La Legge debole e la forza del bullismo: un primo bilancio dell’ intervento normativo del 2017 di contrasto all’ affermazione di personalità aggressive

La Legge debole e la forza del bullismo: un primo bilancio dell’ intervento normativo del 2017 di contrasto all’ affermazione di personalità aggressive

di Michele Borello

Abstract

In questo articolo si opera una riflessione a quasi cinque anni dall’ introduzione della legge 71 del 2017 sul cyberbullismo e dalla legge lombarda numero 1 del 7 febbraio 2017 contenente la disciplina degli interventi regionali in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e del cyberbullismo.

La scarsa incidenza nel concreto di questi provvedimenti normativi suggerisce al redattore che la violenza relazionale va contrastata indipendentemente dalle forme in cui si manifesta. Nell’ articolo non si critica la scelta del legislatore di non ricorrere a nuove punizioni, non si rimprovera alla 71 del 2017 di essere una «legge debole», di non evocare sanzioni per essere rispettata. Al contrario, vi si sottolinea come lʼ istituzione di un think tank sul cyberbullismo (corrispondente alla consulta voluta dal Consiglio regionale lombardo) e il coinvolgimento dei servizi territoriali, della polizia postale, nonché delle scuole, avrebbero potuto condurre a una incisività dei pubblici poteri maggiore di quella che può ottenersi tramite la minaccia di pene di incerta applicazione.

Lo scritto riscontra il principale limite del provvedimento normativo nazionale nella focalizzazione dell’ attenzione sul mezzo tramite il quale si esprime la violenza relazionale, e non sulle motivazioni psicologiche degli atteggiamenti aggressivi.

In merito al monito di competenza del questore, il presente contributo al dibattito, da un lato evidenzia come si tratti di un procedimento sommario, che rischia di attribuire la qualifica di violento a chi non lo è, e dall’ altro sottolinea come la cessazione degli effetti alla maggiore età dellʼ ammonito potrebbe renderlo vano, temendo per questa via un discredito per le istituzioni.

Le conclusioni da un lato sottolineano che una corretta interpretazione della 71 del 2017 deve portare a rifiutare di applicare il concetto di educazione nei confronti della vittima delle vessazioni tramite web, che d’ altronde secondo la relazione che accompagna il provvedimento normativo deve essere supportata, ma non formata.

Il redattore alla fine del discorso evidenzia corrispettivamente la opportunità di estendere lʼ intervento educativo, fino a coinvolgere – oltre che l’ autore delle azioni di sopraffazione – anche il gruppo di riferimento, nella consapevolezza che il bullo si ritiene un interprete dei sentimenti del proprio ambiente sociale, e che la prepotenza è lo sbocco di questo soggetto che nella comunità evolve a volte come un deviante a volte come un leader.


Keywords

Comitatologia, legge debole, cittadinanza digitale, spinte gentili, drafting, paternalismo, think tank, empatia, sexting, persecutore, overcriminalization, vittima, gruppo, dark net, ammonimento, leader


TESTO DELL’ ARTICOLO

Quasi cinque anni per un bilancio possono apparire come un ritardo. Ma non lo sono se nel frattempo c’ è stata una pandemia, che ha chiuso molte attività sociali, tra cui le scuole, e dopo la riapertura ha impegnato molti operatori nelle problematiche del distanziamento più che in quelle delle relazioni.

Solo adesso comincia a essere praticabile uno sguardo di insieme alla applicazione della legge numero 71 del 2017, emanata per contrastare il fenomeno del cyberbullismo, un provvedimento normativo avanzato, perché dedicato specificamente a fattispecie che si verificano in rete; perché preferisce prevedere spinte gentili all’ osservanza delle regole, piuttosto che comminare sanzioni che rischiano di rimanere lettera morta data la mancanza di controlli; perché introduce una forma di contenzioso amministrato volto a evitare che si concentri nei tribunali un gran numero di cause.

La principale innovazione della normativa nazionale per il contrasto al cyberbullismo è stata individuata dai primi commentatori nel diritto potestativo del minore di ottenere la rimozione dei dati, e nella corrispondente soggezione del gestore dello spazio web che deve farsi carico di espungere dalla rete le informazioni riguardanti la vittima.

Non si nega che la regolazione ponga questioni interessanti sia con riguardo la identificazione dei gestori dei servizi telematici obbligati alla rimozione, sia con riguardo alla circostanza che tale limitazione della libertà di espressione riguarda internet e non i media tradizionali.

