L'inizio del cristianesimo

L'inizio del cristianesimo

Salvatore Clemente
STORIA DELLE RELIGIONI


Henri-Charles Puech, STORIA DELLE RELIGIONI, II. Giudaismo, cristianesimo e islam, ed. Laterza 1976


Tre secoli separano la vita di Gesù, profeta di Nazareth, dai fasti imponenti del concilio di Nicea (325), la prima grande espressione dell'alleanza tra l'Impero romano e la Chiesa cristiana. Non sempre questo lungo periodo ha avuto l'attenzione che merita, dal momento che gli specialisti si dedicano più volentieri allo studio del Nuovo Testamento o della grande letteratura teologica del IV-V secolo che a quella degli uomini e degli scritti cristiani del periodo intermedio. Il pubblico colto si fa un'immagine semplificata di queste dieci o dodici generazioni, prendendone a prestito i tratti salienti, senza troppo discernimento, dal libro degli Atti degli Apostoli, dai racconti dei martiri e dalle scoperte archeologiche, soprattutto dagli scavi di Roma: fervida vita comunitaria di gruppi semiclandestini, il cui eroismo di fronte alla persecuzione non aveva limiti.

Senza essere falsa, quest'immagine lascia tuttavia sfuggire l'essenziale. Rende inspiegabile il contrasto tra l'esecuzione di Gesù come malfattore ad opera di un modesto funzionario romano e l'appassionata partecipazione dell'imperatore Costantino ai dibattiti dei vescovi sulla divinità di quello stesso Gesù. Una concezione del genere cancella le differenze tra generazioni e tra regioni. Dimentica che la quasi totalità dei cristiani erano Ebrei e di lingua semitica alla prima generazione e che, a Nicea, non si parlava se non il greco e un po' di latino. In breve: questa immagine non può soddisfare lo storico.

Questi non potrà neanche limitarsi a delineare un parallelo con gli inizi di altre due grandi religioni: il buddhismo e l'islam. Certo, l'espansione rapida dell'una e dell'altra, la simbiosi istituita tra ciascuna di esse e un grande impero, la loro fioritura in un'area culturale nella quale non rientrava il loro paese d'origine, sono altrettanti fenomeni paragonabili con quel che è dato osservare nel cristianesimo dei primi secoli. Alcuni accostamenti sono, dunque, legittimi e possono servire a spiegare la storia delle generazioni cristiane prima di Nicea. Essi consentono, in particolare, di attribuire il suo vero significato alla presenza della cultura ellenistica e dell'Impero romano sul cammino della nuova religione: si tratta di ostacoli, certamente, se si pensa al disprezzo dei letterati greci e degli amministratori romani per una setta orientale molto strana dal loro punto di vista; ma soprattutto, si tratta di strutture d'accoglienza, che hanno plasmato la cera ancora duttile del cristianesimo e gli hanno fornito gli strumenti per una rapida crescita.


Eppure, la storia dei primi tre secoli cristiani è molto diversa da quella delle altre due grandi religioni. Essa è stata molto più difficile, incerta, piena di minacce. Mentre l'islam si è immediatamente diffuso grazie agli eserciti arabi e ha goduto del sostegno di un grande Impero, ha avuto fin dall'inizio il suo libro sacro e ne ha imposto la lingua a milioni di persone, il cristianesimo è stato costretto alla clandestinità, frenato nella sua espansione da tutte le autorità possibili, destinato fin dall'origine a un doloroso sradicamento culturale, costretto a lunghe incertezze prima di riuscire a dotarsi di Sacre Scritture.


Mentre il buddhismo, sorto in seno a un ampio e accogliente ambiente culturale, vi è cresciuto a proprio agio per più di due secoli prima di essere sospinto in missioni esterne da parte del re Asoka — che, internamente, se ne era fatto il propagandista più acceso e che cercava di applicarne personalmente la morale —, il cristianesimo ha dovuto lottare a lungo per farsi accettare come una componente della cultura greco-romana, dato che l'ambiente giudaico nel quale era nato era restio alla sua predicazione e costituiva per esso soltanto un campo d'azione troppo angusto; inoltre, lo sforzo missionario cristiano è stato diretto prestissimo verso paesi lontani e, quando Costantino aderì alla nuova fede, non ritenne però di essere obbligato a praticare le virtù da questa raccomandate, compromettendo in tal modo l'esito della causa cui, pure, accordava la propria protezione.


Il cristianesimo dalle origini al concilio di Nicea, di Étienne Trocmé, pag. 289-290


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Fin dall'inizio del III secolo, lo Stato romano cercava di risolvere quello che cominciava a delinearsi come il problema cristiano. (...) Era necessario distruggere questa religione o integrarla nel sistema, pena dover assistere al crollo di questo, già scosso per la mancanza di un cemento ideologico capace di giustificarne la stessa esistenza.

