Morti resuscitati e favori, l'istituto di medicina legale di Padova nella bufera

Morti resuscitati e favori, l'istituto di medicina legale di Padova nella bufera

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di Andrea Tornago 

L'Espresso, 31 marzo 2019

 E poi provette sparite, cocainomani assolti, possibili conflitti d'interesse. Sotto accusa l'istituto di autopsie e analisi cliniche più famoso d'Italia. Perizie contestate, vivi fatti passare per morti, analisi fantasma per restituire la patente a cocainomani, pacemaker spariti. L'istituto di medicina legale di Padova, punto di riferimento per le autopsie e le consulenze tecniche di procure e tribunali di mezza Italia, sta precipitando in un vortice di scandali e inchieste giudiziarie.

Da più di un anno la scuola di medicina forense, fiore all'occhiello della città del Santo, è nominata con imbarazzo negli uffici della procura di Padova, che con i medici legali e i tossicologi dell'università che fu di Galileo lavora a braccetto da sempre. Il direttore della medicina legale, Massimo Montisci, è indagato dai pm veneti con l'accusa di aver aggiustato gli esami che avrebbero consentito a due imprenditori, risultati positivi alla cocaina, di riottenere la patente.

Le perquisizioni sono scattate il 18 luglio scorso, pochi giorni dopo una segnalazione proveniente dall'interno dell'istituto: nel registro informatico in cui vengono inseriti i risultati dei test di controllo - cruciali per la commissione patenti, chiamata a decidere se riammettere gli automobilisti alla guida oppure no - i due imprenditori risultano puliti, ma non c'è traccia dei certificati delle loro analisi. E non si trovano neppure i campioni delle urine e dei capelli che dovrebbero essere conservati nel laboratorio.

Gli inquirenti sequestrano i registri e i computer della tossicologia forense e scoprono che, per i due presunti consumatori di cocaina, è stata utilizzata una procedura speciale, in grado di sfuggire a ogni verifica e agli standard di tracciabilità. L'accusa ipotizza uno stratagemma degno di un racconto noir: quelle analisi sarebbero transitate sul canale parallelo, utilizzato per gli esami sui cadaveri, dove la semplice sigla "dec" ("deceduti"), inserita accanto ai nomi degli interessati, era in grado di tenere riservati i relativi certificati e referti medici.

Sbagli, cantonate, fino ai casi limite di "esperti" reclutati da avvocati e criminali grazie a un sistema senza controlli. Diverse indagini portano alla luce il lato oscuro delle consulenze ai tribunali

Il sostituto procuratore Silvia Golin contesta a Montisci il reato di falso ideologico, in concorso con il chimico che dirige il laboratorio, Emanuele Nalesso, una specializzanda, un medico legale esterno all'istituto e i due imprenditori che avrebbero beneficiato dei referti ritenuti falsi: l'albergatore Rocco Sbirziola ed Edoardo Urschitz, titolare di un'agenzia infortunistica. Mentre si attendono i risultati della nuova perizia giudiziaria (il cosiddetto incidente probatorio), gli inquirenti stanno verificando tutti gli altri campioni sequestrati nel laboratorio, per capire se il presunto trucco dei "morti viventi" sia stato utilizzato anche in altri casi. Le indagini si profilano lunghe e difficili, dato che in Italia non esiste un registro nazionale, un'anagrafe centrale, per cui gli accertamenti devono essere ripetuti caso per caso.

Nonostante queste accuse, nei confronti dei medici coinvolti non è stato adottato alcun provvedimento. Anzi, il chimico incriminato, dopo quattro mesi di sospensione dal lavoro ordinata dal giudice che ha confermato l'accusa di falso, non solo è tornato in servizio, ma è stato promosso: il direttore Montisci, cioè il principale indagato, gli ha affidato l'incarico di responsabile della qualità del dipartimento di medicina legale. Lo stesso professor Montisci, però, da più di un anno è escluso dalle perizie giudiziarie.

"Il professore è indagato in questa procura, quindi non gli affidiamo consulenze tecniche", spiega il procuratore reggente di Padova, Valeria Sanzari, che precisa: "Con gli altri medici dell'istituto il rapporto può invece continuare, in quanto i sostituti procuratori sono liberi di scegliere il consulente di propria fiducia". A palazzo di giustizia però l'imbarazzo è generale. Non era mai successo che i magistrati potessero dubitare della medicina legale di Padova, da sempre simbolo di serietà scientifica.

