di imperi. Anche se “l'accordo di pace permise agli imperi vincitori di espandere i loro domini come mai prima, segnò anche l'inizio della fine dell'ordine mondiale imperiale”. Il 1919 segna chiaramente una rottura piuttosto che una continuazione del 1648. Con la fine della guerra, il principio dell'autodeterminazione, difeso dagli Stati Uniti e dalla nascente Unione Sovietica, aveva prevalso e ispirato i movimenti di liberazione in tutto il mondo. Questo principio sarebbe stato poi confermato dalla Carta delle Nazioni Unite nel 1945 e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nel 1948.

 

Fino alle Rivoluzioni francese e americana, nella seconda metà del XVIII secolo, la sovranità era principalmente un attributo dei Re, con “possedimenti” che non avevano limiti territoriali reali se non quelli consentiti dalle spade e dalla potenza di fuoco. Concentrandosi sui popoli, come unico potere sovrano, e grazie alla dimensione universale delle loro dichiarazioni fondanti, ovvero la Dichiarazione d'indipendenza americana e la Déclaration universelle des Droits de l'Homme et du Citoyen francese (Paine, 1776: 1, 5; Oppenheim, 1905: 108), entrambe le rivoluzioni avrebbero potuto aprire la strada a un principio universale di sovranità territoriale, considerato come un diritto fondamentale per ogni “nazione”. Ma una critica legittima potrebbe essere mossa, a questo proposito, alle Rivoluzioni americana e francese, data la contraddizione tra l'annunciata universalità dei loro principi e l'impegno di Francia e Stati Uniti nelle avventure coloniali, nella schiavitù e nella segregazione razziale, anche se in modi diversi.

 

Vale la pena notare che il principio dell'uguaglianza razziale non è stato accettato dalla Società delle Nazioni (Shimazu, 1995: 311) e solo alla fine della Seconda guerra mondiale è diventato una norma dominante, sia dal punto di vista morale che giuridico. Inoltre, prima della seconda guerra mondiale, il diritto internazionale faceva ancora una distinzione tra nazioni “civilizzate” e “selvagge” o “non civilizzate”, “cristiane e non cristiane” (Twiss, 1875:15-16, Westlake, 1904:120, Oppenheim, 1905:31, Bonfils, 1914:21, Fauchille, 1923:67-68). Poiché la sovranità, come norma, non può essere stabilita senza il diritto all'autodeterminazione e il principio di uguaglianza razziale, si può affermare che la sovranità, come norma universale, è un fenomeno del secondo dopoguerra.

 

Il sistema statale moderno, emerso dopo la Seconda guerra mondiale, è nato da un'esperienza storica senza precedenti, in cui la comunità internazionale ha raggiunto quasi i limiti assoluti della guerra (armi nucleari), della sofferenza (omicidi di massa) e delle perdite (un livello storicamente elevato di morti). L'originalità del sistema ha probabilmente più a che fare con quell'esperienza che con la volontà o i valori di una singola nazione, o di un gruppo di nazioni. La sorta di “Santa Alleanza” dichiarata, all'epoca, tra gli Stati liberali occidentali, quelli comunisti e i movimenti di liberazione nazionale di tutto il mondo, fu un chiaro segnale in questo senso. Il risultato fu la nascita del primo vero sistema statale con un grado di “sistematicità” più elevato, in una scala senza precedenti nella storia. Pertanto, chiamare un qualsiasi fenomeno precedente “sistema statale internazionale” sarebbe quasi un abuso di parole. Qui mi riferisco a un “sistema” piuttosto che a un “ordine”, perché intendo quest'ultimo come “le condizioni minime di coesistenza” secondo la definizione di Aron (McKeil, 2023).

