Il concetto di libertà tra antichità e modernità

Il concetto di libertà tra antichità e modernità


La storia del mondo non è altro che il progresso della consapevolezza della libertà.

G.W.F. Hegel

In questo scritto propongo un'analisi di "La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni" di Benjamin Constant e una critica dello Stato moderno.

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Dalla filosofia di Hegel in poi s’è giunti ad una comprensione fondamentale: per comprendere veramente un concetto occorre seguirne la genesi storica ed accompagnare i suoi sviluppi fino a noi, soltanto così, ripercorrendo la sua Memoria e seguendolo nel suo razionale svilupparsi è possibile comprendere qualsiasi concetto che può interessarci capire: la libertà non fa la minima differenza, ed è proprio per questo che aiutandomi con un’opera di Benjamin Constant (che nasce come vero e proprio discorso) chiamata “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” vorrei seguire il corso della storia del mondo per scoprire come la libertà stessa abbia avuto uno sviluppo storico e il suo stesso concetto è vitalmente mutato seguendo la vita degli uomini.

La conferenza, tenutasi all’Athénée Royal nel 1819 è semplicemente l’avvio di un lavoro pionieristico che ha tenuto impegnato l’uomo fino ad ora e che ha visto questo tema sviluppato lungo la filosofia politica, la filosofia del diritto e soprattutto la storia.

Come già il titolo può preannunciare il tema è proprio quello non solo di delineare una semplice differenza tra la forma antica della libertà e quella moderna, ma anche di segnarne, insieme a qualche aiuto esterno proveniente da Hegel, il suo cammino fino a noi, ossia la sua concreta e storica evoluzione. Infatti esiste una differenza abissale tra il modo antico e quello moderno di concepire la libertà su cui entrambi gli autori (Hegel e Constant) non possono far che concordare ed è il rimandare la libertà antica all’animale politico (zoon politikon) e quella moderna ad un nuovo tipo di uomo che per la prima volta concepisce la libertà come un bene individuale di cui usufruire. Appare già così a prima vista come questa nuova forma della libertà possa essere in qualche modo connessa al capitalismo, poiché è assai facile vedere la connessione tra l’usufruire della propria ricchezza e l’usufruire della propria libertà nell’usufruire di qualcosa di unicamente personale, ma andiamo con ordine.

1) La libertà degli antichi coincide con la partecipazione politica

Constant tira subito in causa il regime dei galli, degli spartani e persino dei romani per mostrare come in nessuno di questi sistemi sia effettivamente identico alla democrazia rappresentativa, in quanto, ad esempio, nel popolo romano nonostante la plebe avesse ottenuto i suoi rappresentanti, questo era comunque in grado di esercitare direttamente alcuni diritti politici senza aver bisogno di rappresentanza. Se si dovesse chiedere a qualunque uomo attuale “che cos’è la libertà?” questo comincerebbe sicuramente ad elencare una serie di libertà come quella di pensiero, di espressione, di culto, di stampa etc. Notate come nell’antichità questa suddivisione è completamente assente e si tratta di un qualcosa di essenzialmente moderno concepire la libertà in questa maniera, ossia come una serie di beni suddivisi dei quali ognuno può godere nella sua vita privata e dei quali può disporre come vuole, ed è addirittura persino libero di rifiutarli. Infatti ogni qual volta si decide di condividere una foto sui social network o di scrivere un post riguardo ad un fatto della propria vita si sta effettivamente concedendo un piccolo pezzettino della propria privacy e questo è molto importante, perché presso gli antichi non era possibile rifiutare il genere di libertà che questi stessi concedevano senza essere un criminale da mettere a morte, come ad esempio successe con Socrate. Ma in cosa consiste la libertà degli antichi?

1.1) La partecipazione alla vita politica significa innanzitutto poter scegliere chi è il nemico

La libertà degli antichi è la libertà della comunità, è il poter esercitare pubblicamente nella pubblica piazza una intera parte della sovranità il cui unico limite era la capacità di persuasione: per questo i sofisti divennero in Grecia, per esempio, delle figure venerate da alcuni e temuti da altri, in quanto insegnavano proprio l’arte del persuadere col discorso e il discorso pubblico era quanto si riteneva necessario ai fini della decisione politica. Infatti a tutti appare nel proprio immaginario collettivo, non appena si menziona la politica greca, la discussione nell’agorà come fautrice delle scelte per la polis. Proprio questa peculiare situazione dell’antichità (che vale sia nella Grecia che conosciamo noi tutti che nelle popolazioni tribali in cui la tribù stessa discute) è ciò che permette di confondere per gli antichi il sociale con il politico, tema del quale si è occupato il giurista e filosofo Carl Schmitt in “le categorie del politico”. Infatti, oltre a sostenere una iniziale indistinzione tra politica e società, tanto da aver permesso la confusa traduzione di animale politico in animale sociale, il filosofo in questione fu capace anche di cogliere l’elemento del politico, che come lui dice, è il poter scegliere autonomamente chi è il nemico e chi è l’amico. La libertà politica degli antichi è proprio questo e infatti le guerre erano combattute da eserciti composti dai cittadini che difendevano la patria e non da eserciti regolari che combattevano per conto di uno Stato, soltanto dai romani in poi s’è potuto iniziare a parlare di un esercito regolare a tutti gli effetti e fu proprio questo elemento che rende Roma il punto di svolta che porta alla libertà dei moderni, ed infatti, come è stato già anticipato, questa civiltà è una sorta di ibrido tra la concezione antica della libertà e una concezione moderna. Con l’esercito regolare alle dipendenze dello Stato, infatti, è lo Stato che come unità politica è in grado di decidere chi è il nemico e di iniziare una guerra senza il parere dei cittadini, cosa che è diventata nei nostri tempi la norma. Ma inizialmente non era proprio così, tutte le guerre venivano stabilite collettivamente e i membri della tribù o della città erano pienamente responsabili di tutte le scelte che si prendevano all’interno della città, quindi almeno i cittadini (non gli schiavi) erano gli autori diretti (sempre, ovviamente, moderati dal sovrano) delle scelte che riguardavano la vita politica della città (sempre intesa come binomio amico-nemico).

