Le periferie del lavoro in sciopero - Jacobin Italia

Le periferie del lavoro in sciopero - Jacobin Italia

Marta Fana, Simone Fana

Nella nuova classe operaia dei servizi si condensano forme di comando antiche e moderne al tempo stesso, che si servono della mercificazione delle donne per mantenere il controllo classista sul lavoro

Tornare a ragionare di composizione del lavoro significa riconoscere quello che viene volutamente nascosto. Comporta indagare i contorni delle lotte che insorgono nelle periferie del capitalismo, nella filiera della logistica, della grande distribuzione, nell’inferno dei call center, negli anelli che collegano la produzione al consumo. In questi interstizi emerge l’immagine di una nuova classe lavoratrice, in cui i criteri etnici e di genere sconvolgono l’immaginario tradizionale della classe operaia bianca, autoctona, maschile. Una realtà che viene quotidianamente marginalizzata, frammentata, divisa, rimossa nei luoghi di lavoro e nella società. Sono soprattutto i settori tradizionalmente classificati come periferici, che acquisiscono oggi centralità nel processo di accumulazione e valorizzazione del capitale, non sorprende, quindi, che siano i comparti dove si formano con maggiore frequenza conflitti e in cui si assiste a risposte repressive. Senza la logistica, ad esempio, l’assetto globale della produzione industriale rimarrebbe lettera morta, priva di sbocchi nel mercato delle merci e dei servizi; lo stesso vale per il segmento che segue il trasporto delle merci: il commercio al dettaglio. 
I mall, i centri commerciali, assomigliano sempre più a nuove fabbriche fordiste in cui segmenti apparentemente distinti sono allineati su un’unica catena di montaggio: dalle pulizie alle casse, dalla sorveglianza ai magazzini. Ma è anche il settore in cui si manifestano chiaramente le trasformazioni nel contenuto e nell’organizzazione del lavoro dovute all’applicazione di diversi tipi di tecnologia: la digitalizzazione e l’automazione. Senza tuttavia produrre alcuna liberazione dal lavoro, al contrario svalutandolo ulteriormente nella direzione dell’intensificazione dei tempi di lavoro o nel controllo di quelli di non lavoro. Dalle casse automatiche costantemente sorvegliate da almeno un addetto, ormai simile a una biglia di flipper che si muove tra clienti sempre sull’orlo di una crisi di nervi davanti a un codice a barre, fino ad arrivare alla commessa che dovrà ripetere migliaia di volte lo stesso gesto fisico per riportare in ordine i prodotti sugli scaffali. 

In questa figura della nuova classe operaia dei servizi si condensano gli aspetti materiali e simbolici dello sfruttamento. Processi di comando antichi e moderni, che si servono della categoria della femminilizzazione – intesa come svuotamento del contenuto fisico e ripetitivo delle mansioni lavorative – per mascherare il controllo classista sul lavoro. Mercificazione e oggettivazione della donna, alla quale viene richiesto di sorridere per nascondere la brutalità del gesto routinario, dei ritmi infernali che dispongono del suo corpo, ormai trasformato in un’appendice della macchina, mero aspetto cosmetico del gioco capitalistico. 

Il ruolo della componente femminile diventa, al contrario, centrale proprio perché in grado di mettere in crisi le rappresentazioni dominanti che finiscono per schiacciare il conflitto di genere nell’ambito separato della riproduzione sociale. Produzione e riproduzione tornano a essere due dimensioni inscindibili delle nuove forme di conflitto: si lotta per migliorare la propria condizione lavorativa e per riconquistare potere nella società. Liberazione nel lavoro e dal lavoro, si sarebbe detto un tempo, come spazio necessario per ricostruire l’unità dei meccanismi di comando e il campo di espressione delle forze antagoniste.