 

Per “sistema” intendo un insieme di elementi (in questo caso gli Stati) come parti di un tutto, che rappresenta un meccanismo o una rete di interconnessione, funzionante e organizzato secondo determinati principi (norme). Il sistema internazionale del secondo dopoguerra non solo era aperto a tutti gli Stati, sulla base della pari sovranità come norma, ma stabiliva anche principi coerenti. La Carta delle Nazioni Unite, adottata e ratificata da un'ampia maggioranza di Stati, ha fondato la prima istituzione politica internazionale universale, interculturale e comune. Una sorta di carta del club globale di una società aperta per tutti gli Stati. L'esperienza della comunità internazionale dal secondo dopoguerra in poi è stata il frutto dell'incontro di diverse culture e sistemi di pensiero, e rappresenta l'inizio di una sorta di governance globale - nonostante tutte le possibili imperfezioni, sia nella struttura che nel funzionamento. Ciononostante, tutte le attuali critiche a tale sistema, in particolare all'ONU, mirano piuttosto a una riforma che a una dissoluzione o a un'alternativa radicale. Finora nessuno Stato ha deciso di lasciare il club.

 

Il sistema statale moderno, nato nel secondo dopoguerra, si basa essenzialmente su cinque pilastri normativi, che lo distinguono dalla sua “preistoria”. Il primo pilastro è l'universalità e il multilateralismo: nel senso di superare tutti i confini politici, geografici e culturali, includendo tutte le entità statali del mondo, secondo il principio della pari sovranità, come norma universalmente accettata. Ciò è stato possibile trascendendo le segregazioni razziali, culturali o religiose che prevalevano prima di allora. Tutti i precedenti sistemi di aggregazione internazionale erano regionali o avevano solo intenzioni universalistiche, come la Società delle Nazioni. Infatti, anche all'inizio del XX secolo, la visione mainstream del diritto internazionale si basava su presupposti che indicavano, ad esempio, che “l'attuale sistema statale del mondo civilizzato” o “la società internazionale... è composta da tutti gli Stati di sangue europeo, cioè da tutti gli Stati europei e americani tranne la Turchia, e dal Giappone” (Westlake, 1904: 40, 44).

 

Il secondo pilastro è la governance globale e completa: questa includeva una dimensione politica, attraverso un serio tentativo di superare il paradigma dell'equilibrio di potenza, con l'adozione della sicurezza collettiva. Il sistema non era un semplice accordo, ma una sorta di governance globale, intesa (almeno all'inizio) addirittura come governo mondiale (Weiss, 2009). Comprende anche dimensioni giudiziarie, sociali ed economiche, alla ricerca di giustizia e sviluppo globali. Sia dal punto di vista delle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, sia da una visione più ambiziosa, come quella del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni tecniche dell'ONU, è emersa una percezione radicalmente nuova dello sviluppo economico con una pretesa globalista.

 

Il terzo pilastro è la centralità dei diritti umani: individuali e collettivi, anche con interpretazioni diverse se non conflittuali. È forse necessario sottolineare la polifonia e l'ambivalenza dei diritti umani, che possono essere considerati, almeno secondo una visione semplicistica, “uno strumento inequivocabile di emancipazione postcoloniale o il cavallo di Troia della dominazione occidentale” (Berger, 2023). La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 è stata in effetti l'inizio di un processo di allargamento degli accordi internazionali sui diritti umani che coprono diversi aspetti e meccanismi di applicazione. Inoltre, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo annunciava all'articolo 28 che “ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale in cui i diritti e le libertà enunciati nella presente dichiarazione possano essere pienamente realizzati”.

 

Il quarto pilastro è la laicità: probabilmente piuttosto de facto, basata su una tacita accettazione universale dei principi interculturali sottostanti dei diritti umani e dell'autodeterminazione. Questa caratteristica potrebbe essere stata sottovalutata, sebbene un tema come l'identità religiosa fosse ancora delicato e difficile da accettare solo pochi decenni prima. Anche all'inizio del XX secolo troviamo nel diritto internazionale affermazioni come: “Dubbia è la posizione degli Stati non cristiani... La loro civiltà è essenzialmente diversa da quella degli Stati cristiani, tanto che i rapporti internazionali con essi, dello stesso tipo di quelli tra Stati cristiani, sono stati finora impossibili” (Oppenheim, 1905: 148). Per non parlare del XIX secolo, ad esempio, con il Congresso di Vienna del 1815 segnato da una coalizione cristiana, che predicava apertamente una visione cristiana del mondo, cercando di fondare il diritto internazionale su principi cristiani (Bonfils, 1914: 7-8).

