La Cooperazione Semplice

La Cooperazione Semplice


Karl Marx, 5 Maggio 1818 - 14 Marzo 1883

Dal Capitolo XI del Capitale, edizione UTET

La produzione capitalistica, come abbiamo visto, comincia veramente solo allorché lo stesso capitale individuale occupa contemporaneamente un numero abbastanza elevato di operai, e quindi il processo lavorativo estende la propria area fornendo prodotti su scala quantitativa rilevante. Un gran numero di operai che funzionino nello stesso tempo, nello stesso spazio (o, se si vuole, nello stesso campo di lavoro), per la produzione dello stesso genere di merci e sotto il comando dello stesso capitalista, forma sia storicamente che concettualmente il punto di partenza della produzione capitalistica. Dal punto di vista del modo di produzione, per esempio, la manifattura ai suoi primordi non si distingue dall'industria artigianale di tipo corporativo, che per il maggior numero di operai occupati simultaneamente dallo stesso capitale: si ha, qui, solo un ampliamento dell'officina del mastro artigiano. La differenza, per ora, è puramente quantitativa.
Si è visto che la massa del plusvalore prodotto da un dato capitale è eguale al plusvalore che fornisce il singolo operaio, moltiplicato per il numero di operai occupati contemporaneamente. In sé e per sé, questo numero non modifica il saggio di plusvalore, ossia il grado di sfruttamento della forza lavoro, e ogni mutamento qualitativo del processo di lavoro sembra, ai fini della produzione di valore in merci in generale, indifferente. Lo vuole la natura stessa del valore. Se una giornata lavorativa di 12 ore si oggettiva in 6sh., 1200 di tali giornate si oggettiveranno in 6sh. x 1200: in un caso risulteranno incorporate nei prodotti 12 x 1200 ore di lavoro, nell'altro solo 12. Nella produzione di valore, i molti contano soltanto come molti singoli: ad essa è quindi indifferente che 1200 operai producano isolatamente oppure riuniti sotto il comando del medesimo capitale.

Entro certi limiti, tuttavia, una modificazione ha luogo. Lavoro oggettivato in valore è lavoro di qualità sociale media, quindi esplicazione di forza lavoro media. Ma una grandezza media esiste sempre soltanto come media di più grandezze individuali diverse dello stesso tipo. In ogni ramo di industria, l'operaio individuale, Pietro o Paolo, diverge più o meno dall'operaio medio. Questi scarti individuali, che in matematica si chiamano «errori», si compensano fino a scomparire non appena si riunisca un numero abbastanza elevato di operai. Basandosi sulle sue esperienze pratiche di fittavolo, il celebre sofista e sicofante Edmund Burke pretende addirittura di sapere che, già per un «plotone così esiguo» come 5 servi di fattoria, ogni differenza individuale nel lavoro svanisce, cosicché i primi cinque servi di fattoria inglesi adulti presi a caso compiono insieme nello stesso tempo esattamente il lavoro di altri cinque lavoranti qualsiasia. Comunque stiano le cose, è chiaro che la giornata lavorativa globale di un numero considerevole di operai occupati nello stesso tempo, divisa per il loro numero, è in sé e per sé giornata di lavoro sociale medio. Supponiamo che la giornata lavorativa del singolo duri 12 ore. La giornata lavorativa di 12 operai occupati contemporaneamente costituisce allora una giornata lavorativa globale di 144 ore e, sebbene il lavoro di ognuno dei 12 operai possa discostarsi più o meno dal lavoro sociale medio, e quindi il singolo possa aver bisogno per la stessa operazione di un tempo più o meno lungo, la giornata lavorativa di ciascuno, in quanto dodicesima parte della giornata lavorativa globale di 144 ore, possiede la qualità sociale media. Ma, per il capitalista che occupa una dozzina di operai, la giornata lavorativa esiste come giornata lavorativa globale di cui la giornata lavorativa del singolo è solo un'aliquota, sia che i dodici cooperino a un lavoro d'insieme, sia che l'unico legame fra le loro prestazioni risieda nel fatto di lavorare tutti per lo stesso capitalista. Se, viceversa, i 12 operai fossero ripartiti a due a due fra sei piccoli padroni, diverrebbe casuale che ognuno di questi producesse la stessa massa di valore, e quindi realizzasse il saggio generale di plusvalore. Si verificherebbero scarti individuali. Se un operaio consuma nella produzione di una merce un tempo sensibilmente superiore a quello socialmente richiesto allo stesso scopo, se il tempo di lavoro individualmente necessario per lui diverge in grado notevole dal tempo di lavoro medio o socialmente necessario, allora né il suo lavoro conta come lavoro medio, né la sua forza lavoro come forza lavoro media: o non si venderà affatto, o si venderà soltanto al disotto del valore medio della forza lavoro.
Un minimo di abilità è quindi sempre presupposto, e più oltre vedremo come la produzione capitalistica trovi il modo di misurarlo. Ma non è men vero che questo minimo diverge dalla media, e tuttavia il valore medio della forza lavoro dev'essere pagato. Ne segue che uno dei sei piccoli «mastri» ricaverà qualcosa più del saggio generale di plusvalore, un altro qualcosa meno. Le diseguaglianze si compenseranno per la società, ma non per il singolo. Dunque, per il produttore individuale, la legge della valorizzazione si realizza pienamente solo ove egli produca come capitalista, impieghi molti operai nello stesso tempo, e quindi metta in opera fin dall'inizio lavoro sociale medio.

