Il manifesto dei cento professori francesi contro il totalitarismo islamico

Il manifesto dei cento professori francesi contro il totalitarismo islamico

Salclem2
LaPresse

di Adriano Scianca, 23 marzo 2018


Sparatoria in un supermercato a Trèbes, vicino a Carcassonne. Un uomo armato è entrato nel negozio urlando «Allah Akbar» e ha preso una decina di ostaggi. Per Amaq, l'organo di propaganda dell'Isis, l'attentatore era «un soldato dello Stato islamico». Nelle ultime ore alcuni intellettuali d'Oltralpe avevano firmato un documento per denunciare il separatismo delle comunità musulmane: «Per distinguersi dagli infedeli si isolano e rifiutano i valori occidentali».


Un appello contro il «totalitarismo islamista» sta agitando la Francia. Lo hanno firmato 100 intellettuali, tra cui il filosofo Rémi Brague, lo scrittore Pascal Bruckner, gli ex ministri Luc Ferry e Bernard Kouchner, lo storico Pierre Nora, il saggista Alain Finkielkraut, il politologo Pierre-André Taguieff e la demografa Michèle Tribalat. Personalità dal percorso molto diverso, e che infatti si definiscono «cittadini dalle opinioni differenti e molto spesso opposte fra loro», tuttavia mossi da «inquietudine di fronte all'ascesa dell'islamismo» e dal «sentimento che un pericolo minacci la libertà in generale e non solo la libertà di pensiero».

I toni, insomma, sono duri, e infatti si denuncia «il nuovo totalitarismo islamista» che «cerca di guadagnare terreno con tutti i mezzi e di passare per vittima dell'intolleranza». La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata un'iniziativa di un sindacato di insegnanti che ha proposto uno stage di formazione sul «razzismo di Stato» interdetto ai «bianchi». Non è la prima volta che in Francia si indicono iniziative contro la discriminazione organizzate, paradossalmente, proprio a partire dall'esclusione di chi ha la pelle troppo bianca. I firmatari dell'appello denunciano quindi «un'apartheid di nuovo genere», un «segregazionismo di nuovo tipo» che nasce quando un gruppo etnoreligioso decide di fare «secessione dalla comunità nazionale e i suoi costumi». 

Gli intellettuali transalpini rincarano la dose: «Che qualcuno viva nella legge della sua comunità o casta e nel disprezzo di quella degli altri, che qualcuno sia giudicato solo dai suoi, questo è contrario allo spirito della Repubblica». L'atto d'accusa è forte: «Il nuovo separatismo avanza sotto mentite spoglie. Vorrebbe sembrare benigno, ma in realtà è solo un'arma della conquista politica e culturale dell'islamismo. L'islamismo vuole stare a sé poiché rifiuta gli altri, ivi compresi i musulmani che non condividono le sue vedute. L'islamismo detesta la sovranità democratica, poiché essa gli rifiuta ogni legittimità. L'islamismo si sente dominato allorché non domina». 


L'appello non ha mancato di suscitare reazioni. A partire dal massimo livello della politica francese, quello del governo stesso. Benjamin Griveaux, portavoce dell'esecutivo, ha criticato l'uso della parola «apartheid» e ha spiegato che, «se è vero che ci sono quartieri in cui il salafismo ha preso il potere», non di meno la «riconquista» non si fa «sui giornali», bensì «con la polizia di sicurezza». L'ex primo ministro socialista Manuel Valls, pure eletto anch'egli nelle fila dei macronisti, ha invece condiviso il testo, scrivendo che «è tempo di aprire gli occhi e dire le cose come stanno. È il miglior servizio che si possa rendere alla Repubblica e ai musulmani di Francia, per aiutarli a combattere l'islam politico e l'islamismo». Il dibattito è in parte legato a una tematica strettamente francese: al di là delle Alpi, com'è noto, esiste una legge sulla laicità entrata in vigore addirittura nel 1905, secondo cui ogni simbolo religioso deve essere escluso dallo spazio pubblico, cosa che ha creato una lunga querelle sulla liceità del velo islamico in scuole e uffici, per esempio. 

Ma, al di là delle problematiche «francesi, troppo francesi», va da sé che l'appello va a prendere di petto le aporie della cosiddetta «accoglienza» di minoranze sempre meno... «minoritarie» e portatrici di ideologie intolleranti e aggressive. Non stupisce, quindi, che l'appello sia stato rilanciato anche da Jean Messiha, membro dell'ufficio politico del Front national, che ha auspicato una «diffusione di massa» del testo. E alla fine ci volevano proprio i musulmani per mettere una volta tanto d'accordo (quasi) tutti, da Valls ai lepenisti.