 

Il quinto e ultimo pilastro è il predominio normativo della pace: attraverso l'abolizione giuridica delle guerre aggressive e la promozione della risoluzione pacifica dei conflitti (Capitolo I, articolo 1, della Carta delle Nazioni Unite). Questo principio si basa su un'affermazione piuttosto forte nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite, che invoca di salvare “le generazioni successive dal flagello della guerra”. Questa potrebbe essere considerata una versione secolarizzata della “salvezza” predicata da molte religioni. La pace nel mondo è diventata una nozione sia giuridica che politica (Carta delle Nazioni Unite, articoli 1 e 2), con un organismo internazionale riconosciuto a cui è stata assegnata una missione speciale, ovvero la conservazione e il mantenimento della pace (Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite). Vale la pena notare, a questo proposito, che nonostante tutti i conflitti armati, nessuno Stato al mondo rivendica il diritto di dichiarare guerra. Le guerre, anche se aggressive, sono condotte in base al diritto di autodifesa. Al di là delle polemiche, l'ONU svolge un ruolo importante nel sistema internazionale moderno in generale (Westra, 2010), almeno come punto di riferimento.

 

I cinque pilastri di cui sopra illustrano quella che io chiamo la sistematicità del sistema statale internazionale. Si possono disegnare all'interno di una piramide che ha come base l'universalità e la pace. Si potrebbe leggere come segue: il “club” dello Stato universale, che cerca la pace come obiettivo finale, attraverso una governance globale e completa, con i diritti umani e la laicità come cornice. Questa sistematicità costituisce la cornice, anche se lasca e morbida, tuttavia più pronunciata della percezione kantiana della condizione “civile”; intesa a superare il cosiddetto stato di natura tra gli Stati (Burles, 2023).

 

Il sistema statale internazionale nato dopo la seconda guerra mondiale ha ricevuto un battesimo del fuoco, simile a un sacrificio umano a una divinità senza nome. Questo sacrificio comprendeva europei, americani, ma anche milioni di africani e asiatici provenienti dalle colonie, con diversi background culturali e religiosi. Tra i milioni di morti c'erano anche molti provenienti da nazioni con governi non liberali che hanno giocato un ruolo importante nel plasmare il sistema internazionale emergente. Questo è ciò che definirei “l'eloquenza del sangue” come fattore decisivo. Questo aspetto non riceve l'attenzione che merita, anche da parte dei difensori delle prospettive del Sud globale in RI (Benabdallah, Murillo-Zamora, Adetula, 2017). Inoltre, la decolonizzazione è stata un fenomeno importante sia per mettere in discussione “le affermazioni sulla natura pacifica delle democrazie liberali occidentali” (Acharya, 2014), sia per dare una nuova dimensione agli studi sulle relazioni internazionali (Jouve, 1992: 19).

 

È importante notare che una delle norme principali del sistema internazionale moderno, il principio di autodeterminazione, è stato sentito prima dei famosi quattordici punti di Woodrow Wilson nei dibattiti sugli obiettivi di guerra dei bolscevichi russi a metà del 1917. Inoltre, alcuni analisti sottolineano il fatto “che gli Stati Uniti sono considerati una democrazia liberale fin dalla loro nascita, nonostante una lunga storia di schiavitù e segregazione razziale. Tali caratteristiche squalificherebbero qualsiasi Paese che si dichiari oggi una democrazia” (Reinert, 2020). Negli ultimi anni, gli Stati Uniti si stanno ancora opponendo a uno dei principali progressi dell'ordine internazionale: la Corte penale internazionale (Zvobgo, 2019). Ciò riflette la realtà che gli Stati Uniti, in quanto superpotenza, non sempre rispettano l'“ordine liberale” - soprattutto considerando l'invasione dell'Iraq nel 2003.