Anche se il modo di lavoro resta invariato, lo stesso impiego contemporaneo di un numero elevato di operai provoca una rivoluzione nelle condizioni oggettive del processo di lavoro. Edifici in cui molti operai lavorano, depositi di materia prima ecc., recipienti, utensili, apparecchi, insomma una parte dei mezzi di produzione che servono contemporaneamente o alternativamente a molti, vengono ora consumati in comune nel processo lavorativo. Da un lato, il valore di scambio delle merci, e quindi anche dei mezzi di produzione, non è affatto accresciuto da un maggior sfruttamento del loro valore d'uso; dall'altro, la scala dei mezzi di produzione collettivamente utilizzati aumenta. Un locale in cui 20 tessitori lavorino coi loro 20 telai dev'essere, certo, più spazioso della stanza di un tessitore indipendente che occupi due garzoni: ma la costruzione di un laboratorio per 20 persone costa meno lavoro che la costruzione di 10 laboratori per due persone ciascuno. In genere, quindi, il valore di mezzi di produzione comuni e concentrati in massa non cresce proporzionalmente al loro volume e al loro effetto utile. I mezzi di produzione usati in comune cedono al prodotto singolo una minor parte componente del valore, sia perché il valore globale che gli trasmettono si distribuisce contemporaneamente su una massa superiore di prodotti, sia perché, in confronto ai mezzi di produzione isolati, entrano nel processo produttivo con un valore che è bensì maggiore in assoluto, ma, se si considera il suo campo di azione, è relativamente minore. Ne segue che la parte di valore del capitale costante decresce e perciò, proporzionalmente alla sua grandezza, decresce il valore globale della merce: l'effetto è il medesimo che se la fabbricazione dei mezzi di produzione della merce costasse meno. Questa economia nell'impiego dei mezzi di produzione nasce unicamente dal loro consumo in comune nel processo lavorativo di molti operai. E tale carattere di condizioni del lavoro sociale, o di condizioni sociali del lavoro (a differenza dei mezzi di produzione dispersi e relativamente costosi di lavoratori o piccoli mastri indipendenti e isolati) essi ricevono, anche quando i molti cooperano soltanto nello spazio, cioè l'uno accanto all'altro, non in collegamento reciproco. Una parte dei mezzi di lavoro assume perciò carattere sociale prima che assuma carattere sociale lo stesso processo lavorativo.

L'economia nei mezzi di produzione va considerata, in genere, sotto un duplice punto di vista: primo, in quanto riduce il prezzo delle merci, e quindi il valore della forza lavoro; secondo, in quanto modifica il rapporto fra il plusvalore e il capitale totale anticipato, cioè la somma di valore delle sue parti componenti costante e variabile. Dell'ultimo punto tratteremo solo nella I se zione del III libro di quest'opera, alla quale, per motivi di coerenza interna, rinviamo molto di ciò che troverebbe posto nel capitolo presente. Lo stesso sviluppo dell'analisi impone questo frazionamento del tema che, del resto, corrisponde anche allo spirito della produzione capitalistica. Infatti, poiché qui le condizioni del lavoro si ergono come potenze autonome di fronte all'operaio, anche la loro economia si presenta come una particolare operazione che non lo riguarda affatto, ed è quindi distinta dai metodi che elevano la sua produttività personale.