L'imperatore Decio, vincitore e successore nel 249 di Filippo l'Arabo, ebbe il grande merito di rendersi conto di questo e di ricavare tutte le implicazioni dalla sua analisi della situazione. (...) Appena tre mesi dopo la sua vittoria su Filippo, egli promulgò tra il 249 e il 250 un editto drastico contro i cristiani. Benché il testo sia andato perduto, se ne può agevolmente ricostruire il contenuto. In ogni località dell'Impero, una commissione, composta a quanto pare di cinque persone, aveva il compito di convocare tutti gli abitanti, comprese le donne e i fanciulli, e di imporre loro, tranne forse gli stranieri, di compiere un gesto di culto sugli altari degli dèi ufficiali, fosse anche semplicemente un'offerta d'incenso davanti alla statua dell'Imperatore. Tutti coloro che si piegavano a questa formalità ricevevano un certificato, un libellus, un certo numero di esemplari del quale ci è stato conservato dalle sabbie del deserto egiziano. Coloro che non si presentavano alla data prevista, o che rifiutavano per un verso o per l'altro di associarsi ai culti ufficiali, erano richiamati all'ordine e sottoposti dalla commissione responsabile a ogni sorta di pressioni: minacce varie, prigionia ed anche torture. Le autorità puntavano piuttosto ad ottenere l'abiura dei cristiani — ai quali la disciplina ecclesiastica vietava ogni partecipazione a un culto pagano — che non ad imporre un vero e proprio conformismo religioso o a soffocare le Chiese in un bagno di sangue.

(...) Ma la brutale ed abile offensiva lanciata da Decio incontrò alcuni ostacoli difficili da superare. In certe regioni, come l'Egitto, alcuni cristiani se ne fuggirono sulle montagne e nel deserto, o vennero nascosti dai contadini, oppure, come il vescovo Dionigi di Alessandria, vennero liberati di prigione da squadre armate. Altrove, le autorità esitarono a giustiziare i cristiani che non erano stati piegati né dalla prigionia né dalla tortura: fu questo il caso di Origene, a Cesarea di Palestina, per esempio. Altrove, ancora, numerosi cristiani preferirono la morte all'abiura che si richiedeva loro e, con il loro sacrificio eroico resero delicata la posizione delle autorità nei confronti di un'opinione pubblica che spesso finiva per essere turbata. Accanto a molti martiri sconosciuti di questo anno 250, molte delle vittime della persecuzione di Decio hanno lasciato un nome nella storia, grazie soprattutto ai numerosi Atti dei martiri conservati devotamente dalle Chiese dopo questa terribile crisi.


Il cristianesimo dalle origini al concilio di Nicea, di Étienne Trocmé, pag. 392-394


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(...) Intorno alla fine del 250, l'eroismo dei martiri e la fermezza dei confessori imprigionati determinarono un attenuarsi della persecuzione. Vari prigioneri vennero rilasciati senza che avessero ceduto e, non essendo stato rinnovato l'ordine di fare i sacrifici, la pressione sui recalcitranti diminuì a poco a poco, per sparire completamente verso la fine dell'estate del 251. La morte di Decio durante una battaglia contro i Goti portò a liberare, in quella circostanza, molti degli ultimi detenuti cristiani, tra i quali Origene. Una terribile epidemia di peste indusse, d'altro canto, l'imperatore Gallo a ordinare ovunque grandi sacrifici per placare la collera degli dèi. Poiché i cristiani si rifiutarono, ancora una volta, di associarsi a cerimonie che consideravano come atti di idolatria, l'opinione pubblica si sollevò da varie parti contro di essi. Si ebbero dei torbidi, verso l'inizio del 252, in Africa, ad Alessandria e forse anche altrove, nel corso dei quali alcuni cristiani vennero sottoposti ad angherie. Ma le autorità si comportarono in modo molto meno duro del 250: il vescovo di Roma, Cornelio, venne semplicemente esiliato a qualche lega da Roma; quando morì, un anno dopo, il suo successore, Lucio, subì la medesima pena, piuttosto mite. È vero che i cristiani della capitale avevano manifestato in massa davanti al tribunale che giudicava Cornelio. Non poteva esserci miglior sintomo del fallimento del grande attacco lanciato da Decio contro il cristianesimo. La nuova fiammata di persecuzioni non durò, del resto, oltre l'inizio del 254, anno in cui Lucio poté rientrare a Roma.

