Mario Tronti - Karl und Carl

Mario Tronti - Karl und Carl


Mario Tronti, 24 luglio 1931 -

Da Karl und Carl (1998), in Il Demone della Politica. Antologia di Scritti 1958-2015, Il Mulino, 2017

«Stammi a sentire, Jacob […], devi ammettere che se hai imparato qualcosa da qualcuno, questi è proprio Schmitt». Affermazione da mettere accanto al racconto di quando, dopo una passeggiata nei dintorni di Plettenberg, rientrati in casa, davanti a una tazza di tè, Schmitt gli disse: «Ora, Taubes, leggiamo Romani, 9-11». Lo stesso Taubes ci ha dato la formula definitiva del corretto rapporto con Carl Schmitt: Gegenstrebige Fügung. L’amico Jacob (1923-1987), il rabbino tedesco esiliato, disposto a dire, non disposto a scrivere. Nelle pieghe del Novecento, sta nascosta l’esistenza miracolosa di questi personaggi invisibili. Presenze rarissime e realissime. Li incontri nei libri, fratelli in spirito, come vecchie naturali conoscenze destinate. Ormai il valore sta solo in questa oscurità, separatezza, riservatezza, rifiuto comparire, da parte di esistenze solitarie. Quello che non fu possibile allora, nel secolo dei grandi contrasti, è diventato necessario oggi, negli anni e mesi e giorni delle piccole confusioni. Quando scopri che Taubes dice di Schmitt: è un apocalittico della controrivoluzione, per dire di sé: sono un apocalittico della rivoluzione, allora vedi che è stato centrato il bersaglio del problema con la freccia del pensiero.

"La scienza dell’apocalittica comporta un atteggiamento passivo rispetto agli accadimenti della storia. Qualsiasi attivo operare viene meno. Il destino della storia universale è predeterminato, e non ha senso cercare di resistergli. Lo stile apocalittico utilizza prevalentemente il passivo. Nelle apocalissi non «agisce» nessuno, piuttosto tutto «accade» […]. Lo stile dell’apocalittica, che ricorre anche in Karl Marx, si fonda sulla scarsa fiducia riposta nell’uomo. Il lungo periodo di sventure, le ripetute delusioni, lo schiacciante potere del male, l’enorme colosso del regno demoniaco mondano, nell’apocalittica farebbero perdere la speranza nella salvezza, se questa dipendesse dalla volontà e dal piacimento degli uomini. Solo in questo senso, all’interno della struttura concettuale dell’apocalittica marxista si può parlare di un «determinismo» per lo più misconosciuto. Anche Marx vede agire nella storia delle forze superiori, su cui l’individuo non può influire in alcun modo e, utilizzando la veste mitologica del suo tempo, le definisce «forze produttive»."

