Lo statuto ontologico dei significati e la loro relazione con il riferimento

Lo statuto ontologico dei significati e la loro relazione con il riferimento


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Breve introduzione alla filosofia analitica e alla tematica del significato e a quella del riferimento con confronto con le neuroscienze. Questo post è da intendere come una base per i post che verranno. Gli amministratori di Der Einzige stanno preparando un post sulla neolingua di regime, con una vera e propria analisi filosofica del modo in cui il regime parla e distorce la realtà. Questo post è la base teorica per comprendere quello successivo. Se vuoi aiutarci a realizzare il dizionario della neolingua del regime contattaci nel gruppo e presenta i tuoi termini.

§1 La nascita della filosofia analitica con la distinzione di Frege tra Sinn e Bedetung

L’inizio della filosofia del linguaggio per come siamo abituati ad intenderla viene fatta risalire ai lavori pionieristici di Gottlob Frege (1848-1925), seppur è possibile ravvisare dei precursori di tale filosofia anche precedentemente – per esempio nella distinzione dei giudizi in Kant con la separazione dei giudizi sintetici da quelli analitici nella Critica della ragion pura – è con Frege che il linguaggio inizia ad essere concepito un problema filosofico centrale per tutti quei pensatori che seguendolo, da Russell in poi, si sono occupati di questo argomento. Il suo più grande contributo sull’argomento fu un articolo del 1892, Über Sinn und Bedetung, in cui individuò quella che è stata la distinzione terminologica fondamentale che è diventata il fondamento della disciplina, ovvero la distinzione tra sinn e bedetung, due parole che nel linguaggio ordinario avevano il medesimo significato (il loro significato era proprio significato) e che invece in filosofia della scienza avrebbero preso completamente un tono differente: sinn sarà tradotto con senso, mentre bedetung sarà invece tradotto con denotazione o riferimento.

Il senso viene concepito come un “modo di darsi dell’oggetto”, ossia il modo in cui il significato ci viene presentato che comprende un particolare punto di vista su di esso; d’altra parte, invece, il significato è ciò che viene denotato. Questa distinzione ci permette di comprendere da cosa sia determinato il significato per Frege: una espressione (si il- lustrerà in seguito la differenza tra termini singolari ed enunciati) ha un senso, il senso permette di denotare una entità extralinguistica (un oggetto del mondo) e questo oggetto denotato è il significato dell’espressione. Vediamo infatti come Frege definisce il rapporto di comprensione di una espressione linguistica:


“il senso di un nome proprio viene afferrato da chiunque conosca a sufficienza la lingua o il complesso di segni cui esso appartiene, in questo modo il significato, posto che ve ne sia uno, viene pur sempre illuminato da un lato solo; la conoscenza del significato da tutti i lati comporterebbe che per un senso dato qualsiasi si fosse im- mediatamente in grado di dire se gli spetta oppure no. A questa conoscenza non perveniamo mai.”

Frege 1892, il corsivo è mio


Emerge qui la relazione di afferramento, un punto cruciale con cui possiamo caratterizzare la teoria della comprensione linguistica di Frege, che come vedremo poi nel prossimo paragrafo, Putnam criticherà poiché sostiene che in Frege l’atto stesso di afferramento è un atto psicologico individuale e che quindi “capire una parola (conoscere la sua intensione) equivalga ad essere in un determinato stato psicologico” (Putnam 1978).

