Lettera del combattente clandestino di Riga Hado Lapsa con postilla di Eduards Indulen dalla prigione centrale di Riga
H. Lapsa, E. Indulen26 agosto 1944,
ore 22 circa.
Cara sorella,
Probabilmente ti sorprenderà la mia voglia di scrivere quando riceverai questa lunga lettera da Pëtr. Ma ecco, prima che oggi mi iniettino 8 grammi di piombo, voglio togliermi dal petto tutto quello che si è accumulato negli ultimi due mesi. In questa lettera non scriverò di me, ma dei compagni sfortunati che sono stati con me. Quindi, oltre a vendicare me, voglio che tutti voi vendichiate cento volte le sofferenze disumane di questi poveri diavoli e che diate loro un poʼ di soddisfazione. Non so se sarò in grado di fartelo capire, ma ci proverò. Ho visto corpi mutilati disseppelliti dopo che erano rimasti sotto terra per diversi mesi. Prima di allora non avrei mai immaginato di dover vedere persone vive in tali condizioni qui, a Riga, nelle cantine di via Reimers.¹ Sia maledetta quella dannata casa con tutti i suoi infiltrati: gli assassini tedeschi e i loro scagnozzi obbedienti e sadici e gli altri sporchi porci.
Fui arrestato il 2 giugno 1944. Quel giorno fui messo in una cantina di questa casa spaventosa. Ero nella prima cella che conteneva 7 o 8 detenuti tra cui il fabbro Kljava, o Kljavin, per quanto mi ricordo, di Ogra Volost. Allʼinizio non prestai attenzione a nessuno, tanto ero preso dalle mie preoccupazioni. Dopo un paio dʼore mi calmai e inizai a chiacchierare con i miei compagni di sventura. Ognuno di loro parlava dei propri problemi e mostrava i segni della tortura sul proprio corpo. Era uno spettacolo terribile, ma stentavo a credere ai miei occhi quando, dopo un poʼ di tentativi, Kljava, un tipo pallido, tra i 40 e i 45 anni, che stava seduto da una parte, si tolse la camicia con un viso quasi inespressivo. Quello che vedemmo non era più un corpo umano. Lʼintero corpo, dalla testa ai piedi, era diverso da tutti gli altri, blu o di tutti i colori dellʼarcobaleno, sembrava che quel poveretto fosse stato arrostito vivo, tutto il corpo era gonfio e di colore marrone scuro.
Il fabbro Klyava ci raccontò di sé: era sposato, padre di due figli e dal 1940-41 era stato un attivo lavoratore sindacale. Quando arrivarono i tedeschi, fu arrestato per le sue attività sindacali, ma dopo che alcuni vicini avevano garantito per lui fu liberato. Fu preso per la seconda volta alla fine di giugno e consegnato alla polizia del Sicherheitsdienst di Ogre. È lì che fu ridotto così. Un vigliacco informatore lo aveva accusato di simpatizzare con i bolscevichi e di detenere una rivoltella. Per questa arma inesistente la polizia lettone lo aveva picchiato per sei giorni di seguito. Il primo giorno era stato terribile, il secondo ancora peggio, ma poi non aveva più sentito dolore.
Per la maggior parte del tempo gli assassini tedeschi erano sempre stati ubriachi. “Lavoravano” per turni di tre finché la vittima non perdeva conoscenza. Quando sveniva, aspettavano che si riprendesse e il “lavoro” continuava. Come ho già detto, questo andò avanti per sei giorni. Poi Kljava venne portato a Riga. Arrestarono anche la moglie. Di cosa sia successo a lei e ai bambini, ovviamente, non aveva la più pallida idea. Ho visto questo sfortunato uomo tre o quattro volte quando è stato portato dentro per essere interrogato. Anche qui si sono accaniti su di lui; la “legge” dei nazisti si basa su una sola cosa: lʼuso inumano del potere.
