Il dolore degli altri è il nostro dolore

Il dolore degli altri è il nostro dolore


Dalla Proposta di pace 2004 di Daisaku Ikeda: spunti di riflessione e di fede che ognuno può mettere in pratica da subito nella propria vita. Il testo integrale nella traduzione definitiva, che comprende anche una serie di misure specifiche per affrontare le maggiori emergenze mondiali, verrà pubblicato nel n. 103 di Buddismo & Società

Il Buddismo spiega che per cambiare il mondo occorre cambiare il cuore di ciascuna persona. Ma spesso viene da chiedersi, come?

Tanta parte della gente, per quanto a volte cada vittima delle proprie tendenze aggressive, dei propri pregiudizi, della propria passività, quando si guarda dentro, non desidera la guerra ma la pace e, pur con la disillusione che a volte l’età adulta porta con sé, continua in fondo a sognare il mondo come un bel giardino, di cui tutti gli esseri umani possano godere insieme.

Ma cosa fare? C’è un’azione profonda che possiamo fare costantemente, in ogni istante della nostra vita, per contrastare quella corrente sotterranea dei tempi che sembra sospingere sempre più le persone, nei rapporti fra le nazioni come nelle nostre relazioni quotidiane, verso il conflitto, la sfiducia dell’altro e la sopraffazione reciproca?

La Proposta di pace che ogni anno il presidente della SGI, Daisaku Ikeda, scrive come contributo alla riflessione globale sulla pace, questa volta contiene una forte indicazione di fede in questo senso, una serie di riflessioni che tutti potrebbero da subito cominciare a considerare e mettere in pratica dentro di sé.

«Credo che ci sia del marcio che sta progressivamente divorando alle radici la capacità delle persone di comprendere cosa significa essere veramente umani – come definiamo noi stessi e come ci poniamo in relazione con chi è diverso da noi. In un mondo prigioniero di un circolo vizioso di terrorismo e rappresaglia militare credo che sia vitale affondare il bisturi in queste radici corrotte, dalle quali ha origine il malessere spirituale della nostra epoca».

C’è qualcosa che non va, nel profondo del cuore di ognuno di noi che, come membri della razza umana, ne riflettiamo la tendenza in quest’epoca, e riflettervi e porvi rimedio può far cambiare direzione all’umanità intera. Anzitutto Ikeda riflette sul mito della libertà e della democrazia, tanto caro ai popoli che si sono affrancati, a prezzo di dolorose battaglie dalla tirannia dei regimi totalitari del secolo scorso. E lega questa riflessione al problema dell’educazione dei giovani. Citando Kiyoshi Ikeda, professore di letteratura inglese in Giappone con diverse esperienze di studio in Inghilterra e in Germania, afferma che

«…una corretta comprensione della libertà necessaria per una sana democrazia è impossibile senza un severo allenamento e uno sviluppo individuale in quel periodo critico della gioventù che corrisponde agli anni della “public school” inglese. Senza questa esperienza di disciplina, la libertà degenererebbe in licenza, in una totale indulgenza verso se stessi».

Daisaku Ikeda attacca il “mito della libertà” ma non certo per invocare un’educazione autoritaria. Il seguente episodio, che cita dal libro di Kiyoshi Ikeda, chiarisce bene cosa intende:

«Ho avuto occasione di parlare con una persona specializzata nell’addestramento dei cani poliziotti a Francoforte, Germania. Di prassi, se non si sentiva bene o aveva qualcosa che lo turbava, annullava la sessione di addestramento della giornata perché c’era il rischio che nel corso di essa capitasse qualcosa che lo facesse arrabbiare davvero. Durante l’addestramento può essere necessario rimproverare un cane e a volte occorre utilizzare anche la punizione corporale. Ma, se l’istruttore, anche in un’unica occasione, fosse andato veramente in collera, non avrebbe avuto più alcuna speranza di addestrare quel cane, perché il cane avrebbe provato disprezzo nei suoi confronti. Nemmeno un cane accetta di essere addestrato da qualcuno che disprezza» [Kiyoshi Ikeda, Jiyu to kiritsu (Libertà e disciplina), 1949, Tokyo, 2003].

E Daisaku Ikeda commenta:

«Per l’istruttore, il cane poliziotto rappresenta la distinta e innegabile presenza dell’“altro” che non è disposto a cedere facilmente alla sua volontà, ma offre resistenza; l’istruttore aveva imparato che, quando la sua padronanza di sé era incerta, c’era il pericolo che perdesse la capacità di rispettare il cane in quanto altro e il cane a sua volta avrebbe reagito con disprezzo.