Per quanto si possa dire che l’afferramento sia un atto psicologico, in realtà bisogna ricordarsi che in Frege il senso (sia dei termini singolari che degli enunciati) è considerato oggettivo in quanto “possesso comune di molti e non è parte o modo della psiche individuale”. La rappresentazione è infatti caratterizzata da “un’immagine interna, che è il risultato di atti, […] da me compiuti.” dotata di instabilità e fugacità sia tra gli individui, ma anche all’interno dello stesso individuo. Per concludere, bisogna sottolineare che fino ad ora ci siamo occupati dei sensi e dei significati dei nomi propri dei termini singolari¹, tuttavia Frege si occupò anche di stabilire il senso e il significato degli enunciati: il senso di un enunciato è il pensiero che con esso viene espresso, allo stesso modo dei sensi dei nomi propri è anche esso oggettivo e non soggettivo, il significato di un enunciato consiste invece nella denotazione del valore di verità dell’enunciato stesso che può consistere nel Vero o nel Falso. Viene così mantenuta un’analogia con quanto spiegato in merito ai termini singolari perché Frege tratta il Vero e il Falso proprio come degli oggetti², quindi si può dire che così come i termini singolari, anche gli enunciati per Frege sono dei nomi, e in modo più specifico, dei nomi del Vero o del Falso. In questa prospettiva teorica il predicato viene trattato come una funzione il quale significato è un concetto, e non in una estensione come poi verranno trattati in seguito dagli autori successivi, questa differenza è importante: il predicato R nella frase “la mela è rossa” non è in sé un oggetto, ma è una funzione che permette di assegnare l’individuo denotato da “la mela” ad un valore di verità se l’individuo cade sotto il concetto “è rossa”: sia R il predicato e m mela, la frase per Frege si può rendere come R(m)= Il vero o il falso, questo significa che il nome dell’individuo da denotare è assunto come argomento della funzione e il valore di verità è invece il valore della funzione stessa. In que- sto modo oltre a garantire che il significato della frase sia un oggetto, si garantisce anche che il significato di una frase sia dato solo dal modo in cui sono combinate le parti che lo costituiscono, mantenendo il principio di composizionalità istituito dallo stesso Frege.


¹ Per Frege sia i nomi propri che le descrizioni definite denotano un oggetto individuale, invece Russell sosterrà che i nomi propri sono delle descrizioni definite abbreviate, ed applicando la procedura da lui istituita attraverso la quantificazione mostrerà di poter eliminare i termini singolari.

² “Siamo così condotti a riconoscere il valore di verità dell’enunciato quale suo significato. Per valore di verità di un enunciato intendo la circostanza che sia vero o falso. Non vi sono altri valori di verità”. (Frege 1892) corsivo nel testo.



§2 La critica di Kripke e Putnam alla formulazione fregeana alla relazione tra sinn e bedetung: la teoria del riferimento diretto e la teoria storico-causale del riferimento


Una critica che potrebbe essere mossa a Frege è che egli abbia concepito il processo in modo inverso, e si potrebbe invece sostenere che sia l’estensione a provocare un cambiamento del significato di un termine e che questo cambia- mento del significato potrebbe anche non riflettersi in un cambiamento dello stato mentale del soggetto. Questa è la posizione sostenuta, anche se con due modelli teorici differenti, da Kripke e Putnam. Per entrambi il riferimento non è fissato da un senso, ma è fissato direttamente senza la necessità del senso fregeano come tramite: questa è la teoria del riferimento diretto, ed è stata innanzitutto articolata da Kripke nel suo testo “Naming and necessity” partendo dai nomi propri. Egli, partendo dall’osservazione esposta precedentemente secondo la quale Frege considera i nomi pro- pri e le descrizioni definite come equivalenti, riprende la distinzione di Donnellan secondo cui le descrizioni definite possono avere un uso attributivo o un uso referenziale e che quindi possano essere utilizzate rispettivamente o per de- scrivere delle proprietà che appartengono ad un individuo oppure per portare su di esso l’attenzione dei parlanti. Que- sto dovrebbe comportare che chi sostiene la teoria delle descrizioni definite debba concepirle come una verità neces- saria circa il portatore di quella descrizione, tuttavia adottando un approccio basato sulla logica intensionale, Kripke sostiene che se si applica il pensiero contro-fattuale postulando dei mondi possibili in cui gli eventi si sono sviluppati in modo diverso, le descrizioni definite non riescono più a riferirsi al medesimo individuo attraverso i mondi non po- tendo più valere come verità necessarie, e che l’individuazione attraverso mondi è possibile soltanto con il nome proprio che è per questo definito da Kripke come un “designatore rigido”:


“quando dico che un designatore è rigido e designa la stessa cosa in tutti i mondi possibili, intendo dire che esso, così com’è usato nel nostro linguaggio, sta per quella cosa quando noi parliamo di situazioni controfattuali.”