Ma qui si sottolinea parimenti come i recenti interventi normativi sul cyberbullismo risultino di particolare originalità sotto ulteriori punti di vista, e anzitutto sotto lʼ aspetto della tecnica legislativa, prima quindi che nel contenuto.

La 71 del 2017 costituisce infatti un esempio significativo di un diverso modo di predisporre e imporre la norma, la quale non definisce i contorni delle fattispecie e non commina precise sanzioni, ma preferisce lasciare al livello amministrativo e alla partecipazione della società civile la definizione dei casi cui si applica, e opta per orientare le scelte dei cittadini evitando punizioni vere e proprie, ma ponendo in essere strategie in grado di indirizzarle con «spinte gentili» come direbbe Sunstein1.

È perciò che si suggerisce di definire legge debole la normativa nazionale sul cyberbullismo, parafrasando così lʼ espressione pensiero debole ormai dʼ uso corrente, e sottolineando in tal modo come si tratti di una regolazione che abdica alla tradizionale supremazia della dimensione giuridica per riformulare la nozione di obbedienza alla norma.

Questa tecnica di produzione del diritto non si è dimostrata particolarmente efficace, tanto da sembrare a alcuni una velleitaria e demagogica manifestazione di intenti, non essendo intervenuto un intervento di prevenzione dei comportamenti aggressivi in larga scala.

Al contrario, qui non si crede che la mancanza di incisività della legge sia determinata dalla preferenza per la tecnica della spinta gentile rispetto a quella della previsione di una sanzione vera e propria.

Si plaude anzi alla circostanza che il Parlamento nazionale – pur essendo intervenuto sul tema del cyberbullismo sulla base di una pressione emozionale suscitata da episodi di cronaca, enfatizzati da una campagna di stampa molto attiva tra il 2016 e il 2017 – non sia caduto nella lusinga di cui sono state vittime altre leggi determinate dalla empatia mediatica per accadimenti emblematici, che non necessariamente sono indici di una emergenza statistica.

Si pensa anzi che la 71 del 2017 abbia fatto bene a non minacciare roboanti sanzioni, o a istituire ulteriori e figure di reato, tanto più che non ha nemmeno incrementato pene, del resto già sovrabbondanti.

La tentazione cʼ era stata, perché uno dei due rami del Parlamento aveva modificato il testo originario nel senso di rendere reato il bullismo telematico. Ma la nuova disciplina ha infine preferito dare un primo segnale di inversione della tendenza a inflazionare la criminalizzazione dei comportamenti, che nei fatti si traduce in una diminuzione della capacità regolativa del diritto, sia per la oggettiva difficoltà a perseguire i reati in ambienti dove spesso la vittima è anche vessatore, sia per la opportunità di contemperare il contrasto ai soprusi tramite internet con la necessità di non comprimere il diritto di libera espressione sulla rete informatica.

Possiamo così sperare che il legislatore in tal modo abbia finalmente incominciato a comprendere che la semplice affermazione di una prescrizione, e la previsione di una punizione non costituiscono elementi sufficienti a rendere giuridicamente effettiva una disciplina, per quanto formulata nelle modalità previste dalla carta costituzionale e a seguito di un dibattito democratico.

Che vi sia questo pericolo risulta evidente se si pone attenzione a tante leggi che le sentenze interpretano in senso restrittivo, alle discipline cui non sono conseguiti necessari regolamenti attuativi, ovvero che sono rimaste prive di finanziamento, ma anche a quelle norme le cui sanzioni non possono essere imposte perché gli apparati repressivi non sono operativi, o perlomeno non hanno sufficienti risorse, e infine a quelle discipline che suscitano una protesta sociale insormontabile da istituzioni democratiche e tolleranti.

Lʼ ordinamento sostanziale è quindi costituito dalle prescrizioni davvero applicate sulla base di pressioni contingenti, di orientamenti giurisprudenziali e di scelte politiche, mentre solo formalmente appartengono alla dimensione giuridica quelle regole che non sono applicate nella prassi.

Lʼ assioma secondo cui le norme in vigore hanno tutte la stessa valenza non corrisponde alla concretezza dei fatti, cosicché bisogna ammettere che la tecnica di regolazione di un fenomeno si deve adattare ai contesti storici e agli strumenti a disposizione al fine di rendere effettiva la tutela che il legislatore intende offrire.

