La guerra polacca

La guerra polacca


Unʼaltra conversazione con Lenin è impressa in modo indelebile nella mia memoria. Come molti di coloro che a quel tempo venivano a Mosca dallʼOccidente, dovevo rendere omaggio al cambiamento del mio stile di vita e dovevo mettermi a letto. Lenin mi fece visita. Ansiosamente, come la migliore delle madri, si informò se ricevevo cure e nutrimento adeguati, una buona assistenza medica e così via, e se desideravo qualcosa. Dietro di lui vidi il volto gentile della compagna Krupskaja. Lenin dubitava di me quando dicevo che tutto andava bene. Era particolarmente entusiasta del fatto che vivessi al quarto piano di una casa sovietica che, in teoria, ha un ascensore, ma in pratica non funziona. «Proprio come il desiderio e la volontà di rivoluzione dei kautskyani», osservò sarcastico. Ben presto la piccola nave della conversazione si spostò su canali politici.

Il gelo precoce della ritirata dellʼArmata Rossa dalla Polonia aveva soffocato la crescita del fiore rivoluzionario coltivato nei nostri pensieri quando le truppe sovietiche, con unʼavanzata audace e rapida, avevano raggiunto Varsavia. Descrissi a Lenin come aveva colpito lʼavanguardia rivoluzionaria della classe operaia tedesca, e gli Scheidemann e i Dittmann, la borghesia e la piccola borghesia, quando i “compagni”, con la stella sovietica sul berretto, in vecchi e impossibili brandelli di uniformi e abiti civili, con scarpe di fibra di tiglio o stivali sbrindellati, spronavano i loro piccoli e scattanti cavalli fino alla frontiera tedesca. «Manterranno o no lʼoccupazione della Polonia e passeranno il confine, e poi?». Questa era la domanda che a quel tempo turbava tutte le menti in Germania e per rispondere alla quale i tattici da osteria discutevano ferocemente e incessantemente. Era evidente che in tutte le classi, in tutti gli strati sociali, lʼodio sciovinista per la Polonia imperialista della guardia bianca era molto più forte di quello per la Francia, il “nemico ereditario”. Ma ancora più forte dellʼodio sciovinista per la Polonia e più convincente della riverenza per la santità del Trattato di Versailles era la paura della prospettiva della rivoluzione. Di fronte a tale pericolo, il patriottismo volubile e il pacifismo gentile si insinuarono in un angolo. Borghesi e piccoli borghesi, con i loro seguaci riformisti della classe operaia, osservavano lo sviluppo successivo degli eventi in Polonia, per metà soddisfatti e per metà spaventati.

Lenin ascoltò con attenzione le mie parole sullʼargomento e le mie osservazioni sulla posizione del Partito Comunista e dei singoli dirigenti del partito e dei sindacati riformisti. Rimase in silenzio per alcuni minuti, sprofondato nella riflessione. «Sì», disse infine, «così è accaduto in Polonia, come forse doveva accadere. Naturalmente conosci tutte le circostanze in cui si è svolta lʼazione: la nostra avanguardia, imprudentemente coraggiosa e fiduciosa, non aveva riserve di truppe o di munizioni, e non ha mai avuto nemmeno una volta abbastanza pane secco da mangiare. Dovevano requisire il pane e altri beni di prima necessità dai contadini e dalle classi medie polacche. E nellʼArmata Rossa i polacchi vedevano nemici, non fratelli e liberatori. Sentivano, pensavano e agivano non in modo socialista e rivoluzionario, ma come nazionalisti, come imperialisti. La rivoluzione in Polonia su cui contavamo non ha avuto luogo. Gli operai e i contadini, ingannati dai seguaci di Piłsudski e Daszyński¹, hanno difeso il loro nemico di classe, hanno lasciato morire di fame i nostri coraggiosi soldati rossi, hanno teso loro imboscate e li hanno picchiati a morte.

Il nostro Budënnyj è il più brillante condottiero di cavalleria del mondo. Un giovane contadino, sai? Come i soldati dellʼesercito rivoluzionario francese, portava il bastone da maresciallo nello zaino, solo che nel suo caso era la tasca della sella. Non ha grandi conoscenze di scienza militare, ma possiede un eccellente istinto strategico. È coraggioso fino alla pazzia, fino a un grado di imprudenza quasi folle. Condivide con i suoi uomini le privazioni più grandi e i pericoli più gravi, ed essi si lascerebbero fare a pezzi per lui. Lui stesso è allʼaltezza di molti squadroni. Ma tutte le eccellenze di Budënnyj e di altri capi dellʼesercito rivoluzionario non potevano compensare le nostre carenze in campo militare e tecnico, e ancor meno i nostri errori di calcolo politico – la speranza di una rivoluzione in Polonia. Radek aveva previsto come sarebbe andata a finire. Ci aveva avvertito. Mi arrabbiai molto con lui e lo accusai di “disfattismo”: Ma aveva ragione nella sua tesi principale. Conosce gli affari fuori dalla Russia, e in particolare in Occidente, meglio di noi, e ha talento. È molto utile per noi. Poco tempo fa ci siamo riconciliati grazie a una lunga conversazione politica al telefono nel cuore della notte, o meglio verso il mattino.