La vertenza ItalPizza 

In questi interstizi che legano l’organizzazione della fabbrica moderna con le politiche di controllo della forza lavoro, tra cui figurano le misure di restrizione del diritto di sciopero (il riferimento è al decreto legge 113/2018 che reintroduce il reato di blocco stradale e alle norme vessatorie contenute nel decreto sicurezza con la riduzione dei fondi per i titolari di protezione internazionale) poste dal governo in carica, si colloca la vertenza ItalPizza, azienda leader nel settore delle pizze surgelate e situata nel polmone produttivo italiano alla periferia modenese. Protagoniste nove donne provenienti da angoli diversi del mondo. È novembre quando decidono di ribellarsi a un’organizzazione del lavoro brutale, iscrivendosi al sindacato Si Cobas per rivendicare condizioni lavorative dignitose. Le richieste sono minime: adeguamento delle condizioni contrattuali alla tipologia di mansioni svolte (le lavoratrici svolgevano attività di farcitura e preparazione delle pizze inquadrabili nel contratto alimentarista, ma l’azienda applicava il contratto Multiservizi per abbattere il costo del lavoro), regolarizzazione dei turni di lavoro per bloccare la pratica degli straordinari non pagati, restituzione dei contributi non versati. Una scelta che non viene digerita dall’azienda ItalPizza che decide di sospenderle fino al 20 gennaio. Atto unilaterale di un’impresa abituata a disporre dei lavoratori e delle lavoratrici senza restrizioni, grazie a quel potere illimitato nell’organizzazione del lavoro che si traduce nel ricorso alla pratica dell’appalto del ciclo produttivo attraverso l’intermediazione di due cooperative. Le proteste delle nove donne avviano una fase di mobilitazione, con scioperi e presidi davanti allo stabilimento dell’azienda. Il clima diventa incandescente: lo sciopero indetto da un piccolo gruppo di lavoratori trova una risposta repressiva delle forze dell’ordine. Nel silenzio delle istituzioni politiche locali e nazionali la mobilitazione non si ferma, coinvolgendo in pochi giorni nuovi lavoratori, sensibilizzando una parte dell’opinione pubblica cittadina, diventando vertenza nazionale e obbligando l’azienda a tornare sui propri passi. Si arriva a un accordo in prefettura che richiama l’azienda a riassumere le nove donne licenziate e a verificare con le organizzazioni sindacali la corretta applicazione dei contratti collettivi di categoria. Il richiamo non sortisce gli effetti sperati. L’azienda relega le nove donne riassunte alle mansioni di pulizia, fuori dal ciclo di produzione e dall’ambito contrattuale previsto. Nulla cambia anche in riferimento alla gestione dei turni che vengono comunicati solo qualche ora prima del loro effettivo svolgimento. Nei mesi a venire sapremo dove arriverà questa vertenza. 

È sempre il sistema degli appalti e subappalti contro cui hanno puntato il dito lavoratrici e lavoratori addetti alle pulizie dell’hotel di lusso Hyatt di Paris-Vendôme. L’ultima riforma del lavoro, voluta per decreto dal presidente francese Emanuel Macron, ha infatti escluso i lavoratori in appalto dal diritto di associazione sindacale e quindi di rivendicazione. Da qui sono partiti tre mesi di sciopero a oltranza con chiare richieste: internalizzazione, aumenti salariali e rimborso dei costi del trasporto pubblico. Il 21 dicembre dello scorso anno, il management dell’hotel di lusso ha dovuto cedere: sono state corrisposte le rivendicazioni monetarie e contrattato il riconoscimento dell’azione sindacale per i lavoratori e le lavoratrici in appalto. Una vittoria, seppur non totale, che ha incontrato la solidarietà morale e finanziaria dei colleghi delle pulizie della Gare du Nord. 

Dall’altro lato dell’oceano negli Stati uniti nuove mobilitazioni si susseguono riportando al centro del dibattito pubblico le condizioni di lavoro di una classe lavoratrice sempre più ampia e sfruttata, che prova a riprendersi lo stesso protagonismo sindacale e politico di qualche decennio fa. Contro le narrazioni sulla fine del lavoro, la classe lavoratrice statunitense si è unita negli ultimi anni attorno a una rivendicazione comune: l’aumento dei minimi salariali, unendo politicamente quel che il capitalismo continua a dividere. 

Antidoti alle narrazioni dominanti

L’analisi della realtà rimane il migliore antidoto contro la falsa coscienza delle narrazioni dominanti che provano a dividere la classe lavoratrice lungo direttrici identitarie per frammentare l’indivisibilità delle condizioni materiali e di sfruttamento che dai luoghi di produzione si riversano lungo gli spazi sociali e di cittadinanza. Le lotte che concretamente si svolgono non si limitano a svelare questo tentativo, a smascherare il suo portato politico e ideologico, ma mostrano i nessi tra la dimensione oggettiva, morfologica del capitalismo contemporaneo e il ruolo soggettivo delle forze in campo, tra struttura dell’organizzazione del lavoro e conflitto. Donne e immigrati, soggettività espulse nella frammentazione del ciclo di produzione e dalla sfera dei diritti sociali impongono un nuovo ritmo alla ristrutturazione capitalistica. Un fatto non inedito nel corso della storia del capitalismo. Come la forza lavoro che dal meridione si riversava nel triangolo industriale rinfocolando il conflitto operaio negli anni Sessanta del secolo scorso, le nuove figure operaie spiazzano il racconto accomodante delle classi dominanti, segnalando un punto di crisi potenziale dell’attuale assetto sociale. Certo, diversamente dall’epoca gloriosa del conflitto operaio, questo tempo sconta l’assenza di organizzazione politica. La parola mancante, che è strumento pratico che ricompone una parte contro un’altra, dividendo e tagliando il campo tra un “noi” e un “loro”. Si gioca molto se non tutto qui, nella capacità di attraversare per salti e strappi questo passaggio, dalla fabbrica antica e moderna sino al cuore delle istituzioni.

*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza, 2017). Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur, 2018).





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