Krikpe 1972, il corsivo è nel testo


Sulla base di questa strategia argomentativa Kripke mostra da un lato che le descrizioni definite non descrivono in modo univoco le proprietà di un individuo, e dall’altro che non è nemmeno possibile utilizzarle per indicare nel mon- do un individuo del quale si vuol parlare³.

Rilevate le anomalie inerenti alle descrizioni definite, egli propone l’abbozzo di una teoria che è stata poi chiamata teoria del riferimento “storico-causale” proprio perché definisce il rapporto tra portatore del nome e nome nei seguenti termini:


“ha luogo un battesimo iniziale. In questo caso un oggetto può essere denominato mediante un’ostensione, op - pure il riferimento del nome può essere fissato mediante una descrizione. Quando il nome “passa da un anello all’altro” il ricevente del nome, secondo me, deve avere l’intenzione di usarlo con lo stesso riferimento di colui dal quale lo ha appreso.”

Kripke 1972


Colui che apprende il nome di un individuo lo fa quindi in virtù di una catena storico-causale attraverso la quale da parlante in parlante viene trasmessa l’associazione tra nome e riferimento che venne fissata nel “battesimo iniziale”, è questo che ci permette di riferirci a qualcosa e di dotare di significato un nome in virtù del suo rapporto causale con il riferimento e non una descrizione di proprietà. Questa teoria è stata estesa da Kripke stesso ai nomi di genere naturale, tuttavia in modo sistematico se ne occupò Putnam nel suo “Meaning, Reference and Stereotypes”. Egli parte, più che dal contestare la teoria delle descrizioni, da una critica dello psicologismo e dell’assunto secondo il quale i significati siano equivalenti a degli stati mentali particolari. Come già visto, egli sostiene che persino Frege – che ai suoi tempi fu un avversario dello psicologismo – ammette tramite la relazione di afferramento una componente psicologica nella comprensione di un significato. Contro la tradizione analitica a lui precedente, sostiene che non è l’intensione a deter- minare l’estensione (o il senso a determinare la denotazione), ma che sono le proprietà fisiche reali del mondo che permettono di determinare il significato di un nome di un genere naturale o di un nome comune di sostanza. In modo simile alla strategia argomentativa di Kripke, Putnam costruisce una situazione ipotetica – in questo caso un vero e proprio esperimento mentale – così descritto: esiste una Terra gemella che è del tutto identica al nostro pianeta tranne per il fatto che al posto dell’acqua come H20 è presente una sostanza diversa (XYZ) che però mantiene le stesse pro- prietà superficiali dell’acqua del nostro pianeta. Gli abitanti di Terra Gemella si riferiscono alla loro sostanza come facciamo noi, chiamandola acqua, soltanto che nel loro caso “acqua” indica XYZ e non H20. Il problema di questo esperimento è che se si immagina che ogni uomo abbia un corrispettivo su Terra gemella e che entrambi pronuncino una frase relativa all’acqua, pur trovandosi nel medesimo stato mentale, essi designano di fatto qualcosa di diverso: ecco perché Putnam sostiene che i significati sono fuori dalla testa. La conclusione di questa linea argomentativa è che o siamo costretti a trattare i termini di genere naturale come degli indicali puri (come io, mio, qui) oppure, e questa è l’opzione preferita da Putnam, dobbiamo ammettere che è l’estensione stessa dell’oggetto reale a poter determinare il significato di un termine: acqua significa acqua perché è in una relazione stesso con una sostanza che precedentemente abbiamo definito come tale con una definizione ostensiva. I parlanti tuttavia non possiedono delle defini- zioni accurate per tutti i termini, ma possiedono per la maggior parte degli stereotipi che da Putnam sono definiti come “un’idea convenzionale […] di ciò a cui un x assomiglia, o di come agisce, o di come è.” (Putnam 1978). Non è necessario che tali stereotipi siano accurati perché sono definiti socialmente, infatti essi sono quanto basta per una comunità di parlanti per poter parlare di un determinato argomento e sono quindi necessari per la comunicazione, un parlante competente in una determinata lingua deve possedere gli stereotipi della sua lingua. Poiché la maggioranza dei parlanti non detiene le definizioni precise dei termini in grado di definire l’estensione occorre spiegare perché ci sono esperti in grado di identificare una determinata sostanza o un determinato nome di genere naturale al di là degli stereotipi. L’ipotesi di Putnam è che la divisione sociale del lavoro causi una divisione del lavoro linguistico, rendendo alcuni esperti in sottoinsiemi della lingua:


“ogni comunità linguistica esemplifica il tipo di divisione del lavoro linguistico ora descritto; cioè possiede al - meno alcuni termini tali che i “criteri” ad essi associati sono noti solo a un sottoinsieme dei parlanti che acquisi- scono i termini, e il cui uso da parte di altri parlanti dipende da una cooperazione strutturata tra questi e i parlan- ti appartenenti ai sottoinsiemi rilevanti.” Putnam 1978

E conclude che ciò che fissa l’estensione non è lo stato psicologico degli individui, ma “lo stato sociolinguistico del corpo linguistico collettivo cui il parlante appartiene”.


³ Questi due punti vengono illustrati rispettivamente con l’esempio di Nixon e con l’esempio di Gödel: da un lato si può mostrare che se si identifica Nixon con colui che ha vinto le elezioni diventando presidente degli Stati Uniti nel 1968, si può stipulare un mondo possibile in cui egli non si sia proprio dedicato alla politica, rendendo così contingente la descrizione e dall’altro possiamo immaginare, quando ci riferiamo a Gödel come al matematico che scoprì i teoremi di indeterminazione, che in un mondo possibile egli possa aver rubato la dimostrazione ad un altro individuo.



§3 La critica della teoria del riferimento diretto attraverso gli scritti di Quine


La teoria del riferimento diretto sostiene non solo che il significato possa dipendere dall’estensione, ma anche che il riferimento viene fissato direttamente attraverso una catena causale di eventi, e l’immagine del linguaggio che questa teoria trasmette è che le parole non siano altro che delle etichette che vengono attribuite alle cose. Questo è quel che Quine nel suo articolo “Ontological Relativity” definisce come “il mito del museo”, spiegando come sia a livello del significato che a livello del riferimento è sbagliato stabilire una corrispondenza diretta tra una parola e un riferimento. In modo simile a Putnam anche Quine costruisce un esperimento mentale con cui sostenere la sua tesi, ma a differenza degli autori che sostengono il riferimento diretto, egli non necessita di postulare l’esistenza di mondi possibili e di appellarsi così alla semantica intensionale perché l’esperimento mentale che propone è quello della traduzione radicale: un linguista si trova a dover tradurre le espressioni linguistiche di un popolo di cui non si conosce nulla, e può farlo, secondo Quine, basandosi esclusivamente sul comportamento parlanti. Mostrando ad un indigeno diverse volte un coniglio egli chiede a questo se esso corrisponda alla parola gavagai tramite una definizione ostensiva, e a questo punto, dopo aver raccolto i dati, il linguista può stabilire il significato della parola “gavagai” e scegliere come tradur- la. Si parla qui di scelta perché il linguista svolge il suo lavoro di traduttore grazie a delle ipotesi analitiche sulla forma della lingua che ha incontrato, perciò il linguista:


“elabora un sistema per tradurre contestualmente nell’idioma indigeno le nostre pluralizzazioni, i nostri prono- mi, i nostri numerali, la nostra identità e i dispositivi connessi. Elabora tale sistema mediante l’astrazione e l’ipotesi. Astrae particelle e costruzioni indigene da enunciati indigeni osservati, e cerca di associarle variamente a particelle e costruzioni italiane.”