È la prima azione del «nuovo» Stato islamico

Un supermercato di Francia attaccato da un terrorista di Daesh, che ammazza qualche francese farneticando «Allah Akbar», stupisce l'Europa e mezzo mondo che davano il Califfato per morto e sepolto. Ed è così: Daesh, nella forma organizzativa finora conosciuta, non c'è più perché si è trasformato - si sta trasformando, anzi - in qualche cosa di altro. 

Ormai la questione non è più la ricerca di Daesh ma la necessità di interrogarsi su quale sia la sua eredità e chi ne stia beneficiando. Solo in questa prospettiva possiamo attualizzare il pericolo, valutando la minaccia che ancora, e per lungo tempo, il terrorismo islamista porterà ai suoi nemici. Tra i quali, di massima, siamo annoverati. 

Si tratta di ricostruire un puzzle dalla forma incerta, con i pezzi che abbiamo in mano senza sapere se li abbiamo proprio tutti. Ma proviamoci.

Il primo elemento del puzzle è quello di scenario offerto dalla guerra ibrida, dove giocatori diversi entrano in campo per «sbranarsi» senza condividere alcunché, se non la necessità di farsi la pelle. Si tratta di una forma di guerra che bene interpreta la dimensione reticolare della globalizzazione, dove tutti gli elementi sono in relazione tra loro. Il Daesh che abbiamo conosciuto ne fu il campione: diffuso in 36 Paesi con 40 gruppi coordinati tra loro. Se Daesh non c'è più, la guerra ibrida continua e si declina nel tutti contro tutti della terza guerra mondiale in corso, dove le armi sono i fucili e i dazi, i profili di Facebook e gli immigrati. 


L'eredità di Daesh costituisce il secondo elemento. I due aspetti che vengono consegnati al futuro terrorismo sono la viralità della comunicazione e l'imitazione del comportamento. Nel corso del 2017 il Califfato ha insistito per diffondere, attraverso i suoi canali comunicativi, metodi semplici di attacco, passando dall'uso del veleno ai coltelli, ai furgoni, all'uso del fuoco e degli acidi, al provocare incidenti d'auto: suggerimenti mai declinati in procedure specifiche ma, piuttosto, in semplici descrizioni di azioni tipo cartoni animati di Willy Coyote. Il contagio comunicativo ha promosso l'imitazione: non sono più state le convinzioni a muovere il terrorista ma la possibilità facile di esprimere la propria violenza, non necessariamente per Allah. Ormai può bastare una incazzatura con la moglie. Sdoganati questi comportamenti, non si torna più indietro e un'automobile sulla folla, per inesplorate ragioni, è una possibilità in ogni città.

Il terzo elemento è un Califfato che non ha più terra da difendere, da cui la necessità di mutare la sua forma organizzativa. La domanda è: Daesh aveva previsto questa sconfitta sul campo? E la mia risposta è affermativa. Daesh non ha mai agito senza una strategia, magari ad alto rischio, da giocatore di poker, o un'idea che escludesse la casualità. Credo che Daesh avesse una via di uscita nel cercare di sopravvivere e continuare la lotta del jihad radicale, organizzando la resistenza attraverso nuclei di irriducibili disposti a morire sul posto (martiri, testimoni della purezza della causa), insieme a una parte di combattenti di cui si era negoziata la fuoriuscita dalle aree di guerra verso aree del futuro jihad (soprattutto asiatiche) o verso Paesi occidentali dove i returnee potessero agire da attivatori (non da autori) dei delusi che avrebbero voluto partire, ma che si era provveduto a fermare prima.


Il quarto elemento ci riporta alla guerra ibrida perché evidenzia la ridefinizione delle alleanze: un gioco delle parti tra chi, fino ad agosto 2017, era formalmente schierato contro Daesh, una alleanza funzionale di fronte al nemico formale. Ora che non c'è più, il branco cerca altro: eccoli a confronto tra loro iraniani, curdi, turchi, arabi vari, americani, russi, israeliani per la governance di un'area centrale per la stabilità del mondo. E noi italiani possiamo essere le vittime collaterali del gioco.