«Questa verità, che vale persino nel caso dell’addestramento di un cane poliziotto, si applica con una sottigliezza e una profondità di significato ben maggiori alle interazioni tra gli esseri umani.» […]

«L’io richiede l’esistenza dell’altro. Non possiamo stabilire una proficua relazione con gli altri se manca la tensione interna, la volontà e l’energia spirituale per guidare e controllare le nostre emozioni. È dal riconoscimento di ciò che è diverso ed esterno a noi, dalla percezione della resistenza che offre, che veniamo ispirati a esercitare quel controllo di sé che porta a pieno compimento la nostra umanità. Perdere di vista l’altro significa minare la pienezza della nostra esperienza di sé».

È una riflessione che può gettare maggiore luce sulla causa profonda dell’escalation di violenza fra i giovani, la cui

«…maggiore sensibilità li rende più vulnerabili alle tossine della vita moderna, così come i canarini che vengono tenuti nelle miniere di carbone, il cui malessere indica la presenza di gas velenosi». […]

«Sia su piccola che su larga scala, perdere di vista l’altro significa diventare profondamente desensibilizzati nei confronti del sentire umano e questo è ciò che sta dietro l’apatia e il cinismo che prevale nella società contemporanea. Come ho cercato di far presente nella mia Proposta di due anni fa, c’è una profonda continuità fra il malessere che infetta i cuori di così tanti giovani e il freddo disimpegno della moderna macchina bellica ad alta tecnologia. In particolare, sono preoccupato dell’impatto ottundente di un tipo di conflitto in cui una parte non riporta praticamente nessuna vittima, mentre l’altra subisce devastazioni di proporzioni sconosciute, ma di certo enormi».

E l’urgenza drammatica della situazione non consente di indugiare nemmeno un istante ma richiede che chi legge rifletta e decida di cominciare subito a operare un primo tentativo di cambiamento, nel suo cuore, nelle sue relazioni, nella sua vita.

«La spiritualità mondiale sta arretrando e regredendo ed è quasi sull’orlo del tracollo. Per questo le questioni globali della pace vanno ripensate nell’ottica della realtà immediata della nostra vita. Quantomeno, qualsiasi tentativo di affrontare questi problemi che non prenda in considerazione queste realtà immediate non costituirà una risposta sostanziale. Perciò credo intensamente nell’importanza che ognuno di noi cominci ad agire, faccia il primo passo, lì dove si trova adesso».

Con un’immagine molto forte, quasi brutale, quanto la violenza disumana e insensata su scala mondiale che si propone di contrastare, Daisaku Ikeda sostiene che la prima cosa da fare è “strappare gli artigli al demone”.

Nella sua storica dichiarazione per l’abolizione degli armamenti nucleari pronunciata nel settembre 1957, sette mesi prima della sua morte, il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda affermava:

«Oggi è sorto un movimento mondiale che chiede la messa al bando degli esperimenti e degli armamenti nucleari. Voglio smascherare e strappare gli artigli che profondamente si celano dietro questo tipo di armi».

Commentando le parole del suo maestro, Daisaku Ikeda spiega che

«“strappare gli artigli” […] significa trasformare radicalmente il nostro sentire interiore, l’impulso distruttivo che c’è in tutti noi. Significa restituire nuova vita a una consapevolezza concreta e intensa dell’esistenza degli altri e sviluppare il dominio di sé, la capacità di controllare i nostri impulsi e i nostri desideri nel contesto di questo consapevolezza… Non è a qualcosa fuori di noi che dobbiamo strappare gli artigli: la grande sfida storica per l’abolizione delle armi nucleari comincia con l’azione che intraprendiamo dentro la nostra vita».

E qui ritorna la nostra domanda iniziale: in cosa consiste questa azione?

Partendo dall’asserzione che le armi nucleari sono la dimostrazione più plateale e allo stesso tempo crudele di

«un io superficiale gonfiato senza limiti» che sono «il simbolo di una civiltà al servizio del desiderio, che nasce dalla fusione del progresso tecnologico con gli obiettivi militari», egli conclude che la chiave per contrastare questa tendenza e trasformarla sta nell’«alimentare una genuina consapevolezza dell’altro che a sua volta forma la base per sviluppare virtù quali la coscienza sociale e il senso civico».

Per spiegare cosa intende, fa un esempio concreto citando la descrizione di un villaggio della campagna inglese (Wiltshire) riportata nel testo di Dewey Comunità e potere:

«Ciascuna casa ha un nucleo in cui gli umani convivono con gli uccelli e le bestie e questi nuclei sono tutti in contatto come una fila di bambini che si tengono per mano … Immaginate che uno degli abitanti di queste villette che sta tagliando un robusto pezzo di legno si lasci cadere per sbaglio l’ascia pesante e affilata sul piede, infliggendosi una dolorosa ferita. La notizia dell’incidente volerebbe di bocca in bocca sino all’altro capo del villaggio a un miglio di distanza e non solo ogni abitante del villaggio lo saprebbe subito, ma allo stesso tempo si creerebbe una vivida immagine mentale del suo compaesano nel momento della disavventura, lo scintillio della lama tagliente che colpisce il piede e il sangue rosso che sprizza dalla ferita, e sentirebbe al tempo stesso la ferita nel suo stesso piede e il trauma in tutto il suo essere».