Tu sai, Clara, che la conclusione della pace con la Polonia ha incontrato allʼinizio una forte resistenza nel Partito, come la pace di Brest-Litovsk. Sono stato fortemente attaccato perché ero favorevole allʼaccettazione dei termini della pace, certamente favorevoli ai polacchi e duri per noi. Quasi tutti i nostri esperti sostengono che, vista la situazione polacca, e in particolare la misera posizione finanziaria del Paese, avremmo potuto ottenere condizioni molto più favorevoli se avessimo resistito un poʼ più a lungo. Anche la possibilità di una nostra vittoria completa non era esclusa. Se la guerra fosse continuata, le ostilità e i conflitti nazionali nella Galizia orientale e in altre parti del Paese avrebbero indebolito notevolmente le forze della Polonia imperialista. Nonostante le sovvenzioni e i crediti della Francia, i crescenti oneri della guerra e le difficoltà finanziarie avrebbero infine fatto insorgere gli operai e i contadini. Altre circostanze sono state citate per dimostrare che avremmo avuto maggiori possibilità continuando la guerra».

Lenin dopo una breve pausa riprese il filo dei suoi pensieri. «Io stesso credo che la nostra posizione non ci costringeva a fare la pace ad ogni costo. Avremmo potuto resistere durante lʼinverno. Ma ritenevo più saggio, da un punto di vista politico, scendere a patti con il nemico; e il sacrificio temporaneo di una dura pace mi sembrava preferibile alla continuazione della guerra. Le parole dʼordine pacifiste dei polacchi e dei loro amici – tutti imperialisti – sono, ovviamente, trucchi, nientʼaltro che trucchi. Guardano a Vrangelʼ. Ma noi useremo la pace con la Polonia per lanciare tutte le nostre forze contro Vrangelʼ e sconfiggerlo totalmente, di modo che ci lascerà per sempre in pace. Nella situazione attuale la Russia sovietica può vincere solo se dimostra con il suo atteggiamento che fa la guerra soltanto per difendersi, per proteggere la rivoluzione: che è lʼunico grande Paese di pace al mondo; che non ha alcuna intenzione di impadronirsi di terre, sopprimere nazioni o intraprendere unʼavventura imperialista. Ma soprattutto, avremmo dovuto, a meno che non fossimo assolutamente e letteralmente costretti, esporre il popolo russo al terrore e alle sofferenze di un altro inverno di guerra? I nostri eroici soldati rossi al fronte, i nostri operai e contadini, che hanno sofferto e sopportato così tanto! Un altro inverno di guerra, dopo gli anni della guerra imperialista e della guerra civile, in cui milioni di persone sarebbero perite di fame, di freddo, di stenti in un silenzio disperato. Cibo e vestiti già scarseggiano. Gli operai si lamentano, i contadini mormorano che stiamo solo togliendo loro e dando loro il nulla… No, il pensiero delle agonie di un altro inverno di guerra era insopportabile. Dovevamo fare la pace».

Mentre Lenin parlava, il suo volto si restringeva davanti ai miei occhi. Solchi, grandi e piccoli, innumerevoli, si incidevano profondamente su di esso. E ogni solco era tracciato da un grave problema o da un dolore lancinante. Sul suo volto cʼera unʼespressione di sofferenza inespressa e indicibile. Ero commossa, scossa. Nella mia mente vidi il quadro di un Cristo crocifisso del maestro medievale Grünewald. Credo che il dipinto sia conosciuto con il titolo “Lʼuomo dei dolori”. La crocifissione di Grünewald non ha alcuna traccia di somiglianza con quella del famoso martire dolce e indulgente di Guido Reni, lo “sposo dellʼanima” di tante adoranti zitelle e donne purtroppo sposate. Il Cristo di Grünewald è il martire, lʼuomo torturato, crudelmente fatto a morte, che “porta i peccati del mondo”. E come tale “uomo dei dolori” mi è apparso Lenin, gravato, trafitto, oppresso da tutto il dolore e da tutte le sofferenze del popolo operaio russo.

Si congedò poco dopo. Tra le altre cose mi disse che erano stati ordinati diecimila cappotti di pelle, abbottonati per bene, per i soldati rossi che avrebbero attaccato Perekop dal mare. Prima ancora che questi cappotti fossero pronti, ci rallegrammo per la notizia che i guardiani della Russia sovietica, stanchi morti, avevano conquistato lʼistmo sotto la guida brillante e audace del compagno Pjatakov. Fu un risultato senza precedenti da parte dei capi e dei comandanti. Anche sul fronte meridionale non ci fu un inverno di guerra.



  1. Leader del Partito Socialista Polacco.


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