Un modo originale, veramente, di leggere Marx. A quel punto, dopo due guerre mondiali, dopo l’Olocausto e la Bomba, aveva le sue ragioni. Le ha ancora oggi? L’orizzonte dell’opera di Marx, rivisto nella politica del Novecento, ha subito una catastrofe apocalittica. Non bisogna lasciarsi deviare dalle movenze farsesche con cui si è realizzato il crollo del socialismo. Il tragico di quella storia era degli inizi, e degli sviluppi, una disperata lotta antideterministica contro l’immane potenza di forze produttive, mitologicamente evocate dal profondo di processi umanamente incontrollabili. Qui sta la decisiva ragione ultima dell’incontro, impossibile e necessario, tra Marx e Schmitt. Ambedue vedono ergersi di fronte la forza inattaccabile di una ragione storica nemica e cercano i mezzi del conflitto con essa a quell’altezza. Quanto più dall’analisi realistica della situazione d’epoca ricavano la grandezza tragica del compito, tanto più sono costretti a radicalizzare gli estremi della decisione politica. Due forme di pensiero agonico, «polemico»: non solo l’azione pratica ma la ricerca teorica come guerra. Due punti di vista da posizioni opposte, a fini diversi, con il medesimo metodo, contro lo stesso problema: capitalismo-modernità, la storia che lo porta, la politica che lo contrasta. Prometeo l’uno, Epimeteo l’altro. Poi, c’è Ottocento e Novecento. Dietro Marx, Hegel, dietro Schmitt, Weber. Marx è il Weber del proletariato, altrettanto come Weber è il Marx della borghesia. E di Weber, ha detto Taubes che è la sintesi di Marx e Nietzsche. Ecco, da questa sintesi bisogna ripartire. Entro questo quadrilatero intellettuale otto-novecentesco e tutto Germania, Marx-Nietzsche-Weber-Schmitt, sta Ein feste Burg ist unser Gott, per dirla con i Corali 302 e 303 BWV. Dall’alto di queste mura, respingere l’attacco delle aliene intelligenze artificiali del 2001.
Con Carl Schmitt: in divergente accordo. Con Karl Marx in convergente disaccordo. Questo è l’interno sentire del teorico della politica, figlio del movimento operaio, a fine Novecento, dopo la sconfitta della rivoluzione. Tra Marx e Schmitt, un rapporto di naturale storica complementarità. Nel Novecento non è possibile leggere politicamente Marx senza Schmitt. Ma leggere Schmitt senza Marx è storicamente impossibile, perché Schmitt senza Marx non esisterebbe.
«Egli era antibolscevico – dice Taubes – […]. Avrebbe potuto essere leninista, ma aveva la stoffa per diventare l’unico antileninista di rilievo». Lo è diventato solo nel pensiero.
Diventare qualcosa di politico solo nel pensiero è destino non solo suo. Marx e Schmitt, insieme, ci hanno ridato das Kriterium des Politischen, dal momento che quel criterio, dopo Lenin, si era a poco a poco perduto. Insieme infatti fanno il nuovo nome dell’amico-nemico. Il nostro Marx solo contra hostem è sopravvissuto nel secolo. Ha avuto bisogno di questo nuovo nemico pubblico per scoprire quello che nell’Ottocento non poteva essere scoperto: l’autonomia del politico. Il Novecento è la politica realizzata, politica moderna giunta a compimento, senza più possibilità di un oltre a partire da sé. Forse solo il movimento operaio, andando oltre se stesso, custode della propria eredità di lotte e di organizzazione, avrebbe potuto portare con sé, in salvo dalle potenze della storia, la politica. Ci voleva un’altrettale potenza sociale, dotata di pensiero strategico e di forza materiale. Solo nel sociale sta la possibilità della continuità. Le classi che muoiono non si estinguono mai del tutto. Radici che affondano nei secoli non si tagliano nei giorni e negli anni. L’aristocrazia, a suo modo, è sopravvissuta al capitalismo. E in Inghilterra, un tempo la madre, oggi la nonna, del moderno, ha fatto, come ci hanno insegnato autorevoli studi, essa aristocrazia, politicamente le rivoluzioni borghesi. La giovane borghesia, in quanto depositaria dello spirito del capitalismo nell’animo umano, non è stata da meno: è bastato che avesse messo deboli radici in antichi paesi, per resistere con la sua ragione storica alle violenze della politica, e per dimostrare che non essa meritava di morire ma chi la uccideva. La politica invece è legata alla contingenza, all’occasione, al momento, al passaggio. La società è la storia lunga. La politica è la storia corta. Eppure la longue durée può essere interrotta o piegata o deviata dall’irruzione del salto nell’attimo del breve periodo. Questa è la forza della
politica, la sua soggettività-volontà, che è sempre un e un solo accadere irrazionale dentro le tante ragioni della storia. L’età delle guerre, del confronto diretto, del contrasto polare, del mondo diviso, della società divisa, della politica-conflitto ci ha costretto a fare i conti, a misurarci con il pensiero nemico, in un coinvolgimento emotivo che comprendeva appartenenza e rifiuti, esclusioni e scambi. Una condizione, credo, inedita della ricerca intellettuale, comunque uno stato d’eccezione per la teoria politica. Chi non ha vissuto questo tempo manca di qualcosa. E non è il senso tragico della lotta