Lʼultima volta che ho visto Kljava dopo lʼinterrogatorio non sapevo cosa fare. Ero inorridito e senza parole per la rabbia impotente. Poche ore dopo fu portato nella nostra cella, non era più un essere umano, ma un martire strappato alla morte. Se i suoi compagni di cella non lo avessero sorretto e fatto sedere su una panca accanto al termosifone che usò per rinfrescarsi il viso martoriato, sarebbe caduto. Il martire era solo semicosciente: il suo volto era stato picchiato a sangue, lʼorecchio sinistro parzialmente strappato, il suo volto insanguinato era gonfio e pallido come quello di un morto, tranne che per i segni lasciati dalle percosse. Non avevo mai pianto prima, ma quando lo vidi sentii le lacrime salirmi agli occhi.
Da quel momento in poi ho avuto un solo desiderio: che lui e gli altri, come Ludvig e Malvina Kukurevié, uccisi lʼ8 agosto, fossero vendicati. Potrei raccontarti ancora molte cose, mia dolce sorella, ma il mio tempo sta per scadere: da un momento allʼaltro mi porteranno nella foresta di Bikerniek.²
Sorella, tu sei sempre stata una vera donna sovietica, e il tuo dovere è quello di fare tutto il possibile affinché, non appena questo sistema marcio crollerà, i nomi di questi sfortunati martiri, che si possono leggere sulle pareti della seconda cella della prigione centrale, siano gli accusatori di questi maledetti nazisti e degli ancor più odiosi collaborazionisti lettoni.
Tutti questi maledetti devono avere la loro giusta punizione. Nessuno deve dimenticare le parole pronunciate da P. Ozol al processo: che è stato picchiato con un frustino, con uno sgabello, che gli hanno messo i piedi addosso e che tre giorni dopo lʼinterrogatorio continuava a emettere sangue invece di urina.
Questi selvaggi non potranno mai essere perdonati per aver nutrito le persone solo con acqua bollita e un poʼ di farina fino a farle cadere dalla fame e dallo sfinimento, come è successo a me.
Non dimenticate, voi che siete rimasti vivi, che venivamo colpiti con bastonate sul viso per la minima cosa e ci minacciavano di essere fucilati. Abbiamo subito questo orrore ogni notte, trattenendo il respiro e aspettando di essere portati al patibolo o alla foresta di Bikerniek. Sentivamo i gemiti e le urla dei nostri compagni mentre venivano portati via. Abbiamo visto un uomo malconcio riportato dallʼinterrogatorio che è morto nel giro di mezzʼora senza riprendere conoscenza. (È successo nella cella 26 del primo blocco. I miei compagni Andrejs Grauds e M. Klanis sono testimoni). Morte alla maledetta e sanguinosa Sicherheitsdienst e ai lacché fascisti tedeschi.
Spero che non dubiti dellʼintegrità di questa breve lettera. Tutto ciò che è scritto qui impallidisce terribilmente rispetto alla realtà, ma, come ho già detto, il tempo è molto breve.
Non so se riuscirò a scrivere fino alla fine di questa pagina. Perciò ti prego di esaudire il mio unico desiderio. Andando incontro alla morte sono profondamente convinto che io e il mio ultimo compagno di cella Indulen e i tanti combattenti uccisi e torturati saremo degnamente vendicati e i nostri parenti accontentati. Ma desidero che quando la Lettonia sarà di nuovo libera e tu riceverà questa lettera, essa venga pubblicata e che i sopravvissuti sappiano come migliaia di noi sono morti.
Ancora una volta ti prego: non addolorarti per me e non versare lacrime, perché io muoio per le mie convinzioni, sapendo che ho fatto molto per distruggere il Paese degli schiavisti – la Germania – e resterò per sempre nella memoria di tutti i miei compagni come un uomo che non ha avuto paura né della verità né della morte.
Il tuo fratello Hado
Un saluto a tutti da Inda che è sempre di buono spirito e che andrà incontro alla morte con un sorriso.
E. Indulen
Hado Lapsa e Eduards Indulen erano membri di spicco della clandestinità lettone. Sotto la loro guida, venivano preparati documenti e passaporti per i membri delle organizzazioni antifasciste di Riga. Il 2 giugno 1944, Hado Lapsa fu arrestato. Poco dopo anche Eduards Indulen cadde nelle mani della Gestapo. La mattina del 27 agosto 1944, i due patrioti sovietici furono fucilati dalla Gestapo di Riga.
- In via Reimers a Riga (ora via Comunardi) la Gestapo aveva il suo quartier generale.
- Luogo delle esecuzioni di massa fuori Riga.