Nel caso che in Veneto ha fatto più rumore, per altro, il professor Montisci non è indagato. È il 13 settembre 2016 quando un signore di 73 anni, Cesare Tiveron, muore in un incidente in moto, schiantandosi contro un'auto di fronte al centro oncologico veneto, a Padova. La Fiat Bravo che ha invaso la sua corsia non è una vettura qualunque: è un'auto blu della Regione. E sul sedile posteriore siede il massimo dirigente della sanità veneta, Domenico Mantoan, l'uomo che amministra più di nove miliardi di euro all'anno del bilancio regionale. In Veneto, come nel resto d'Italia, gran parte della spesa regionale si concentra proprio nella sanità.

Il caso è talmente delicato che il professor Montisci decide di effettuare personalmente l'autopsia, presentandosi al posto del medico legale di turno. Dieci mesi dopo, deposita una perizia che sostiene una tesi sorprendente: il motociclista sarebbe morto per "una causa patologica naturale", una rottura dell'aorta verificatasi un istante prima dell'impatto. Al momento dell'incidente, insomma, era già morto. Da pochissimo, però, visto che ha manovrato la moto fino all'ultimo. Nessuna responsabilità, dunque, per l'autista della Regione.

La famiglia della vittima non accetta il verdetto e segnala un possibile conflitto di interessi: Mantoan, cioè il dirigente trasportato dall'autista indagato, è il capo della sanità veneta, quindi è anche il superiore di Montisci, che lavora per l'azienda ospedaliera pubblica. Quindi la famiglia chiede nuovi esami a tre consulenti di fama: il medico legale Antonello Cirnelli, il professor Daniele Rodriguez, ex professore ordinario della materia, e il cardiopatologo Gaetano Thiene. La squadra di esperti riesce a convincere il pubblico ministero Cristina Gava a ignorare la ricostruzione del consulente della procura stessa.

E a chiedere il rinvio a giudizio dell'autista, Giorgio Angelo Faccini, con l'accusa di omicidio stradale. In particolare, secondo il professor Thiene, considerato un gigante della cardiopatologia, la morte del motociclista è "da ricondurre con certezza, oltre ogni ragionevole dubbio" proprio all'incidente. Mentre il quadro disegnato da Montisci sarebbe "fantasioso, illogico e pressoché impossibile sul piano probabilistico".

Ora il caso giudiziario è nella fase dell'udienza preliminare, davanti al giudice Elena Lazzarin. Che ovviamente ha nominato un nuovo collegio di esperti, chiamati a rivalutare le cause della morte e orientare la giustizia in una battaglia di perizie mai vista prima per un incidente stradale. A confrontarsi sul caso, infatti, sono ormai più di dieci consulenti, tra periti del tribunale, della famiglia Tiveron e delle assicurazioni.

I quesiti formulati dal giudice ai propri esperti di fiducia, Carlo Vosa e Domenico Tarsitano, docenti dell'università Federico II di Napoli, confermano che questo procedimento penale si è trasformato in una sorta di "perizia sulla perizia": al centro dei nuovi esami c'è proprio la rivalutazione dell'operato di Montisci. Ai nuovi periti, infatti, viene richiesto anche di accertare la "catena di custodia" del materiale analizzato e di capire quali misure siano state previste per evitare rischi di manipolazioni, sostituzioni di campioni e alterazioni. Il giudice chiede pure di verificare la presenza fisica e l'effettivo utilizzo dei macchinari descritti nella relazione di Montisci, che secondo diverse fonti consultate dall'Espresso non risulterebbero in dotazione all'istituto di Padova.

La nuova perizia dovrà controllare anche il pacemaker del motociclista, che i consulenti della famiglia avevano richiesto, per effettuare esami importanti: quel dispositivo è in grado di registrare fino all'ultimo il funzionamento del cuore di Cesare Tiveron. Il pacemaker però non è stato messo a disposizione dei familiari. Ed è stato poi ritrovato in circostanze particolari. Nel luglio 2018, durante la perquisizione nello studio di Montisci all'istituto (per la vicenda delle analisi per la commissione patenti) gli inquirenti trovano quel pacemaker in una borsa di pelle marrone: è l'unico apparecchio di quel tipo conservato dal professore a distanza di più di un anno dal deposito della perizia.