Scrivere una legge in questo quadro significa porsi il problema della incidenza del dettato normativo e quindi suscitare un movimento politico o almeno un indirizzo amministrativo verso gli obiettivi delineati dal legislatore, risultando ormai del tutto improbabile – in tempi di overcriminalization – che la semplice previsione di una pena possa indurre i destinatari al rispetto e alla reale attuazione di una disciplina.

In tali casi, il drafting – ossia la tecnica di predisposizione del testo normativo – non è solo una questione di intelligibilità o di uniformità interpretativa, ma un problema retorico più complesso. Si tratta di prospettare un tema alla comunità e persuadere gli attori sociali della opportunità di affrontarlo seguendo determinate pratiche nellʼ ordinario e reagendo in determinate modalità di fronte al verificarsi di specifiche crisi.

La normativa nazionale sul fenomeno del cyberbullismo si situa in questo contesto critico e tende allʼ effettività, scegliendo il principio della sussidiarietà della sanzione e non contribuendo alla populistica ipertrofia delle punizioni (tendenza finora apparentemente inarrestabile), bensì ponendosi come un quadro legislativo, una direttiva di una serie di interventi politici a livello regionale, di prassi amministrative nel campo dellʼ istruzione e della sanità, di attività spontanee del terzo settore, offrendosi cioè come norma in bianco che le comunità supportate dalle burocrazie e col sostegno delle forze partitiche e istituzionali possono riempire a seconda della loro sensibilità al fenomeno.

In tale prospettiva, a parere di chi scrive, va letta la istituzione presso la Presidenza del Consiglio di un tavolo tecnico sul cyberbullismo, e in Regione Lombardia di una Consulta sul bullismo e il cyberbullismo, nei confronti dei quali sono state lanciate accuse di comitatologia, anche se in questi anni non si è letta una espressione ancora più denigratoria come quella di comitatocrazia che pure si sente sussurrare.

Si tratta invece del progetto di veri e propri think tank sul fenomeno, cui sono chiamati a intervenire le agenzie governative e le associazioni degli stakeholder di settore, che parteciperanno fattivamente al progetto e daranno il loro contributo costruttivo anche senza le risorse che sarebbero necessarie, purché vi sarà la pressione della opinione politica, sollecita nellʼ esprimere lʼ esigenza sociale di intervenire su condotte violente che suscitano allarme nella comunità.

Questi serbatoi di idee non costituiscono una novità assoluta, in quanto cyberbulling taskforce sono state già istituite in Gran Bretagna e in Nuova Zelanda, dove però non hanno inciso in maniera decisiva perché si sono limitati a tentare di allontanare da Internet il vituperio piuttosto che cercare di combattere le soverchierie puramente e semplicemente.

In questo senso è da considerare positivamente la normativa lombarda (la legge 1 del 7 febbraio 2017 di disciplina degli interventi regionale in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e del cyberbullismo), dato che la consulta regionale è rivolta a contrastare il bullismo in generale e non solo il cyberbullismo come accade per il tavolo tecnico previsto dall’ ordinamento nazionale.

Ma si possono notare altre distinzioni nell’ operato dei due comitati in questi anni, dato che quello lombardo appare più tecnico e più orientato al rapporto con la scuola, essendo costituito anche da un rappresentante dellʼ amministrazione dellʼ Istruzione.

I think tank sul bullismo telematico hanno sostanzialmente due compiti: definire il fenomeno e indicare le modalità per contrastarlo.

Anzitutto devono contribuire a demarcare la fattispecie che la legge regionale non descrive e quella nazionale espone in termini così ampi da dover essere considerati vaghi in un campo e in un contesto dove le manifestazioni antigiuridiche assumono aspetti variabili e volubili, cosicché ogni tentativo di precisarne a priori i contorni risulta irrealistico.

La stessa definizione di cyberbullismo fornita a maggio dalla 71 del 2017 è da considerarsi incompleta già a distanza di questi pochi anni, in cui è emersa la tendenza dei violenti a indurre la vittima a costruire la tela di ragno che la opprime.

Non è infatti raro che i bulli pretendano che il loro bersaglio si assoggetti a una sorveglianza telematica, e dunque che lasci che la posizione del di lui smartphone venga tracciata o che la telecamera del di lui personal device rimanga attiva.

Tante volte, inoltre, i prepotenti costringono i loro pari a inserirsi in giochi di ruolo in posizione subalterna e sottomessa, grazie al senso di insicurezza e solitudine che si vive nell’ adolescenza, che può portare a rendersi succubi pur di partecipare alla comitiva ritenuta a torto di prestigio e pur di sfuggire allʼ isolamento.