La forma del lavoro di molte persone operanti secondo un piano l'una accanto e insieme all'altra in un medesimo processo di produzione, o in processi produttivi diversi ma reciprocamente collegati, si chiama cooperazione.
Come la forza d'attacco di uno squadrone di cavalleria, o la forza di resistenza di un reggimento di fanteria, è essenzialmente diversa dalla somma delle forze di attacco e resistenza sviluppate isolatamente da ogni singolo cavaliere o fante, così la somma delle forze meccaniche di operai isolati è diversa dalla potenza sociale che si sviluppa allorché molte braccia cooperano nello stesso tempo allo stesso lavoro indiviso: per esempio, allorché si tratta di sollevare un peso, di girare un argano, o di rimuovere un ostacolo dal proprio cammino. Qui l'effetto del lavoro combinato non potrebb'essere prodotto dal lavoro di un singolo; o lo potrebbe solo in un tempo molto più lungo o su scala infinitesima. Siamo qui di fronte non solo all'aumento della forza produttiva individuale mediante cooperazione, ma alla creazione di una forza produttiva che, in sé e per sé, dev'essere forza di massa.
Anche a prescindere dal nuovo potenziale energetico che si sprigiona dalla fusione di molte forze in una forza collettiva, nella maggioranza dei lavori produttivi il puro e semplice contatto sociale genera una emulazione e una peculiare eccitazione degli spiriti vitali (animal spirits), che elevano la capacità individuale di rendimento dei singoli, cosicché una dozzina di uomini cooperanti nella stessa giornata lavorativa di 144 ore fornisce un prodotto globale molto maggiore che 12 operai isolati ognuno dei quali lavori 12 ore giornaliere, o che un operaio il quale lavori per 12 giorni consecutivif. La causa di ciò risiede nel fatto che l'uomo è per natura se non un animale politico, come vuole Aristotele, comunque un animale sociale.

Benché molti compiano insieme e nello stesso tempo la medesima operazione, ovvero operazioni analoghe, il lavoro individuale di ciascuno, come parte del lavoro collettivo, può rappresentare fasi diverse del processo lavorativo, che grazie alla cooperazione l'oggetto del lavoro percorre più rapidamente. Così, quando dei muratori fanno catena per passarsi di mano in mano le pietre da costruzione dai piedi fino alla cima di un'impalcatura, ognuno di essi fa, è vero, la stessa cosa, ma le operazioni singole formano parti continue di un'unica operazione combinata, fasi particolari che ogni pietra da costruzione deve percorrere nel processo lavorativo, e attraverso le quali le 24 mani dell'operaio collettivo la fanno passare più in fretta delle due mani di un singolo operaio che salga e scenda da quell'impalcaturah: l'oggetto del lavoro supera così lo stesso spazio in un tempo più breve. D'altra parte, si verifica combinazione del lavoro quando, per esempio, si inizia una costruzione contemporaneamente da più lati, sebbene gli individui cooperanti facciano la stessa cosa o cose dello stesso genere. La giornata lavorativa combinata di 144 ore, che prende d'assalto l'oggetto del lavoro da parti diverse dello spazio, poiché l'operaio combinato o il lavoratore collettivo ha occhi e mani davanti e di dietro e possiede fino a un certo punto il dono della ubiquità, fa marciare il prodotto totale più speditamente che 12 giornate lavorative di 12 ore di operai più o meno isolati, costretti ad effettuare in modo più unilaterale la propria mansione. Qui, parti diverse del prodotto separate nello spazio maturano nel medesimo tempo.
Abbiamo sottolineato il fatto che i molti i quali si completano a vicenda fanno la stessa cosa, o fanno cose analoghe, perché questa forma di lavoro in comune, la più semplice, ha una parte di rilievo anche nelle forme più evolute della cooperazione. Se il processo lavorativo è complicato, la pura massa dei cooperanti permette di distribuire fra diverse mani differenti operazioni; quindi, di eseguirle contemporaneamente e perciò di ab breviare il tempo di lavoro necessario per ottenere il prodotto totale.