1.2) Gli antichi avevano una concezione del privato molto compressa

Ma ciò, ovviamente, aveva un caro prezzo, infatti, seguendo i numerosi esempi di Constant, è stato possibile individuare come il prezzo da pagare per poter esercitare questa libertà era il puro annullamento del privato. Ma questa espressione è una mera proposizione didattica per permettere di capire, poiché anche il concetto del “privato” in opposizione al “pubblico” emerge solo con la nuova idea di libertà. Il cittadino è concepito come un prodotto dello Stato tanto che l’unica dimensione potenzialmente privata, la famiglia, è stata fin da sempre “politicizzata” con il matrimonio, i riti e quant’altro. L’unico bene veramente privato erano i figli, i bambini, ma questo solo perché la società li vedeva come inutili e quindi come tali venivano abbandonati all’arbitrio dei genitori. Ma questo, se scaviamo ancora un po’ nella storia, si può vedere ancora più chiaramente se si pensa che gran parte delle lotte e dei commerci iniziali tra le tribù riguardavano le donne, beni per assicurarsi buone relazioni di “politica estera” che venivano strappati senza troppe moine alle famiglie.

Il mito, per esempio, di un’antica Grecia tollerante e liberale è, del resto, un mero mito: Socrate condannato a morte perché “pervertitore di Giovani” e addirittura Protagora, che nella sua vita fu uno strettissimo alleato e amico di Pericle, poiché dichiaratosi agnostico, stava quasi per subire la sua stessa sorte. Perciò per esercitare il diritto di parlare in pubblico e di poter far valere la propria parola nella libertà politica si doveva avere assoluto rispetto per le tradizioni, rispetto che, nonostante la tragica sorte del suo maestro Socrate, ancora condizionava Platone e ancora gli faceva avere una mentalità politica tradizionalista. Nelle sue opere infatti si può chiaramente vedere un cieco rispetto per gli dei e per la morale greca dei suoi tempi e nella Repubblica arrivò addirittura a proporre un sistema di censura per impedire che gli scritti potessero essere sovversivi per l’ordine dello Stato.

1.3) La sottomissione di Socrate allo Stato nel Critone

Questo stesso principio spinge addirittura Socrate, nel Critone, a reputare giusta la sua condanna e accettarla. Chiaramente, nel testo, viene scritto che l’uomo è un prodotto delle leggi dello Stato e che esiste soltanto grazie a queste. Il dialogo pur essendo molto breve espone chiaramente la completa sottomissione dell’uomo antico alle leggi e all’autorità dello Stato. L’unica via per poter ottenere qualcosa dalle leggi, come dice Socrate, è attraverso la persuasione. Ma se le leggi optano per la condanna si è criminali in quanto condannati, e l’ingiustizia non consiste nell’aver commesso qualcosa, ma nell’aver ricevuto la condanna. Così quando Socrate rifiuta l’aiuto di Critone e decide di morire non fa altro che restare coerente alla struttura della libertà antica, non esistendo alcun individuo, ogni persona è un prodotto della legge ed in essa ha la sua giustificazione d’essere. Ha valore unicamente come dibattito politico, ossia come ciò che essa è in grado di estrinsecare. Aver valore in questa maniera significa essere sottomessi totalmente alla comunità (in quanto il valore è l’estrinsecabile) e chi è in grado di usare le leggi è in grado di usare il popolo stesso e gli uomini. Perciò Socrate ci mostra come questa dinamica di potere richieda una sottomissione unilaterale da parte del cittadino quando addirittura arriva a dire, facendo animare le leggi con una prosopopea in risposta ad un ipotetico tentativo di fuga da parte sua:

Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?... O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?. (Platone, Critone)

Si tratta dunque di un problema di efficacia, poiché la legge ottiene legittimità in quanto legge e una sua elusione, indipendentemente dal suo contenuto, è considerata sbagliata. La legge inefficace distrugge la città perché secondo il concetto della libertà antica, una mancanza di leggi forti consiste anche in una mancanza di uomini forti e quindi Socrate muore perché persuaso di distruggere la città intera nel caso di ribellione. Poiché non ci si può ribellare, l’individuo non è coscientemente riconosciuto e le persone servono unicamente per servire la prosperità della città e la loro parola vale unicamente come parola della città. Perciò per potersi far ascoltare occorre già essere tutt’uno con la città e non discordare da essa, così che la ribellione non esiste nemmeno come possibile.