La fattispecie mutevole deve quindi essere continuamente precisata, cosicché un compito della legge, quello di prevedere una ipotesi astratta, diventa una mansione amministrativa, come dʼ altronde da sempre avviene quando la norma demanda a atti governativi la puntualizzazione delle quantità o di nuovi particolari che definiscono il caso a cui si deve applicare una disciplina.

Il tavolo tecnico e la consulta risultano però in ritardo nello svolgere la funzione di elaborare le strategie che le autorità di polizia insieme agli operatori sanitari e scolastici devono seguire per opporsi a un fenomeno che può essere contrastato solo se i giovani prevaricatori sono indotti a partecipare alla propria redenzione, grazie a un percorso di scelte attive al termine del quale a questi prepotenti siano offerti incentivi morali e persino occasioni di miglioramento esistenziale.

Il compito dei comitati è indicare come per i soggetti interessati possa essere reso sconveniente ricorrere a pratiche di sopraffazione, sia nel senso che la decisione di perseguitare sulla rete una persona va ritenuta moralmente deplorevole sia nel senso che la scelta di compiere un atto di bullismo – specie se telematico – deve portare chi la compie a scapitarci non solo da un punto di vista prettamente economico ma anche nella reputazione sociale.

Si tratta quindi di costruire una architettura delle scelte, nel senso indicato da Sunstein1, facendo leva oltre che sullʼ irruenza pure sullʼ opportunismo dei gradassi in erba, che – come i fumatori sono scoraggiati sia dalle immagini stampate sui pacchetti sia dal prezzo elevato delle sigarette – vanno dissuasi dal continuare a tenere comportamenti lesivi della personalità altrui.

Ma circa i compiti dei comitati vi sono anche aspetti problematici, tra cui si vuole segnalare la questione dellʼ estensione delle funzioni, e cioè se i think tank abbiano la facoltà di occuparsi non solo dellʼ uso di internet come mezzo per esercitare soverchieria, ma di prevenire i comportamenti molesti, aggressivi o oppressivi di per sé, a prescindere dallo strumento usato per perpetrarli, e quindi della inclinazione degli adolescenti a ledere i coetanei senza provare compassione, o – come si dice con il linguaggio della psicologia – senza avere empatia nei confronti del prossimo.

Come sopra accennato, la consulta regionale è espressamente rivolta al contrasto del bullismo in quanto tale, indipendentemente se per compiere angherie si usi il mezzo informatico o meno.

Nulla osta a che l’ operato del comitato lombardo si orienti a far accrescere l’ empatia in chi dà segni di aggressività eccessiva, di indifferenza verso gli altri.

Ma nel senso di interpretare estensivamente anche i compiti del tavolo tecnico nazionale ci orientano i lavori preparatori della 71 del 2017 e in particolare un ordine del giorno dei deputati Coppola, Barbanti, Dallai, Beni, Carrozza e Palese, secondo cui occorre «prevenire e contrastare il bullismo e le sue versioni tecnologiche, e non solamente queste ultime, perché le seconde sono possibili solamente in presenza del primo».

I think tank possono e quindi devono consigliare gli accorgimenti utili a incidere sulla personalità in evoluzione del prepotente, e specialmente di quello che sulla rete tenta di sfuggire alle regole della quotidianità, manipola la gente, si presenta con nomi falsi, non ha scrupoli a diffamare e a screditare, cerca di violare la corrispondenza e lʼ identità altrui.

Un ulteriore strumento alternativo di contrasto al cyberbullismo predisposto dalla 71 del 2017 è lʼ ammonimento del questore, un istituto già comparso nel diritto italiano, ma che è ben conosciuto in ambito canonico, dove da tempo immemorabile si prevede il monito vescovile.

Si tratta di un atto conclusivo di un procedimento avviato a richiesta della vittima, che prevede una istruzione amministrativa sommaria, e si conclude con la convocazione davanti allʼ autorità di polizia del presunto bullo, che – alla presenza di chi esercita la potestà genitoriale – riceve un monito a voce, del quale è redatto verbale, la cui copia è consegnata anche allʼ istante.