L'imperatore Valeriano, giunto al potere durante l'estate del 253, si mostrò, infatti, relativamente ben disposto verso i cristiani nei primi quattro anni del suo impero. Ma le difficoltà politiche, militari e finanziarie che andavano aumentando lo sospinsero, a partire dal 257, verso una politica di repressione anticristiana del tipo di quella di Decio, con il quale, del resto, questo aristocratico romano molto attaccato alla tradizione nazionale aveva parecchi punti in comune. Come nel 250, le Chiese cristiane dovettero far fronte a un'offensiva generale mirante ad eliminarle completamente in tutto l'Impero romano. Ma, questa volta, le misure adottate vennero studiate in modo da non violentare troppo apertamente la libertà di coscienza; si trattava piuttosto di rovinare le Chiese senza suscitare l'intransigente resistenza della gente semplice e la simpatia dell'opinione pubblica, che avevano determinato l'insuccesso di Decio.

Nell'agosto del 257, un primo editto prescrisse ai vescovi, preti e diaconi, di sacrificare agli dèi dell'Impero, pena il bando, e proibì a tutti i cristiani, pena la morte, le assemblee di culto e le riunioni nei cimiteri. Abbiamo informazioni imprecise sull'applicazione di questo testo. Vi furono in Numidia e in Africa dei cristiani condannati a morte o ai lavori forzati nelle miniere per aver tenuto assemblee; Cipriano e Dionigi vescovo di Alessandria, furono esiliati per essersi rifiutati di compiere sacrifici. Dal momento che queste misure non bastarono a scardinare le Chiese, venne promulgato un secondo editto verso la metà dell'anno 258: i vescovi, i sacerdoti e i diaconi che si fossero rifiutati di offrire un sacrificio agli dèi sarebbero ormai stati passibili della pena di morte; i senatori e i cavalieri cristiani avrebbero subito la confisca dei beni e non avrebbero potuto salvare la propria testa, se non avessero abiurato; le donne di questa stessa classe avrebbero perduto il proprio patrimonio se fossero appartenute alla Chiesa e sarebbero inoltre state esiliate se non avessero abiurato; quanto ai dipendenti imperiali, sia a corte, sia nei domini dell'Impero, essi sarebbero stati condannati ai lavori forzati in quegli stessi domini e privati di ogni loro bene se avessero fatto professione di fede cristiana.

Questo secondo editto venne applicato rigorosamente. A Roma, il vescovo Sisto II e vari diaconi, tra cui Lorenzo — reso celebre dalla leggenda della sua morte su una graticola —, vennero giustiziati ai primi di agosto del 258, senza aver consegnato i tesori della Chiesa. Altri sacerdoti e alcune donne dell'aristocrazia subirono in seguito la stessa sorte. La Gallia ebbe sicuramente qualche martire, ma i testi che potrebbero permetterci di accertarlo sono poco sicuri; l'unico martirio accertato sicuramente è quello di Proclo, a Troyes. La Spagna vide perire il vescovo Fruttuoso di Tarragona e molti dei suoi diaconi. In Africa, la persecuzione fu particolarmente sanguinosa. A partire dal 24 agosto del 258, si ebbero delle esecuzioni in massa, una a Lambesa in Numidia, dove occorsero al boia parecchi giorni per mettere a morte tutti i compagni del diacono Giacomo, e l'altra ad Utica, dove il vescovo Quadrato perì attorniato da un gruppo nutrito di fedeli, la Massa Candida, che la leggenda fa morire in una fossa di calce viva. Vi furono anche molte altre vittime, le più note delle quali furono Cipriano, vescovo di Cartagine, giustiziato il 14 settembre del 258, Lucio e Montano, messo a morte a Cartagine il 23 maggio 259 insieme a molti compagni. La persecuzione si protrasse molto attivamente fino a gran parte dell'anno 260. Disponiamo di meno notizie sull'applicazione dell'editto del 258 in Oriente: vi furono martiri in Palestina, in Egitto, in Licia, in Cappadocia e forse in altre province.

La cattura dell'imperatore Valeriano ad opera dei Persiani (nell'estate del 260) condusse sul trono il figlio Gallieno, già affiancato al potere, che dovette patire tutte le pene di questo mondo per far fronte alla terribile crisi che la sconfitta del padre aveva provocato nell'Impero, e che non era un uomo da adottare misure troppo rigide. Non c'è da meravigliarsi che egli abbia ordinato prestissimo che si interrompessero le persecuzioni contro i cristiani e che poi, tramite vari rescritti, abbia concesso ai vescovi che glielo chiedevano la restituzione dei beni ecclesiastici confiscati e l'autorizzazione a rientrare dall'esilio per tornare ad assumere le proprie funzioni alla testa della Chiesa. La tolleranza di fatto di cui il cristianesimo aveva goduto durante quasi tutta la prima metà del III secolo assumeva, dunque, una veste ufficiale, che si mantenne per più di quarant'anni. Il duplice tentativo promosso dalle autorità imperiali durante il decennio 250-60 per eliminare completamente il cristianesimo dall'Impero romano finiva paradossalmente con un certo rafforzamento della posizione morale e legale delle Chiese.


Il cristianesimo dalle origini al concilio di Nicea, di Étienne Trocmé, pag. 394-397


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