che farà difetto. Quello poi si acquisisce, per chi ha stoffa nell’animo, con le delusioni dell’esperienza. È piuttosto mancante quella forma di pensiero polemico, che ti ferma sulla contraddizione insoluta, a diretto e nudo contatto con l’inassorbibile polarità negativa, che alla fine diventa una parte di te contro cui devi combattere o con cui devi trattare. Marx nel Novecento ha incorporato dentro di sé Schmitt. Perché rivoluzione e controrivoluzione, apocalittica rivoluzionaria
e controrivoluzionaria, rivoluzione operaia e rivoluzione conservatrice, cioè la grande politica del Novecento, non solo ha occupato l’intero territorio delle opzioni possibili, radicalizzandole in scelte di vita, ma le ha a tal punto direttamente riferite l’una all’altra che ciò che stava in mezzo, la democrazia liberale, ha subito un giusto lungo periodo di
subalternità culturale. Il revisionismo storico, come tutte le posizioni coerentemente reazionarie, contiene un nucleo di verità, che va svelato. Doveva essere accompagnato da un revisionismo filosofico. Ma questo non poteva che venire da sinistra, come quello storico veniva naturalmente da destra. Il pensiero della politica ha avuto l’opportunità di rompere gli irrigiditi schemi ortodossi della tradizione marxista. L’operazione Marx-Schmitt era sostanzialmente questo. È mancato il coraggio sperimentale di assumerla per saggiarne le conseguenze pratiche. Il nodo problematico irrisolto è il rapporto con la modernità. Questo è il lascito di ricerca intellettuale che la storia del movimento operaio deposita sul terreno di possibili improbabili prospettive neorivoluzionarie. La modernità non è oggi soltanto, come volgarmente crede il senso comune d’epoca, una porta spalancata su un futuro virtuale. La modernità è anche accumulo di materiale del passato, civiltà sepolte, città cancellate, pietre disperse. Non
è solo innovazione avveniristica, è storia trascorsa. Viviamo una tarda modernità: dove la spinta del futuribile tecnologico convive con il bisogno di un’archeologia del moderno. Se non si riconosce questa ambiguità della modernità, il suo essere Welt von gestern oltre che future of the world, il rapporto con essa come problema non è stabilito. Il movimento operaio il problema lo aveva a suo modo affrontato e risolto: attraverso l’approccio marxista si era dichiarato parte del moderno, suo frutto e suo erede, in grado di utilizzare partigianamente il passaggio di storia a favore di un processo di emancipazione umana. Le sue lotte erano questo, questo volevano essere le sue forme di organizzazione, questo intendeva essere la presa del palazzo d’inverno russo, e la stessa costruzione del socialismo agli inizi. È questo progetto che è fallito. E con esso però anche l’idea dello sviluppo come progresso, questa ideologia antipolitica della modernità, oggi fatta propria dal capitalismo trionfante, che così ha raccolto dalla polvere le bandiere lasciate cadere dalla classe operaia. Dalla parte opposta la soluzione del problema veniva trovata nella demonizzazione del moderno, attraverso l’essenzializzazione della tecnica, dove cattolicesimo romano e metafisica della morte di Dio di stampo protestante si producevano in una santa alleanza contro il secolo. L’antimodernismo non fu quello delle soluzioni totalitarie. Queste furono piuttosto esplicita espressione di un pezzo d’anima e di una realtà strutturale della civiltà moderna. L’antimodernismo fu piuttosto quello delle culture che agli inizi sperarono in quelle soluzioni come armi decisive contro il loro nemico. Si spiega così l’adesione iniziale di figure intellettuali dal profilo aristocratico all’irruzione plebea, fascista e nazista. Progetto anche questo, come l’altro, fallito. Questo è il secolo del fallimento dei progetti di riforma intellettuale e morale, da qualunque parte siano venuti. La soluzione finale vincente è stata quella dei processi materialmente oggettivi: che siano stati demoniacamente totalitari o angelicamente democratici, a questo punto poco importa. La storia moderna alla fine ha vinto, perché il suo ambiguo doppio volto c’è stato, ma non è stato riconosciuto, ha funzionato per sé senza essere utilizzato per altro. La sconfitta è della politica, per non avere essa adattato la propria doppiezza all’ambiguità della modernità, praticando questa come terreno, oltre che combattendola come avversario. Questa disposizione a cogliere teoricamente il segno essenziale della doppia modernità, c’era separatamente, dimezzato, in Marx e in Schmitt. Ha ragione Carlo Galli a
riportare l’opera di Schmitt dall’occasionale contesto tedesco degli anni venti-trenta a una contestualizzazione epocale di genealogia della politica, di originarietà del politico moderno. Analogamente l’opera di Marx non è riconducibile al capitalismo manchesteriano inglese di metà Ottocento, essa investe piuttosto un orizzonte di genealogia dell’economia politica, di originarietà dell’economico moderno. La complementarità dei due impianti d’opera, essa sola, ci dà l’intera ambigua complessità della modernità. Insieme essi ci fanno leggere l’esito novecentesco, primo e secondo Novecento, riscrivendo il grande tema fondativo del moderno, conflitto e ordine, nella lingua del secolo che dice: la rivoluzione e le forme.