A complicare il quadro s'innestano i rapporti accademici. Quando viene incaricato dell'autopsia su Tiveron, il 19 settembre 2016, Montisci non è ancora al vertice dell'istituto di Padova, fino ad allora diretto dal professor Santo Davide Ferrara, che è anche presidente dell'International academy of legal medicine. In quei mesi Ferrara, oltre ad essere il superiore di Montisci, è anche consulente di parte dell'autista, indagato, del dirigente regionale Mantoan.

Nei mesi seguenti, mentre procedono gli esami sull'incidente, è una commissione presieduta proprio dal professor Ferrara a promuovere Montisci al ruolo di professore ordinario: carica assegnata il 27 giugno 2017, una settimana prima del deposito della perizia sul caso Tiveron. Si tratta di rapporti assolutamente leciti, ma che non rasserenano i familiari della vittima.

"In quel mese ero un direttore in scadenza - spiega oggi all'Espresso il professor Ferrara - e con la fine di settembre e dell'anno accademico sarei decaduto in via definitiva. Non vedo alcun profilo di inopportunità: il problema ci sarebbe se un perito fosse condizionabile, ma non è così perché deve rispondere solo alla scienza, basata sull'evidenza e sull'accertamento della verità, che è una".

Il professor Montisci respinge tutte le accuse, ma non rilascia commenti, perché preferisce far valere le proprie ragioni solo in sede giudiziaria.

Fuori dal Veneto, intanto, il direttore dell'istituto padovano viene raggiunto, il 20 febbraio scorso, da una nuova denuncia. Anche a Ferrara, infatti, una consulenza effettuata da Montisci su richiesta di un pm emiliano viene contestata dai familiari di una vittima. Si tratta di Giuliano Catozzi, morto nell'agosto 2015 all'ospedale di Ferrara dopo aver contratto durante un ricovero una polmonite da legionella. Secondo i suoi parenti, assistiti dal Comitato vittime della pubblica amministrazione, la perizia di Montisci conterrebbe gravi incongruenze. E le conclusioni che scagionano i medici e i dirigenti dell'ospedale ferrarese non sarebbero conseguenti alle argomentazioni esposte.

Il problema più vistoso è che in alcuni passaggi della consulenza c'è il nome di un altro paziente, deceduto a Sarzana nel settembre 2015, sempre per legionellosi, dopo un soggiorno in un albergo di Abano Terme. Una morte di cui si era occupato, da consulente della procura di Padova, sempre il professor Montisci. L'Espresso ha confrontato le due perizie: in diversi punti, in particolare nelle conclusioni, risultano quasi identiche. Su questa nuova denuncia ora indaga la Procura di Ferrara.

Il caso di Padova, purtroppo, non è isolato. Nel marzo 2018 la direttrice dell'istituto di medicina legale di Imperia, Simona Del Vecchio, è stata condannata a sei anni e mezzo, in primo grado, per falso, truffa e peculato. Secondo l'accusa, avrebbe firmato 46 certificati necroscopici senza esaminare i cadaveri e avrebbe inserito false cause di morte in un certificato per l'Istat. La dottoressa Del Vecchio respinge ogni addebito: il processo d'appello si aprirà in aprile.

L'inchiesta ha fatto scalpore anche perché la specialista ligure si è occupata di storici misteri italiani, dal decesso del colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato impiccato a un portasciugamani a un metro da terra nella sua casa all'Eur, al caso dell'ufficiale di marina Natale De Grazia, morto mentre indagava sulle navi dei veleni. Inchieste archiviate negli anni Novanta in base alle perizie medico-legali.

Il problema delle consulenze tecniche è drammatico soprattutto nei processi di mafia. Da Palermo a Napoli, da Milano a Reggio Calabria, molte indagini hanno svelato storie di killer e boss mafiosi scarcerati grazie a false perizie sanitarie. A Roma l'avvocato Marco Cavaliere è stato arrestato e condannato in primo grado, prima di morire nel 2015, come grande corruttore di una rete di medici che nei processi d'appello, quando l'attenzione dei media è minore, certificavano finte malattie per far rilasciare i criminali. Tra i presunti beneficiari, spiccano Michele Senese e Carmine Fasciani: due dei quattro "re di Roma" smascherati da un'inchiesta dell'Espresso sulla criminalità della capitale.


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