 

Al di là delle polemiche, sappiamo che ogni Paese, cultura o gruppo regionale è tentato di esagerare il proprio ruolo per autostima, come sottolineato da Herder, da una prospettiva antropologica (Hahn, 2005: 13). Può essere facile valutare il contributo finanziario degli Stati nelle organizzazioni internazionali, ma rimane complicato determinare la “percentuale” della quota di ogni Stato ai Diritti Umani o al sistema statale internazionale in generale. Tuttavia, questo sistema internazionale è compatibile con l'anarchia, come sostiene la dottrina dominante dell'RI? Una risposta semplice a questa domanda potrebbe essere trovata nel significato dato all'“ordine liberale internazionale” da alcuni studiosi che esprimono la visione dominante (Ikenberry, 2018). “Liberale”, secondo questa percezione, suona come una formulazione educata e sofisticata di Pax Americana - con una discreta componente di impero. Tuttavia, in questo caso l'ordine internazionale sarebbe gerarchico, anche quando si sostiene il contrario. Contro queste teorie, si può sottolineare il ruolo delle dinamiche di dialogo, negoziazione e socializzazione (Johnston, 2001) che hanno portato a contributi sostanziali di diversi Stati e regioni. Inoltre, l'approccio relazionale ha mostrato le dinamiche di interazione e riconoscimento nelle RI (Duque, 2018; Weber, 2020). Ad esempio, la Cina, (paradossalmente) insieme ad altri partner del Sud globale, si sta posizionando come difensore del libero scambio e della globalizzazione (Guillén, 2017) - questo costituisce una sfida a uno dei dogmi del pensiero liberale occidentale attraverso l'abbraccio della Cina al capitalismo, pur mantenendo il dominio centralizzato del suo partito comunista.

 

È tempo di andare oltre questa “schizofrenia paranoica”. La percezione dominante in RI sostiene che i governi sono, allo stesso tempo, civici all'interno e egoisti e paranoici di fronte agli altri governi. Questa sarebbe una delle conseguenze del considerare l'anarchia come “uno degli assunti fondamentali della disciplina delle relazioni internazionali” (Lake, 2010). Ciò significa che “in un mondo di auto-aiuto, gli Stati auto-interessati agiscono per assicurare la propria sopravvivenza o periscono” (Weber, 1997). Anche dal punto di vista dello stato di natura, non c'è motivo di accettare l'anarchia come destino. Se l'anarchia si basa sull'idea che ogni Stato debba occuparsi della propria sicurezza o sopravvivenza a causa della minaccia di altri Stati, sembra che tale visione del mondo non sia sufficiente a rendere conto del sistema statale internazionale dal 1945. La storia delle relazioni internazionali dal 1945 è un accumulo di minacce esistenziali globali che minacciano di distruggere la vita sulla terra, compreso il cosiddetto sistema anarchico. Dalle armi nucleari al cambiamento climatico, dalle pandemie all'intelligenza artificiale. Incorporando tali questioni, l'RI è di conseguenza più che lo studio degli Stati all'interno di uno stato di natura, dove ogni entità cerca i propri interessi e la propria sicurezza all'interno di un sistema comprensibile solo attraverso modelli statalisti astratti.

 

Gli eccessi del ragionamento speculativo, l'esagerata autostima (per non parlare dell'eurocentrismo) o i fatti storici trascurati, hanno portato a trascurare l'originalità del moderno sistema statale internazionale nato dopo il 1945. Il XX secolo ha rappresentato una rottura, o un punto di snodo. Non è stato una continuazione o un'appendice della storia occidentale e non è stato un semplice allargamento del “club europeo”. Al di là delle critiche a Westfalia, oggi documentate in molti lavori scientifici, questo articolo ha cercato di illustrare l'originalità del moderno sistema statale internazionale e la sua unicità per alcuni aspetti. La nascita del sistema statale moderno rappresenta l'inizio del primo processo universale di socializzazione degli Stati (se non di “civilizzazione” condivisa), all'interno di un club globale che cerca una sorta di inevitabile governance interattiva. Mentre questo processo si svolge, le sfide e le opportunità che ci attendono, soprattutto le minacce esistenziali globali, possono spingere verso una nuova percezione universale delle RI.

 

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Traduzione a cura di Costantino Ceoldo

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