"La genealogia di Schmitt è un risalire o un ridiscendere all’origine della politica moderna. È infatti nei concetti e nelle istituzioni politiche specificamente moderne che Schmitt vede all’opera, come momenti originari, tanto la percezione del disordine radicale quanto la coazione alla produzione di ordine artificiale; tanto la contingenza quanto l’esigenza di forma."

Modernità «a due volti»: processo di secolarizzazione da un lato, punto di catastrofe, all’origine e alla fine, dall’altro.
Come per Marx: sviluppo capitalistico nel mezzo, ma all’inizio c’è la violenza dell’accumulazione originaria e al termine lo Zusammenbruch del sistema per insolubili contraddizioni fondamentali. Secondo Marx, del resto, la storia la fanno gli uomini, in condizioni ben determinate, gli uomini non l’uomo, cioè le classi, nelle lotte fra di loro, e i partiti come nomenclatura delle classi, e i governi come comitati d’affari delle classi.

"Per Schmitt, l’azione politica […] è solo del sovrano, il punto
nel quale il logos moderno, il pensiero strategico dell’ordine ra-
zionale, si concentra tanto intensamente da negarsi: dal singolo e
dalle sue strategie non c’è da aspettarsi che disordine o, comunque
sia, ineffettualità, mentre l’energia delle masse esige comunque di
essere messa in forma."

Restando tutte le differenze che Galli enumera, l’operazione Marx più Schmitt dà una somma di pensiero superiore al portato delle due imprese scientifiche accomunate tra l’altro da una sfortuna politica immediata, ovvero dall’abissale sproporzione tra contributo teorico e sperimentazione pratica. Ma negare l’affermazione di Niekisch, secondo cui «quella di Schmitt è la risposta borghese al concetto marxista di lotta
di classe» e affermare di contro che «quella di Schmitt è una reinterpretazione del conflitto di classe, all’interno di apparati categoriali radicalmente distanti da quelli marxiani», vuol dire che Karl und Carl solo insieme forse danno quell’«ermeneutica tragica del moderno», l’unica adeguata a dar conto oggi del passaggio di crisi d’epoca della lotta di classe. La crisi della ragione politica moderna è contestuale a questo. Schmitt incrocia un certo marxismo critico ed eretico del Novecento, tra Sorel e Benjamin, meno purtroppo quello del giovane Lukàcs e di Korsch, ma soprattutto si sente battere nelle sue opere di formazione il colpo d’ariete della presenza di Lenin.
Ed è bella la lettura di Carlo Galli da riportare per intero:

"Ciò che nel pensiero di Lenin ha affascinato Schmitt non è certo la prospettiva dell’estinzione della politica, che per Schmitt risente della moderna potenza della tecnica, quanto piuttosto il momento della rivoluzione e del comando politico proletario, di una forma politica che, malgrado tutto, viene a costituirsi proprio grazie all’estrema intensità polemica che sta alla sua origine; la dittatura del proletariato – il passaggio iperpolitico all’estinzione della politica – gli pare contenere (assai più della mediazione discorsiva borghese) un embrione della consapevolezza che la politica è connotata da un’intensità autonoma da ogni altro ambito dell’esistenza."