Difficilmente può sfuggire che questa previsione attribuisce la qualificazione di bullo a chi non è dimostrato che lo sia, non potendo essere considerata affidabile una istruttoria amministrativa e sommaria senza il contraddittorio di una difesa, che non ha corrispondenza neppure nell’ inquisizione, dove comunque il colpevole era ammesso a cimenti in grado di scagionarlo.

Un errore nella identificazione del vessatore da parte dell’ autorità di polizia non è una ipotesi teorica, data l’ insidiosità del mezzo informatico, e non potendosi escludere né la evenienza che l’ atto scoperto sia in realtà una reazione a una precedente soverchieria, né l’ ipotesi che il vero prepotente si celi dietro un gregario, che si troverebbe a dover accettare di essere rimproverato in vece del piccolo boss che lo domina.

Forse anche per questo la 71 del 2017 non permette che l’ avvertimento di polizia possa avere conseguenze oltre la maggiore età del destinatario, escludendo quindi che possa costituire una aggravante come accade in caso di stalking.

Si tratta di una previsione corretta, che però – se intesa in senso ampio – priverebbe della possibilità di valutare se lʼ atto di cyberbullismo – che ha provocato lʼ intervento della autorità di polizia – sia stato la premessa di un comportamento deviante vero e proprio con la commissione di reati in età adulta.

Si deve quindi vagliare se e in che misura – pur non potendo divenire un precedente alla maggiore età – il monito deve comunque essere reso conoscibile dalle autorità che si trovassero a indagare sullʼ ammonito fattosi adulto, ovvero dai periti chiamati a valutarne lʼ imputabilità in sede di processo, o la personalità in sede di eventuale esecuzione della pena.

Una soluzione diversa condurrebbe tra lʼ altro a svalutare lʼ autorità di polizia che inscena un solenne monito nei confronti di un diciassettenne, per poi doverlo accuratamente cancellare qualche mese dopo, finendo così per confermare il bullo nella propria convinzione di poter continuare a tormentare gli altri e di poter sbeffeggiare le istituzioni.

Non c’ è dubbio comunque che una maggiore affidabilità dellʼ accertamento di polizia per ricostruire i fatti denunciati dalla vittima risulta indispensabile per poter conservare negli archivi di polizia il verbale dell’ ammonimento.

Meglio sarebbe dunque, sulla scorta di quanto avviene nel processo civile nel caso di ingiunzione di pagamento, prevedere come modalità di partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo una fase di opposizione al monito di fronte alla stessa autorità che lo ha emesso, consentendo così ai genitori dell’ ammonito di aprire una fase di approfondimento per determinare le effettive responsabilità, non potendosi ritenere adeguata a tal fine l’ onerosa impugnazione in sede giurisdizionale.

Fatto sta che le normative sul bullismo (nazionali o regionali che siano) hanno rivoluzionato il modo di affrontare lʼ aggressività negli adolescenti.

Si passa dalla indulgenza nei confronti del nonnismo, che si riscontrava non soltanto nelle caserme, alla concezione attuale che mobilita le risorse più disparate, per scorgere e contrastare le vessazioni.

Si passa dallʼ ammiccamento nei confronti della sfrontatezza, ritenuta come una premessa per la formazione di un individuo vincente, alla valutazione della pericolosità della personalità di chi riduce sia i compagni che gli estranei ad oggetti.

Il bullo, se prima poteva sentirsi un campione in erba, adesso è considerato come un limite per il benessere e la crescita di un gruppo, al punto da doverlo contenere e correggere, rieducare quindi.

Si tratta di un cambiamento notevole, che può giungere a conseguenze sociali davvero incisive se, nella mentalità diffusa, la capacità di affermarsi ponendo in secondo piano le esigenze degli altri smette di essere una tappa fondamentale dellʼ apprendistato di un leader.

Con questa espressione non ci si riferisce a illuminate guide politiche, bensì a chi riesce a porsi in una posizione rilevanti nella società, ricoprendo ruoli intermedi, che attribuiscono una prevalenza nei confronti di alcuni, grazie alla piaggeria nei confronti di qualcun altro.

In una organizzazione civile decadente, che non è tesa a far emergere l’ encomiabile, ma a premiare il fidato attribuendogli un potere immeritato, è normale che si imponga chi agisce senza riguardo per nessuno.

Importanti saggisti hanno riscontrato che chi non si fa scrupoli (e tratta le persone come pedine su una scacchiera) ha un grande vantaggio nellʼ affermarsi politicamente nei confronti di quelli che rispettano il prossimo, ne ascoltano le opinioni, ne condividono i bisogni.