In molti rami della produzione si presentano momenti critici — epoche determinate dalla natura stessa del processo lavorativo —, durante i quali è necessario ottenere nel lavoro certi risultati. Se si deve tosare un gregge di pecore, o mietere e immagazzinare il grano di un certo numero di iugeri di terreno, la qualità e la quantità del prodotto dipendono dal fatto che l'operazione cominci e sia condotta a termine in un dato momento. Il periodo di tempo che il processo lavorativo può occupare è qui prescritto, come (mettiamo) nella pesca delle aringhe. Ora, mentre da un giorno il singolo non può ritagliarsi che una giornata lavorativa, poniamo, di 12 ore, la cooperazione di 100 individui amplia la giornata di 12 ore in una giornata lavorativa di 1200. Qui la brevità del periodo di lavoro è compensata dalla grandezza della somma di lavoro gettata al momento decisivo nel campo di produzione; l'azione svolta tempestivamente è condizionata dall'impiego contemporaneo di diverse giornate lavorative combinate, e l'entità dell'effetto utile dal numero degli operai; numero che però rimane sempre inferiore a quello di operai isolati che nel medesimo arco di tempo riempiano il medesimo campo di azione. È per mancanza di questa cooperazione che, nella parte occidentale degli Stati Uniti, si spreca ogni anno una massa enorme di grano e, in quelle parti dell'India in cui la dominazione inglese ha distrutto l'antica comunità di villaggio, va sciupata una massa ingente di cotone.

Da un lato, la cooperazione permette di estendere la sfera di azione del lavoro e quindi, per dati processi lavorativi, è richiesta anche solo dalla connessione nello spazio fra gli elementi dell'oggetto di lavoro, come nel caso del prosciugamento di terreni, della costruzione di argini, dell'irrigazione, dell'apertura di canali, strade, ferrovie, ecc.; dall'altro permette, relativamente alla scala della produzione, una contrazione spaziale del campo di quest'ultima. Questa limitazione della sfera spaziale del lavoro accompagnata da una contemporanea estensione della sua sfera di azione, grazie alla quale si risparmia una massa di spese improduttive (faux frais), nasce dall'agglomerazione degli operai, dalla riunione di diversi processi lavorativi, e dalla concentrazione dei mezzi di produzione.
In confronto ad una somma eguale di giornate lavorative individuali isolate, la giornata lavorativa combinata produce masse più grandi di valore d'uso, e perciò riduce il tempo di lavoro necessario per produrre un determinato effetto utile. Sia che, nel caso specifico, essa riceva questa forza produttiva accresciuta perché eleva il potenziale di forza meccanica del lavoro, sia che la riceva perché ne estende la sfera di azione nello spazio, o perché restringe il campo spaziale della produzione in rapporto alla scala della produzione medesima, o perché nel momento critico mette in moto in poco tempo molto lavoro, o perché stimola l'emulazione dei singoli e ne attiva gli spiriti vitali, o ancora perché imprime alle operazioni dello stesso tipo il suggello della continuità e della multilateralità, o perché esegue operazioni diverse nello stesso tempo, o perché economizza i mezzi di produzione mediante il loro uso in comune, o infine perché conferisce al lavoro individuale il carattere di lavoro sociale medio, in tutte queste circostanze la forza produttiva specifica della giornata lavorativa combinata è forza produttiva sociale del lavoro, o forza produttiva del lavoro sociale. Essa nasce dalla cooperazione medesima. Nel collaborare con altri secondo un piano, l'operaio si spoglia dei propri limiti individuali e sviluppa le proprie facoltà di specie.