Il fatto che l’operaismo italiano degli anni sessanta abbia a sua volta incrociato negli anni settanta la presenza dell’opera di Schmitt ha quindi motivazioni più profonde di quelle che Galli gli attribuisce. Bisognerà tornare su questa vicenda intellettuale in altra sede. È vero che all’inizio ci fu l’ambizione pratica di carpire a Schmitt il segreto dell’autonomia del politico per consegnarlo, come arma offensiva, al partito della classe operaia. Ma questa fu l’ingenua occasione dell’incontro.
Et a hoste consilium voleva dire molto di più che distinguere tra forma rivoluzionaria e contenuti reazionari di un pensiero.
No, il rapporto da stabilire con Schmitt non voleva essere lo stesso di Marx a Hegel. Man mano che avanzava, contestuale, la crisi della lotta di classe e la crisi della politica moderna, e si evidenziavano i due processi – la fine del movimento operaio e la fine del politico moderno – il rapporto con Schmitt si stringeva, si intensificava, si interiorizzava. Il riconoscersi nel carattere schmittiano del «pensatore esistenziale, non esistenzialista», dove la contingenza, tanto meglio se tragica, diventa il Grund della decisione, tua e della tua parte, è stato un passaggio strategico di un percorso intellettuale, che veniva da lontano e mirava ad andare lontano. Il riconoscimento era, diventava, proprio quello dell’originarietà del politico, della «politica come potenza originaria», che ripeto implicava, in un rapporto tra l’altro bello, te stesso, la tua esistenza concreta e la vita storica della parte di mondo, di società, di pensiero, a cui sentivi di appartenere. Schmitt, «apocalittico dall’alto», era l’introiezione del nemico che disordinava le fila del modello scientifico marxiano, esattamente come Lenin con la sua «rivoluzione contro il Capitale», e ti costringeva a rimettere in gioco la tua presenza intellettuale, cercando disperatamente le tracce disperse di «un’apocalittica dal basso», guidata. Avventurieri del pensiero, certo. Sempre meglio che accademici del buon senso dominante.Ha scritto Schmitt: «Conquistare può solo colui che conosce la sua preda meglio di quanto questa conosca se stessa». Conoscere colui che si combatte meglio di quanto egli si conosca. È il modo non tanto per batterlo quanto per essere autonomo da esso. Introiettarlo, per non divenire ad esso subalterno. «Non parlare del nemico con leggerezza. Ci si classifica attraverso il proprio nemico». Non puntare ad annientarlo. «Ogni annientamento non è che un auto-
annientamento. Il nemico invece è l’Altro. Ricordati della grande proposizione del filosofo: il rapporto con se stessi
nell’Altro, questo è il vero infinito»19. Der Feind ist unsre eigne Frage als Gestalt: questa è la cifra di riconoscimento non solo del pensiero di Schmitt, ma anche di quello di Marx. Marx, che con lo strumento moderno delle lotte di classe scopriva le leggi di movimento del capitale. Schmitt, che contro il Behemoth delle guerre civili mondiali riscopriva la decisione politica del moderno Leviathan. Schmitt, anche se non conosceva l’intera opera di Marx, riconosceva l’essenza della posizione marxiana. Ad essa contrapponeva la sua posizione. Rivoluzione/controrivoluzione è il grande conflitto, la grande guerra d’epoca, che sta immediatamente dietro le nostre spalle, il passato non di un’illusione ma di una realtà. Illusione è la tranquillizzante idea che quello scontro non ci sia mai stato, o peggio, che non avrebbe dovuto esserci. Nel contesto, Marx rinviava in avanti, al nichilismo del Novecento, Schmitt rimandava indietro, al tradizionalismo dell’Ottocento. Due grandi stagioni anch’esse tra loro complementari. Ricche, non tanto di suggestioni per capire ciò che è stato, quanto di visioni del futuro che squarciano il nostro presente. Attraverso la filosofia dello Stato della controrivoluzione – de Maistre, Bonald, Donoso Cortés – Schmitt ha capito del Novecento, soprattutto dei suoi esiti, più della socialdemocrazia e della liberaldemocrazia messe insieme. La comprensione dell’opposto è il modo più profondo di autocomprensione. Cogliere l’altra posizione estrema serve per definire la radicalità della propria posizione. La radicalità serve per antivedere ciò che, molto oltre il proprio tempo, sta per venire. Donoso Cortés e Tocqueville – queste due esistenze straordinariamente compresenti sul campo di un passaggio cruciale della storia moderna, prima e dopo la guerra civile europea del 1848 – sulla traccia di Schmitt, andrebbero letti insieme. Due grandi anticipazioni, scagliate dall’Ottocento verso il Novecento, che da sole connotano la grandezza di due forme, contrapposte e complementari di pensiero politico. Quella con cui si conclude il Libro primo della Démocratie en Amérique (1835):