Classico in questo ambito di approfondimento è l’ intervento di Hugh Freeman2, a cui si rimanda, proprio per leggere un arguto esame del legame tra i disturbi antisociali e il raggiungimento di posizioni di preminenza nelle organizzazioni politiche.

Lʼ educazione in senso contrario dei bulli può quindi influenzare in futuro le scelte e le caratteristiche dellʼ intera società.

Se però è auspicabile una azione pedagogica verso i responsabili di soverchierie, suscita forte perplessità lʼ intento educativo indirizzato non solo al persecutore ma anche alla vittima.

Nel primo comma dellʼ articolo uno della 71 del 2017 è scritto chiaramente che lʼ intervento pedagogico è rivolto ai minori coinvolti sia nella posizione di vittima che di responsabile di illeciti.

Ora, se si capisce la buona intenzione di attrezzare una ragazza o un ragazzo a sottrarsi, a essere resiliente, a difendersi, a chiedere aiuto e a reagire nei confronti di atti di bullismo, occorre anche considerare il diritto di questa persona a non sottoporsi a un training solo perché qualcun altro ha deciso di essere aggressivo.

Suscita quindi forti perplessità imporre un percorso educativo a chi non è autore di un illecito, e quindi non ha nessuna colpa.

Costui o costei ha diritto a non subire alcuna ingerenza educativa e di considerarsi libero o libera di essere come è, senza doversi per legge adattare a un contesto sociale ostile, potendo anzi pretendere sic et simpliciter che chiunque si astenga dal porre in essere comportamenti invadenti e aggressivi.

Va poi operata una riflessione sull’ inclusione, laddove il bullo tenda a rendersi protagonista della tutela della persona svantaggiata, in maniera da crearsi un alibi morale per le angherie che rivolge non a chi è debolissimo e non svolge un ruolo sociale rilevante, ma verso chi è poco più debole della media, e costituisce l’ obbiettivo preferito da chi intende affermare la propria personalità a scapito degli altri.

Non sfugge a chi scrive la statistica secondo cui chi è bersaglio di atti di bullismo tende poi a perpetrarli, e non per vendetta, ma nei confronti di altri soggetti, magari più deboli.

E si è anche consapevoli dellʼ ampia letteratura in campo criminologico che descrive come alcune personalità tendono a mettersi in una posizione di maggiore esposizione a essere destinataria di soprusi e angherie.

Ma qui si preferisce optare per la tesi secondo cui la vittima è indicata dal contesto sociale, non tanto e non solo perché è portatrice di un segno vittimario, ma perché è una esigenza del gruppo scaricare le proprie ansie su un soggetto.

E qui si sostiene che il bullo agisce, perché si ritiene lʼ unico ad avere la forza necessaria per fare quello che gli altri vorrebbero fare, il coraggio che serve per dire quel che gli altri riescono solo a sussurrare.

Il cyberbullo parimenti vede aumentare esponenzialmente i suoi followers proprio dopo aver perpetrato lʼ atto di denigrazione tramite la rete informatica, e non importa se il seguito approva il gesto del prepotente telematico ovvero è spinto solo curiosità malsana, quello che conta è che il vessatore esce dallʼ anonimato, ottiene il successo che ha sempre aspettato e non ha mai raggiunto.

La legge sul bullismo chiede che lʼ educazione si rivolga agli individui ma ancora non arriva a affermare che debba rivolgersi al gruppo sociale dove risiede il bisogno di forza che è ispiratore del gesto offensivo.

Molte volte lʼ aggressore non è antisociale ma anzi col proprio gesto cerca un plauso sociale. Scrive René Girard3 «i persecutori sono convinti del giusto fondamento della loro violenza; essi si considerano giustizieri, hanno bisogno quindi di vittime colpevoli».

Ne consegue che se un intervento educativo risulta opportuno, oltre quello rivolto al vessatore, è quello rivolto alla collettività, dove si concretizza il rapporto vittimario, perché è il gruppo che deve imparare a non deprecare le diversità e a non tendere a uniformare i comportamenti, fino a avere la cura necessaria per consentire, a ogni essere nel mondo, di riconoscersi come un essere speciale.


Note


  1. Cass R. Sunstein, «Semplice. L’ arte del governo nel terzo millennio», Feltrinelli
  2. Hugh Freeman, «Le malattie del potere», Garzanti
  3. René Girard, «Il capro espiatorio», Adelphi




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