Quine 1968, il corsivo è mio.


Il linguista è portato perciò ad attribuire a determinate espressioni indigene a delle costruzioni basate sulle sue ipotesi di traduzione e queste potrebbero portare a costruire interi manuali di traduzione incompatibili tra di loro seppur tutti ugualmente corretti: esclusivamente in base alle sue ipotesi analitiche il linguista potrebbe tradurre gavagai con “coniglità”, “parte non staccata di coniglio” o con tanti altri modi senza dover tener conto delle esperienze falsificanti poiché essendo il sistema di traduzione un apparato olistico basato su delle ipotesi analitiche, potrà sempre reagire ad una esperienza recalcitrante aggiustando un’altra delle ipotesi mantenendo però il manuale coerente e valido. La preferenza degli occidentali verso la traduzione “coniglio” è data dall’abitudine (che risale fin alla filosofia greca) nei confronti di un sistema metafisico che si impegna ontologicamente verso gli oggetti fisici e presuppone degli enti dotati di una sostanza, sistema metafisico che agli indigeni potrebbe essere completamente sconosciuto. Essendo la nostra ipotesi preferenziale altrettanto valida rispetto a molte altre, tutti i manuali di traduzione costruiti saranno tutti ugualmente validi perché Quine con la sua assunzione comportamentista esclude che il significato sia una proprietà mentale, e non essendovi altro che il comportamento degli indigeni su cui basarsi, la traduzione resterebbe indeterminata. Questa indeterminatezza però non aggredisce soltanto il significato in sé, ma va a colpire anche il riferimento che da Quine è considerato come un nonsenso se non in riferimento ad un sistema di coordinate relative che sono costituite da un linguaggio di sfondo a cui regredire:


“Porre quesiti sul riferimento in un qualsiasi modo più assoluto sarebbe come chiedere la posizione assoluta o la velocità assoluta, anziché la posizione o la velocità relative a un dato sistema di riferimento. Somiglierebbe anche molto a chiedere se il nostro vicino non possa vedere sistematicamente tutto capovolto, o in colori complementari, senza che sia mai possibile scoprirlo.”

Quine 1968


Pertanto il riferimento risulta essere imperscrutabile e sempre ambiguo, molto lontano dall’essere il faro con il qua- le illuminare il problema del significato, in quanto i problemi che affliggono la traduzione possono essere trasportati anche all’interno della stessa lingua. I teorici del riferimento diretto tentano di sfuggire alle critiche di Quine sulla nozione tradizionale di riferimento cadendo, a mio avviso, in una forma alterata di verificazionismo: secondo questa posizione filosofica il significato di un enunciato coincide proprio con il metodo con il quale ci riferiamo al mondo per stabilire il valore di verità dell’enunciato, ed in forma alterata non è ciò che avviene anche nella teoria del riferimento diretto? Secondo questa teoria una differenza nell’estensione è una differenza nel significato, e per stabilire questa differenza non solo occorre confrontare il proprio campione di acqua con le proprietà di H20 per esser sicuri che è acqua, ma occorre anche che un sottoinsieme della popolazione sia in grado di sviluppare dei metodi da esperti con i quali si possa stabilire il confronto. Se il verificazionismo classico venne posto come un criterio di demarcazione non solo di senso, ma anche tra scienza e metafisica, allo stesso modo il criterio proposto dai teorici del riferimento diretto è un criterio di demarcazione tra il gergo scientifico e il linguaggio ordinario: quest’ultimo è vago proprio perché si basa su stereotipi definiti socialmente e non su un metodo da esperti! Per questo sembra inevitabile che siano rivolte alla teo- ria del riferimento diretto non solo le critiche inerenti all’imperscrutabilità del riferimento, ma anche quelle che lo stesso Quine propone nell’articolo “Two Dogmas of Empiricism”:


“Qualunque asserto può essere considerato vero qualunque cosa succeda, se facciamo aggiustamenti sufficiente- mente drastici altrove nel sistema. Persino un asserto molto vicino alla periferia [vicino all’esperienza] può esse- re considerato vero di fronte a un’esperienza contraria adducendo a giustificazione l’allucinazione o correggendo certi asserti del tipo chiamato leggi logiche.”