Se gli operai in genere non possono collaborare immediatamente senz'essere riuniti e la loro agglomerazione in un dato spazio è quindi la premessa della loro cooperazione, gli operai salariati non possono cooperare senza che lo stesso capitale, lo stesso capitalista, li impieghi contemporaneamente, e perciò acquisti contemporaneamente le loro forze lavoro. Il valore complessivo di queste forze lavoro, cioè la somma dei salari degli operai per la giornata, la settimana ecc., deve quindi essere riunito nelle tasche del capitalista prima che le stesse forze lavoro vengano riunite nel processo produttivo. Il pagamento di 300 operai in una sola volta, anche soltanto per un giorno, esige un esborso di capitale maggiore, che il pagamento di pochi operai settimana per settimana durante l'intero anno. Perciò il numero di operai cooperanti, cioè la scala della cooperazione, dipende in primo luogo dall'ammontare del capitale che il singolo capitalista può investire nella compera di forza lavoro, cioè dalla misura in cui egli dispone dei mezzi di sussistenza di un numero abbastanza elevato di operai.
E, per il capitale costante, accade come per il capitale variabile. La spesa in materie prime, ad esempio, è trenta volte maggiore per un capitalista il quale occupi 300 operai, che per ognuno di trenta capitalisti i quali ne occupino 10 a testa. È vero che la entità del valore e la massa materiale dei mezzi di lavoro utilizzati in comune non crescono nella stessa misura del numero di operai occupati; crescono però sensibilmente. Perciò la concentrazione di masse ragguardevoli di mezzi di produzione nelle mani di singoli capitalisti è presupposto materiale della cooperazione fra lavoratori salariati, e il grado in cui la cooperazione si attua, ossia la scala della produzione, dipende dal grado raggiunto da questa concentrazione.
In origine, una data grandezza minima del capitale individuale era sembrata necessaria affinché il numero di operai sfruttati contemporaneamente, quindi la massa di plusvalore prodotto, fosse sufficiente per esimere l'imprenditore dal lavoro manuale, per fare del piccolo mastro artigiano un capitalista e, di conseguenza, per instaurare formalmente il rapporto capitalistico. Ora quella grandezza minima appare come presupposto materiale della trasformazione di molti processi lavorativi individuali frammentati e reciprocamente indipendenti in un processo lavorativo sociale combinato.
Non diversamente, in origine il comando del capitale sul lavoro era apparso come semplice conseguenza formale del fatto che l'operaio lavora non per sé, ma per, e quindi sotto, il capitalista. Ma, con la cooperazione di molti lavoratori salariati, il comando del capitale diviene esigenza imprescindibile dello svolgimento del processo lavorativo, vera e propria condizione della produzione. L'autorità del capitalista sul campo di produzione si rende ora indispensabile non meno dell'autorità del generale sul campo di battaglia.

Ogni lavoro immediatamente sociale o collettivo eseguito su una scala di una certa grandezza ha più o meno bisogno di una direzione, che assicuri l'armonia delle attività individuali e assolva le funzioni generali derivanti dal movimento del corpo produttivo globale in quanto distinto dal movimento dei suoi organi autonomi. Un singolo violinista si dirige da sé; un'orchestra richiede un direttore. Questa funzione di guida, sorveglianza e mediazione, diventa funzione del capitale non appena il lavoro ad esso subordinato assume forma cooperativa. Come funzione specifica del capitale, la funzione direttiva riveste caratteri altrettanto specifici.
Prima di tutto, il motivo animatore e lo scopo determinante del processo produttivo capitalistico è l’autovalorizzazione più grande possibile del capitale, cioè la maggior produzione possibile di plusvalore, quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza lavoro ad opera del capitalista. Con la massa degli operai occupati contemporaneamente, cresce la loro resistenza e, di riflesso, la pressione del capitale per infrangerla. La direzione del capitalista non è quindi soltanto una funzione particolare che gli compete e che discende dalla natura stessa del processo lavorativo sociale, ma è anche funzione dello sfruttamento di un processo lavorativo sociale e quindi risultato dell'inevitabile antagonismo tra lo sfruttatore e la materia prima del suo sfruttamento. Così pure, col volume dei mezzi di produzione che si contrappongono all'operaio salariato in quanto proprietà altrui, aumenta la necessità di un controllo sul loro impiego razionale. Infine, la cooperazione degli operai salariati è semplice effetto del capitale che li impiega nello stesso tempo. Il legame tra le loro funzioni, e la loro unità come corpo produttivo globale, risiedono fuori di essi, nel capitale che li riunisce e li tiene assieme. Perciò la connessione reciproca fra le loro operazioni si erge di fronte agli operai salariati idealmente come piano, praticamente come autorità del capitalista, potere di una volontà estranea che sottomette la loro attività ai propri fini.