Il puzzle dunque comincia a prendere forma: l'immagine che ne esce non è particolarmente bella. Proviamo a evidenziare alcune probabili tendenze per i prossimi mesi. La guerra ibrida si manifesta in conflitti sempre più aperti tra (ex) alleati in una pluralità di teatri, tra i quali quello del Mediterraneo. Le alleanze sono mutevoli e le minacce tra partner si esercitano in tutti i settori. Deash sconfitto non rinuncia a riproporsi, ma confida soprattutto nella capacità di attivazione spontanea dei sui adepti, rinforzati da una comunicazione meno pubblica e affidata alle relazioni dirette tra individui, virtuali e reali. Probabilmente l'Asia diventa un ricettacolo di fuoriusciti del Califfato, che andranno a formare e indottrinare nuovi terroristi. La minaccia di attacchi terroristici in Europa si mantiene alta e imprevedibile, indirizzata a soft target ad alta intensità comunicativa quando colpiti, pianificata al più basso livello possibile di organizzazione, mimetizzata nella quotidianità. I cosiddetti processi di radicalizzazione continuano a sorprendere per la diversità delle motivazioni che conducono all'atto violento, perché il dopo Daesh non vuole adepti ma assassini consumabili. Al Qaeda riprende fiato: Ayman Al Zawahiri, il suo leader, in quest'ultimo mese ha parlato molto ricollocando il movimento al centro dell'islamismo radicale terrorista e aspetta paziente di riprendere la guida del jihad globale.

Alla faccia della fine di Daesh: diventa facile dire che si stava meglio quando si stava peggio. Aspettiamoci pertanto mesi difficili e diversi rispetto al tipo di minaccia che eravamo abituati a fronteggiare.


I soldi ai ghetti etnici non placano la violenza

A Viry-Châtillon, la vita umana vale meno di un semaforo. C'è un poliziotto di 28 anni che sta lottando contro la morte perché stava difendendo questo: un semaforo. Sul quale, però, è montata una telecamera di videosorveglianza. Un occhio troppo indiscreto, per chi ha preso possesso del territorio e ne ha fatto terra di spacci e traffici. Il 24 settembre, un'auto utilizzata come ariete è stata lanciata contro il palo che sorregge la videocamera, che era stata distrutta. L'avevano rimessa, piazzando lì anche delle pattuglie. Sabato una decina di ragazzi a volto coperto ha accerchiato le auto della polizia, ha sfondato i vetri e ha buttato dentro due bombe molotov. Quattro agenti sono stati feriti, due di loro, un uomo e una donna, sono stati giudicati gravissimi. Così si vive e forse si muore a Viry-Châtillon, 21 chilometri a Sud di Parigi. Dei 31.000 abitanti del comune, il 10,5% sarebbe straniero, secondo le statistiche ufficiali, ma si tratta di dati vecchi e falsati, probabilmente sono molti di più. I francesi hanno un nome per definire questi agglomerati sorti ai margini delle grandi metropoli: banlieue. Il termine ha origini medievali, si tratta del luogo (lieu) che segnava il limite fino al quale valeva il bando (ban) di un signore. Terre di contadini, divennero in seguito dormitori per operai. Poi anche gli operai lasciarono il posto agli immigrati. Oggi, le banlieue sono terra loro. 


Il pubblico italiano ha familiarizzato con il termine in occasione delle rivolte del 2005, iniziate a Clichy-sous-Bois per la morte accidentale dei due adolescenti inseguiti dalla polizia. Si calcola che in tutto il 2005 furono date alle fiamme circa 45.000 auto. Sempre del 2005 è un altro evento emblematico: durante una manifestazione studentesca vari studenti furono pestati e derubati da 700/1.000 ragazzi arabi venuti da Seine-Saint-Denis con il solo scopo di compiere razzie e violenze. Ma non si è dovuto aspettare il 2005 per saggiare il tasso di esplosività dei nuovi ghetti. I primi scontri interetnici sono della fine degli anni Settanta. Pensiamo solo alla «estate calda» del 1981 e agli scontri a Vénissieux, Villeurbanne e Vaulx-en-Velin, tre comuni dell'area urbana di Lione a forte densità immigrata. All'epoca il conflitto nacque per un intervento della polizia contro i «rodei» dei giovani maghrebini, ovvero la loro abitudine di rubare auto e poi lanciarle a folle velocità, devastandole o incendiandole. Disordini su vasta scala sono avvenuti nel 1990 al quartiere Mas de Taureu di Vaulx-en-Velin e nel 1991 alla Cité des Indes di Sartrouville, nella banlieue di Parigi, e in quella di Val-Fourré, a Mantes-la-Jolie.