Quine 1951


Del resto basta addentrarsi nella storia della scienza per scoprire che coloro che dovrebbero essere responsabili di fissare il riferimento possono, seppur scienziati, dare un riferimento diverso allo stesso termine: Lavosier attraverso i suoi esperimenti arrivò ad individuare l’ossigeno, quando per Priestley rimase aria deflogistizzata. Si può quindi con- cludere che la cecità della teoria del riferimento diretto nei confronti dei paradigmi khuniani o dell’assetto teorico di base su cui poggia l’attività di ricerca sia spiegabile proprio trattandolo come una specie di emprismo. Come l’empiri - smo, infatti, esso condivide il dogma del riduzionismo secondo cui è possibile controllare con l’esperienza le singole asserzioni – ciò è alla base della sua concezione “verificazionista” del riferimento – e inevitabilmente è affetto anche dal secondo dogma che Quine descrive come la distinzione netta tra analitico e sintetico, e questo secondo dogma de - riva dal primo perché:


“fintanto che si ritiene che abbia un significato in generale parlare di conferma o confutazione di un asserto, sembra che abbia significato anche parlare di un tipo limite di asserto che è confermato in modo vuoto, ipso facto, qualunque cosa succeda; e un asserto del genere è analitico.”

Quine 1951, il corsivo è nel testo.


Il secondo dogma, che occupa la maggior parte delle pagine dell’articolo di Quine, è stato messo alla prova in vari modi: dapprima Quine ha cercato di derivare la nozione di analiticità da quella di sinonimia, in quanto si potrebbe di- mostrare l’esistenza di verità analitiche degli enunciati del tipo “Nessuno scapolo è sposato” se è possibile ricondurli agli enunciati che esprimono verità logiche del tipo “Nessun uomo non sposato è sposato”, asserto che rimane vero in- dipendentemente dall’interpretazione che viene data delle particelle non logiche dell’enunciato. Perciò il problema si sposta dalla nozione di analiticità a quella di sinonimia che finisce per richiedere un’analisi dell’intercambiabilità salva veritate degli enunciati. Due enunciati possono essere definiti sinonimi se sostituendone uno con un altro viene conservato il valore di verità, così che adesso la sinonima della quale si cerca un fondamento è quella cognitiva. Essa sembra garantita dall’utilizzo dell’avverbio “necessariamente” (necessariamente tutti e soli gli scapoli sono uomini non sposati) che produce una verità quando viene applicata ad un enunciato analitico, ma se l’analiticità è proprio ciò che si vorrebbe dimostrare, allora non si è compiuto alcun passo in avanti. Se invece si adotta un linguaggio di tipo estensionale i predicati che condividono la medesima estensione possono essere sostituiti salvando il valore di verità, ma questo non garantisce affatto la sinonimia cognitiva. Per cui sembra che l’unico modo per fondare la sinonimia sia proprio quello di presupporre l’analiticità, ma inizialmente si era spostata la ricerca sulla sinonimia proprio per poter derivare l’analiticità stessa, il che concede a tutta questa linea argomentativa una certa circolarità. La teoria del riferimento diretto è caratterizzata da questa duplice debolezza che le deriva dall’essere una forma alterata di riduzionismo, e il suo largo ricorso ai mondi possibili come strategia argomentativa, vista l’infondatezza della distinzione tra analitico e sintetico, è problematica. Kripke distingue accuratamente le verità necessarie, che sono quelle vere in tutti i mondi possibili, da quelle a priori che invece definisce vere a prescindere dall’esperienza. Ma se è abbattuto il confine tra verità sintetiche e verità analitiche, sarà abbattuto anche quello tra verità necessarie e verità a priori, e se queste distinzioni non sono tracciabili, allora l’intera proposta dei teorici del riferimento diretto è esclusivamente metafisica in quanto si impegna a definire la realtà in un certo modo, uscendo dall’analisi del linguaggio.