"Vi sono oggi sulla terra due grandi popoli che, partiti da punti differenti, sembrano avanzare verso lo stesso scopo: sono i Russi e gli Anglo-americani […]. Solo essi marciano con passo facile e rapido in una strada in cui l’occhio non può ancora scorgere il termine. L’americano lotta contro gli ostacoli che la natura gli oppone; il russo è alle prese con gli uomini. L’uno combatte il deserto e la barbarie, l’altro la civiltà rivestita di tutte le sue armi […]. Il loro punto di vista è differente, le loro vie sono diverse; tuttavia entrambi sembrano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini di una metà del mondo."

E l’altra forma di pensiero, quella di Donoso Cortés nel Discorso sull’Europa, 30 gennaio 1850. C’è la grande profezia che la rivoluzione sarebbe scoppiata più facilmente a San Pietroburgo che a Londra. Donoso veniva da un soggiorno a Berlino, ma il suo discorso non riguarda la Prussia ma la Russia. È da qui che viene avanti il nuovo nemico della civilizzazione europea: dal possibile incontro fra socialismo rivoluzionario e politica russa. Schmitt, in un saggio del 1927, riassume così questa che, secondo lui, è la più sconcertante delle anticipazioni costruttive di Donoso:

"La rivoluzione scioglierà anzitutto gli eserciti permanenti; poi il socialismo soffocherà tutti i sentimenti patriottici e ridurrà tutte le contrapposizioni a quella fra proprietari e non proprietari; in seguito, quando la rivoluzione socialista sarà riuscita a uccidere tutti i sentimenti nazionali, quando i popoli slavi si uniranno sotto la guida della Russia, quando in Europa esisterà solo la contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori, allora suonerà la grande ora della Russia e con essa il grande castigo per l’Europa."

Questo castigo sarà lungo e non finirà ad esempio con la sola decadenza dell’Inghilterra.

"I Russi infatti non sono simili al popolo dei Germani, che nel periodo della migrazione dei popoli rinnovarono la civiltà europea; nella sua aristocrazia e nella sua amministrazione, la Russia è altrettanto corrotta del resto dell’Europa; dopo la sua vittoria il veleno della vecchia Europa scorrerà nelle sue vene, sicché essa ne morirà e cadrà in putrefazione."

E voilà!
Processo ambiguo, contraddittorio, non semplicemente progressivo, di centralizzazione e democratizzazione dell’umanità, finis Europae, tramonto dell’occidente, intravisto dai due punti di vista contrastanti, di un’anticipata critica liberale della democrazia e di una inesaurita e inesauribile concezione cristiana della storia. Ambedue, il francese e lo spagnolo, interpreti-anticipatori di quella Kritik der Zeit, nell’«accezione specificamente tedesca della parola critica», che da Kierkegaard e Burckhardt a Troeltsch a Weber a Rathenau a Spengler, prende forma nel secondo Ottocento, attraversa tutto il primo Novecento e si arresta, si esaurisce e crolla davanti alla grande crisi della politica con cui tristemente tramonta il nostro secolo. Scriveva Schmitt, nel 1971:

"Karl Marx poteva ancora ammettere che la sovrastruttura ideologica (in cui rientrano i concetti di diritto e di legalità) si sviluppa talora più lentamente della base economico-industriale. Il progresso odierno non ha più tanto tempo e pazienza. Esso rimanda al futuro e induce aspettative crescenti, che poi esso stesso supera con nuove aspettative sempre più grandi. Ma la sua aspettativa politica giunge alla fine stessa di tutto il «politico». L’umanità è intesa come una società unitaria sostanzialmente già pacificata; nemici non ve ne sono più; essi si trasformano in «partners» conflittuali (Konfliktspartners); al posto della politica
mondiale deve instaurarsi una polizia mondiale."

Karl Marx e Carl Schmitt sono archeologia politica del moderno più di quanto non lo siano Niccolò Machiavelli e Thomas More. Questi, l’eternità moderna li ha accolti, innocui, nel paradiso della cultura. Quelli, li ha precipitati, maledetti, nell’inferno della politica.


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