Da decenni ormai, questi sobborghi hanno assunto la dimensione di ghetti etnici in cui la popolazione bianca viene cacciata casa per casa. Come ha scritto Walter Laqueur in Gli ultimi giorni dell'Europa, «nel 2000 c'era ormai un migliaio di zone nei quartieri di immigrati dove la polizia non entrava più - a meno che naturalmente non si presentasse in forze - e allo stesso tempo si stimava che più della metà dei carcerati fosse di origine musulmana». Secondo i dati riportati dallo studioso Christophe Guilluy in Fractures française, tra il 1968 e il 2005, i giovani di origine straniera sono passati dall'11,5% al 18,1% in Francia, dal 16% al 37% nell'Île-de-France, dal 18,8% al 50,1% a Seine-Saint-Denis. In quest'ultimo dipartimento, i bambini di cui entrambi i genitori sono nati in Francia sono passati, nello stesso periodo, da 41% al 13,5%. Sempre tra il 1968 e il 2005, in molti comuni dell'Île-de-France la percentuale di giovani di origine straniera è cresciuta su livelli analoghi: a Clichy-sous-Bois è passata dal 22 al 76%, ad Aubervilliers dal 23 al 75%, a La Courneuve dal 22 al 74%, a Grigny dal 23 al 71%, Pierrefitte-sur-Seine dal 12 al 71%, a Garges-lès-Gonesse dal 30 al 71%, a Saint-Denis dal 28 al 70%, a Saint-Ouen dal 19 al 67%, a Sarcelles dal 20 al 66%, a Bobigny dal 17 al 66%, a Stains dal 21 al 66%, a Villiers-le-Bel dal 21 al 65%, a Épinay-sur-Seine dal 12 al 65%, a Mantes-la-Jolie dal 10 al 65%, a Pantin dal 14 al 64%, a Bondy dal 16 al 63%, ai Mureaux dal 18 al 62%, a Sevran dal 19 al 62%, a Trappes dal 9 al 61%.


Secondo l'inchiesta Immigrés et descendants d'immigrés en France condotta dall'Insee (l'Istat francese), negli ultimi anni è stato in media il 30% dei figli di immigrati africani a uscire dal sistema scolastico senza la maturità, il doppio rispetto ai discendenti di francesi non immigrati. Inoltre il numero dei discendenti degli immigrati disoccupati è triplo rispetto ai figli dei francesi non immigrati. Colpa della povertà? Non solo. Con il passare delle generazioni, la condizione sociale migliora ma la conflittualità aumenta. La seconda generazione immigrata, infatti, vive meglio di quella che l'ha preceduta. Il tasso di povertà è sceso dal 37 al 20%. Un terzo dei figli di immigrati nella fascia d'età 35-50 anni svolge un lavoro più qualificato del padre alla stessa eta. Insomma, la spiegazione economicista non funziona. Come nota Guilluy, già il governo Jospin (1997-2002) aveva cercato di migliorare le condizioni di vita delle banlieue intervenendo contro la disoccupazione. «Sfortunatamente, i buoni risultati in materia di occupazione non ebbero alcuna incidenza sul tasso di delinquenza (delle banlieue), che al contrario è esploso proprio in quel periodo». I media mainstream si battono il petto per il preteso «abbandono» dei quartieri sensibili, ma anche qui la realtà è diversa.

Il sociologo Dominique Lorrain ha realizzato uno studio comparativo sugli investimenti pubblici nel quartiere di Hautes-Noues, a Villiers-sur-Marne, e quelli nella periferia di Verdun. Il livello di povertà dei due quartieri è analogo, ma il primo viene classificato come «sensibile», appunto per la forte e irrequieta presenza di immigrati. Ebbene, si scopre intanto che il reddito degli abitanti di Hautes-Noues è del 20% superiore a quello dei residenti a Verdun. Contando gli investimenti pubblici spesi per i due quartieri, inoltre, Lorrain ha calcolato come lo Stato abbia investito ben 12.450 euro per abitante a Hautes-Noues contro gli 11,80 euro per abitante di Verdun. Insomma, gli investimenti pubblici nel quartiere «sensibile» sono mille volte superiori rispetto a quello più povero, più decentrato e più sfortunato che tuttavia ha il torto di non attirare l'attenzione di sociologi, giornalisti e politici. Nella Francia che brucia, la politica preferisce aiutare i piromani.

(Fonte: https://www.laverita.info/attentato-francia-trebes-isis-2551722031.html)


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