§4 L’imperscrutabilità del riferimento all’interno dello scanner fMRI


Secondo i critici di Quine la sua adesione al comportamentismo dovrebbe invalidare quanto da lui sostenuto nel paragrafo precedente, perché la nascita del paradigma cognitivista grazie agli studi rivoluzionari in psicologia cognitiva e in linguistica di Noam Chomsky di fatto hanno segnato la fine del comportamentismo stesso che è adesso reputato come una posizione superata. Quine partiva dal presupposto che fosse di fatto impossibile esaminare l’attività mentale – la tesi del comportamentismo era che la psicologia potesse interamente ridursi all’analisi del comportamento nei termini di un paradigma stimolo-risposta – ma tutto ciò è lentamente cambiato dopo l’introduzione della risonanza magnetica funzionale, una tecnica che utilizzando come segnale il rapporto tra l’emoglobina ossigenata e quella deossigenata è in grado di misurare l’attività del cervello in modo indiretto essendo dotata di una risoluzione spaziale che ci consente di vedere l’attività cerebrale delle singole aree. L’ipotesi di Quine può essere comunque riconsiderata immaginandosi cosa possa mai accadere nel cervello durante la presentazione di oggetti o di parole, e questo è esattamente ciò che hanno fatto diversi scienziati che hanno studiato il linguaggio e la rappresentazione della conoscenza del cervello, per cui quanto descriverò in seguito è stato tratto da esperimenti reali. Warrington, Shallice e collaboratori si resero conto fin dagli anni 80 che sulla base delle evidenze cliniche derivate da studi sulle lesioni cerebrali in pazienti, sembrava che la corteccia cerebrale avesse un’organizzazione della cono- scenza semantica basata sulle proprietà sensoriali e funzionali. Il limite di questi studi pionieristici era proprio insito nella loro natura lesionale, in quanto la lesione non può essere controllata dallo sperimentatore e spesso e volentieri sono abbastanza ampie da impedire caratterizzazioni più fini. Tali impedimenti sono stati progressivamente superati, e nell’articolo di Martin e Chao “Semantic memory and the brain: structure and processes”, vengono revisionati vari corpus di evidenze in cui viene mostrato che


“evidence is accumulating that naming and identifying objects with motion-related attributes activate areas close to regions that mediate perception of object motion (the posterior region of the lateral tempral lobe), with different patterns of activity associated with biological and man-made objects. Similarly, naming manipulable man-made objects selectively activates areas close to regions active during object manipulation.”

Traduzione: "si stanno accumulando prove che il nominare e l'identificare oggetti con attributi relativi al movimento attiva aree vicine alle regioni che mediano la percezione di oggetti in movimento (la regione posteriore del lobo temporale laterale), con pattern differenti di attività associati a oggetti biologici o fatti dall'uomo. In modo simile, nominare oggetti manipolabili fatti dall'uomo attiva selettivamente aree vicine alle regioni attive durante la manipolazione degli oggetti"