Dopo aver analizzato l’opposto di tutto questo – la crescente “virtualità” della nostra esperienza dell’altro e degli altri, sempre più mediata dai mezzi di comunicazione e dalle nuove tecnologie dell’informazione – conclude:

«La risposta è vicina a noi, ma richiede un approccio diverso, forse un po’ antintuitivo. Sta nel senso della realtà, nella sensibilità non mediata al vivere e al dolore, che può infondere un nuovo soffio vitale in questo soffocante mondo virtuale. Se potessimo, come gli abitanti del villaggio del Wiltshire di Dewey, imparare a sentire la ferita e il trauma del dolore altrui come se fosse il nostro […] Credo che questa sensibilità sia l’unico grande deterrente alla guerra».

Perché questa sensibilità condivisa nei confronti della sofferenza umana è tanto importante?

«Senza tristezza non ci può essere gioia. Senza sofferenza non ci può essere felicità […] Poiché questa civiltà si adopera così tanto per evitare la sofferenza, in realtà ci deruba della possibilità di provare la gioia stessa della vita» (Masahiro Morioka, Seikyo shimbun, 1 gennaio 2004).

E Ikeda, sempre prendendo a prestito le parole dello studioso Masahiro Morioka sulla patologia della civiltà contemporanea, incalza:

«“Coloro che si sono anestetizzati così bene rispetto al proprio dolore hanno perso la capacità di sentire il dolore altrui. Sono incapaci di udire il grido di dolore degli altri e lo ignorano in maniera totalmente inconsapevole” […] e “quando si trovano in conflitto con gli altri, poiché non fanno alcun tentativo di alterare il proprio modo di vedere le cose, non riescono a instaurare un dialogo autentico. Continuano a riaffermare se stessi anche se questo significa costringere le altre persone a farsi da parte”. Vivere così significa farsi dominare da quello che il Buddismo chiama l’impulso demoniaco di piegare gli altri alla propria volontà».

Per il Buddismo la nostra felicità, la nostra capacità di provare gioia e piacere nel vivere è direttamente legata al modo in cui consideriamo e affrontiamo la sofferenza. In particolare quella che per l’essere umano, come per l’animale, è la sofferenza delle sofferenze: la morte.

«Shakyamuni insisteva che la vera felicità, la gioia che sgorga dalle profondità della vita, si può provare soltanto quando resistiamo all’impulso di distogliere gli occhi dalle sofferenze degli altri e invece le affrontiamo come se fossero nostre […] La civiltà contemporanea, determinata a evitare ogni dolore, ha cercato di ignorare la morte. Invece di guardare in faccia l’inevitabile sofferenza di vita e morte, cerchiamo di gestirla e controllarla con la biotecnologie e con le terapie mediche più avanzate. Questi sforzi, che di per sé hanno un grande valore, spesso avvengono a spese dell’opera ancor più cruciale di sviluppare modalità di esistenza umana e sociale che permettano alle persone di affrontare positivamente queste sofferenze e godere di vite veramente realizzate».

E sussiste un legame altrettanto forte fra questa paura di guardare la morte e la legittimazione della guerra unita alla crescente indifferenza nei confronti dell’uccisione che caratterizzano la nostra civiltà.

«Nel distogliere gli occhi dalla morte, la nostra civiltà tenta di relegarla all’esterno, di farne “il problema di qualcun altro”, rendendo le persone insensibili al dolore degli altri. Questo rifiuto collettivo da parte dell’umanità di confrontarsi con la morte ha radicalmente indebolito i freni nei confronti della violenza. L’effetto è stato il massacro di massa delle due guerre mondiali e di tutti i conflitti locali che hanno fatto dello scorso secolo un’ecatombe con milioni di morti».

La conclusione di Ikeda si commenta da sola:

«Così come non c’è infelicità strettamente limitata agli altri, la felicità non è qualcosa che possiamo accumulare e tenere per noi. Abbiamo di fronte l’impresa e l’opportunità di superare il nostro ristretto egoismo per riconoscere noi stessi negli altri, come avvertiamo gli altri dentro di noi, e sperimentare la massima soddisfazione, illuminandosi l’un altro con la bellezza interiore delle nostre esistenza. È questa la sfida a cui i membri della SGI, in quanto praticanti del Buddismo, sono decisi a rispondere».

NR n 303 - 2004 - 15 aprile



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