Di conseguenza, se la direzione capitalistica è, quanto al contenuto, duplice, a causa della duplicità del processo produttivo che si tratta di dirigere — e che da un lato e processo lavorativo sociale per la creazione di un prodotto, dall'altro è processo di valorizzazione del capitale —, quanto alla forma essa è dispotica. Sviluppandosi la cooperazione su scala più vasta, questo dispotismo si dà forme peculiari. Come, in un primo tempo, il capitalista viene sollevato dal lavoro manuale non appena il suo capitale ha raggiunto la grandezza minima con la quale soltanto ha inizio la produzione capitalistica in senso proprio, così ora egli delega la funzione della sorveglianza diretta e continua sugli operai singoli, e su gruppi di operai, a un genere particolare di salariati. Allo stesso modo che un esercito ha bisogno di ufficiali superiori ed inferiori militari, una massa di operai cooperanti sotto il comando dello stesso capitale ha bisogno di ufficiali superiori ed inferiori industriali (dirigenti, managers i primi; sorveglianti, foremen, overlookers, contre-maîtres i secondi), che comandano in nome del capitale durante il processo lavorativo e il cui lavoro di sorveglianza si consolida in funzione loro esclusiva. Nel confrontare il modo di produzione di contadini o artigiani indipendenti con il regime delle piantagioni basato sulla schiavitù, l'economista borghese annovera questo lavoro di sorveglianza tra i faux frais de production. Quando invece considera il modo di produzione capitalistico, egli identifica la funzione direttiva, in quanto si origina dalla natura del processo lavorativo comune, con la stessa funzione in quanto determinata dal carattere capitalistico, e perciò antagonistico, di questo processoq. Il capitalista non è capitalista perché dirigente industriale, ma assurge a capitano d'industria perché capitalista. Il comando supremo nell'industria diventa attributo del capitale così come, sotto il feudalesimo, il comando supremo in guerra e nell'amministrazione della giustizia era attributo della proprietà fondiaria.

L'operaio è proprietario della sua forza lavoro finché contratta col capitalista come venditore di essa, e può vendere solo ciò che possiede, la sua forza lavoro individuale, isolata. Questo rapporto non cambia in alcun modo per il fatto che il capitalista comperi 100 forze lavoro invece di i, o stipuli contratti con 100 operai indipendenti l'uno dall'altro invece che con i operaio singolo. Egli può impiegare i 100 operai senza farli cooperare. Quindi, il capitalista paga il valore delle 100 forze lavoro indipendenti, ma non paga la forza lavoro combinata dei 100 operai. Come persone indipendenti, gli operai sono degli isolati che entrano in rapporto con lo stesso capitale, ma non l'uno con l'altro. La loro cooperazione ha inizio soltanto nel processo lavorativo reale, ma in questo essi hanno già cessato di appartenere a sé medesimi. Entrandovi, vengono incorporati al capitale. Come individui cooperanti, come membri di un unico organismo agente, non sono che un modo particolare di esistere del capitale. Perciò la forza produttiva che l'operaio sviluppa in quanto operaio sociale è forza produttiva del capitale. La produttività sociale del lavoro si sviluppa gratuitamente non appena gli operai si trovano in determinate condizioni; e appunto in queste condizioni il capitale li mette. Poiché la forza produttiva sociale del lavoro non gli costa nulla e, d'altra parte, essa non è sviluppata dall'operaio prima che il suo lavoro appartenga al capitale, eccola apparire come forza produttiva che il capitale possiede per natura, come forza produttiva ad esso immanente.