Martin e Chao 2001


Ciò significa che quando nominiamo o identifichiamo un oggetto vengono attivate aree motorie vicine a quelle utilizzate per l’interazione con l’oggetto, e che queste aree non vengono attivate durante la percezione di animali, volti o case, ma per questi ultimi sono attivate invece le aree sensoriali che sono specifiche per il tipo di oggetto in questione (la parola gelato attiverà l’area gustativa, la parola tromba quella uditiva etc.). Le conclusioni che si possono trarre da questo genere di studi sono in grado di riabilitare la posizione di Quine, innanzitutto la distinzione animato/non ani- mato che a noi pare una distinzione ontologica fondamentale, per il nostro cervello non esiste: esso distingue in funzionale (manipolabile) e sensoriale (non manipolabile) sulla base delle caratteristiche dello stimolo che costruiscono delle coordinate relative entro le quali poter collocare i riferimenti delle nostre parole. L’organizzazione stessa del cervello costituisce di fatto il nostro “linguaggio di sfondo” in cui regrediamo per attribuire i nostri riferimenti, ed anche quest’ultimo – adesso che lo sforzo congiunto dei ricercatori lo ha scoperto e lo sta decifrando – ci suggerisce che anche l’organizzazione semantica è relativa, perché il cervello non organizza la conoscenza semantica ascrivendo ad una piccola porzione di corteccia l’area che elabora una sola parola, ma una sola parola è scomposta, come s’è visto, nelle sue caratteristiche funzionali se si riferisce ad un oggetto manipolabile o alle sue caratteristiche sensoriali se si riferisce ad un oggetto non manipolabile, e comunque, come notano gli autori, “the representations of different object categories are distributed and overlapping” [TRADUZIONE: la rappresentazione di diverse categorie di oggetti sono distribuite e sovrapposte (Martin e Chao 2001)]. Persino la registrazione dell’attività elettrica delle singole cellule – che nell’uomo è possibile molto raramente, solo in condizioni pre-chirurgiche – mostra che anche il singolo neurone risponde ad una caratteristica piuttosto che ad un singolo stimolo:


“Neurons were identified that showed highly selective responses to different object categories including animals, faces, and houses. Moreover, the responses of the neurons were category-specific rather than stimulus-specific. That is animal-responsive cells responded to all pictures of animals rather than to one picture or a select few.”

TRADUZIONE: Sono stati identificati neuroni che mostravano risposte altamente selettive a differenti categorie di oggetti che includono animali, facce e case. In aggiunta, le risposte dei neuroni erano specifiche per categoria più che specifiche per stimolo. Le cellule che rispondono agli animali rispondevano a tutte le figure degli animali piuttosto che a un solo o pochi animali

Martin e Chao 2001


Si può quindi concludere che anche “guardando la mente” i significati non sono stati trovati, essi non sono né fuori dalla nostra testa come suggerisce Putnam né all’interno di essa come suggerisce il paradigma cognitivista. Non ci resta quindi che abbracciare una certa forma di olismo nella quale considerare come unità di significato l’intero corpus delle nostre conoscenze, e abbandonare l’idea che le nostre parole e i nostri enunciati abbiano un riferimento determinato. Forse, addirittura, il codice in cui è scritto il nostro cervello è in qualche misura esso stesso estraneo al codice proposizionale a cui siamo abituati, e potrebbe essere caratterizzato da un’organizzazione connessionista del tipo descritto da Churchland nei suoi lavori, ma in tal caso l’emergere della proposizionalità dalla non proposizionalità resterebbe ancora più un enigma al quale dedicare il futuro dei nostri sforzi.


BIBLIOGRAFIA


Frege, G. (1948). Sense and Reference. The Philosophical Review, 57(3), 209–230. https://doi.org/10.2307/2181485

W. V. Quine. (1951). Main Trends in Recent Philosophy: Two Dogmas of Empiricism. The Philosophical Review, 60(1), 20–43. https://doi.org/10.2307/2181906

Quine, W. V. (1968). Ontological Relativity. The Journal of Philosophy, 65(7), 185–212. https://doi.org/10.2307/2024305

Kripke S. A. (1980). Naming and necessity. Harvard University Press.

Martin, A., & Chao, L. L. (2001). Semantic memory and the brain: structure and processes. Current opinion in neurobiology, 11(2), 194–201. https://doi.org/10.1016/s0959-4388(00)00196-3

Il saggio di Putnam Meaning, References and Stereotypes lo trovate qui tradotto in italiano https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/paolo-casalegno-pasquale-frascolla-andrea-iacona/filosofia-del-linguaggio-9788870788365-963.html

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