Gigantesco appare l'effetto della cooperazione semplice nelle colossali opere degli antichi Asiatici, Egizi, Etruschi ecc.:

«Avvenne in tempi remoti che, provveduto alle loro spese militari e civili, gli Stati asiatici si trovassero a possedere un'eccedenza di mezzi di sussistenza, che poterono spendere per la costruzione di opere di lusso e di utilità. Il loro potere di disporre delle mani e delle braccia di quasi tutta la popolazione non agricola, e il dominio assoluto dei monarchi e dei sacerdoti su quell'eccedenza, fornirono loro i mezzi per erigere i poderosi monumenti di cui coprirono il paese… Nello spostamento delle colossali statue e delle enormi masse il cui trasporto ci riempie di stupore, si utilizzava senza risparmio quasi soltanto lavoro umano. Il numero dei lavoratori e la concentrazione dei loro sforzi bastavano. Così vediamo potenti barriere corallifere emergere dagli abissi dell'oceano, fondersi in isole e formare terraferma, sebbene ogni singolo depositante (depositaryun lato, la cooperazione permette) sia minuscolo, debole, inconsistente. Gli operai non agricoli di una monarchia asiatica hanno poco da offrire all'opera comune, salvo le loro individuali forze fisiche, ma il numero è la loro forza; e fu il potere di dirigere quelle masse umane che diede origine a tali imprese titaniche. Esse sono state rese possibili dalla concentrazione dei mezzi di sussistenza dei lavoratori in una o in poche mani».

Nella società moderna, questo potere dei re asiatici ed egizi, o dei teocrati etruschi ecc., si è trasferito nel capitalista, si presenti egli quale capitalista singolo o, come nelle società per azioni, quale capitalista combinato.
La cooperazione nel processo lavorativo, come la vediamo dominante agli albori della civiltà umana, presso popoli cacciatori o, per esempio, nell'agricoltura di comunità indiane, poggia da un lato sulla proprietà comune delle condizioni della produzione, dall'altro sul fatto che l'individuo non ha ancora spezzato il cordone ombelicale che lo unisce alla comunità o alla tribù, più che l'individuo-ape si stacchi dall'alveare. L'uno e l'altro elemento la distinguono dalla cooperazione capitalistica. L'impiego sporadico della cooperazione su vasta scala nel mondo antico, nel medioevo e nelle moderne colonie, poggia su rapporti diretti di signoria e servaggio; nella maggioranza dei casi, sulla schiavitù. La forma capitalistica, invece, presuppone in partenza il libero lavoratore salariato, che vende la sua forza lavoro al capitale. Ma, storicamente, essa si sviluppa in antitesi alla piccola economia contadina e all'azienda artigiana indipendente, abbia questa o no forma corporativa. Di fronte ad esse, quindi, non la cooperazione capitalistica appare come una particolare forma storica della cooperazione, ma la stessa cooperazione come una forma storica propria del processo di produzione capitalistico, come una forma storica che specificamente lo distingue.
Allo stesso modo che la produttività sociale del lavoro sviluppata dalla cooperazione si raffigura come produttività del capitale, la cooperazione medesima si rappresenta come forma specifica del processo produttivo capitalistico in antitesi a quello di lavoratori o anche di piccoli mastri artigiani isolati e indipendenti. È la prima trasformazione che il reale processo lavorativo subisce per effetto della sua sussunzione sotto il capitale. Essa avviene in modo naturale e spontaneo. Il suo presupposto, cioè l'impiego contemporaneo di un numero ragguardevole di operai salariati nel medesimo processo lavorativo, costituisce il punto di partenza della produzione capitalistica. E questo coincide con l'esistenza dello stesso capitale. Se perciò, da un lato, il modo di produzione capitalistico appare come una necessità storica per la trasformazione del processo lavorativo in un processo sociale, dall'altro questa forma sociale del processo di lavoro appare come un metodo di cui il capitale si serve per sfruttarlo in modo più redditizio aumentandone la forza produttiva.

Nella sua forma semplice, di cui abbiamo trattato finora, la cooperazione coincide con la produzione su vasta scala, ma non costituisce affatto la forma fissa e caratteristica di una particolare epoca di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Al massimo, si presenta approssimativamente così o nei primordi ancora artigianali della manifattura o in quel tipo di grande agricoltura che corrisponde al periodo manifatturiero, e che si distingue essenzialmente dall'economia contadina solo per la massa di lavoratori impiegati nello stesso tempo e per il volume dei mezzi di produzione concentrati. La cooperazione semplice continua ad essere la forma dominante in quei rami della produzione, in cui il capitale opera su vasta scala senza tuttavia che la divisione del lavoro, o il macchinismo, vi occupi una parte di rilievo.
La cooperazione rimane la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico, benché la sua forma semplice appaia come forma particolare accanto alle sue forme più sviluppate.


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