2) La religione, il logos divino, è la prima forma di emancipazione dal totalitarismo politico

Ma vediamo, ora, quella verità che è in grado di minacciare questo sistema così unilaterale e che venne così bene esposta in una tragedia greca. Nel mondo antico, infatti, v’era una traccia del privato che non è ancora assimilabile all’individualismo dei tempi liberali moderni in quanto comunque qualsiasi scoperta di qualsiasi sorta deriva sempre da una mente singola e quindi l’annullamento dell’individuo nella legge è unicamente superficiale e la sottomissione doveva continuamente essere rinnovata dalle condanne.

2.1) Antigone come il proto-individuo

Come Hegel ci fa notare, questa parvenza di individualità che è ancora troppo precoce per esser chiamata individualismo, risiede nell’opposizione delle leggi divine alle leggi della città. Una, per esempio, che ci permette di analizzare questo dilemma è proprio quella della sepoltura: tema centrale nella relazione tra Achille e Ettore (addirittura suo padre rischiando tutto va fin nell’accampamento del nemico per chiedere le spoglie del figlio) e nella tragedia dell’Antigone in cui l’omonima protagonista della tragedia decide di uccidersi in quanto condannata per aver disubbidito alla legge della città, il nomos (di cui parleranno poi i sofisti) seguendo il Logos, la legge divina. Questa opposizione tra queste due leggi è l’unica che può aversi nella società antica in quanto entrambe esercitano un opposto e reciproco diretto proveniente da due comunità differenti: la religione e la politica. Quindi tale opposizione non è ancora l’opposizione dell’individuo che per sorgere ha bisogno della nascita degli stati liberali. Soltanto una legge si può opporre ad un’altra legge perché solo essa viene vista come legittima dinanzi all’occhio della libertà antica. Si può notare come Antigone abbia la sua posizione riconosciuta come legittima unicamente perché si fa la portatrice di una legge, se fosse stata concepita come un individuo la sua posizione sarebbe quella di un folle e nessuno avrebbe pianto per la sua morte e non vi sarebbe stata alcuna tragedia. Il tragico, in questa tragedia, è proprio l’aver scoperto la possibilità di opporre una legge divina ad una legge statale. Si tratta dell’opposizione tra morale e legale, oppure, per rimanere nel clima della sofistica greca in cui Socrate e Platone ebbero modo di vivere, tra legge divina o la legge naturale (anche se i greci concepivano questa come una unica legge perché non v’era contrapposizione netta tra dio e natura) e la legge statale. Persino Kant che nei manuali di filosofia è visto come l'innovatore della filosofia morale per eccellenza, riesce a ritagliare alla libertà umana il suo posto metafisico solo concependola come legge. La legge morale infatti è ciò che secondo Kant ci rende liberi, una versione "secolarizzata" della legge divina che rendeva libera, rispetto alla politica, Antigone.

3) La libertà dei moderni è la libertà dalla politica

Sulla lotta tra leggi intesa prima come politica vs. religione e poi nell'epoca moderna come religione vs. morale, si sfalda progressivamente la libertà antica e sorge quella moderna: infatti la libertà attuale, dei moderni, è completamente differente da quella antica e mi sono soffermato su di essa molto poco rispetto all’antica perché questa essendo attuale è conosciuta da tutti: perdita dell’unità politica della società che viene degradata a comunità, quest'ultima trasferisce tutto il potere politico nel sovrano e riceve come compenso il diritto ad esercitare delle libertà in cui godere del privato. Infatti Constant pur celebrando questo (ossia la scoperta dell’individuo e le sue tutele) non può far altro che notare come d’altra parte lo Stato diventando l’egemone del potere politico si è necessariamente trasformato nel custode dei cittadini e questi sono un po’ visti come dei bambini lasciati a giocare al parco giochi e osservati dai genitori affinché non si facciano male: questi devono solo lavorare e godere. Riflessione poi perfezionata da Carl Marx che mostrò come l’alienazione del proletario lo spinge a considerare il lavoro (il momento della sua esistenza come agente poietico) come sfruttamento e alienazione facendogli concepire il tempo fuori dalla fabbrica come l’occasione per lo sfogo di tutti gli istinti bestiali.

3.1) La libertà antica viene dissolta dal pluralismo di leggi

Constant vede proprio nel commercio, nella sovrappopolazione e nell’estensione dei territori (non è un caso se Roma si pone come ibrido in quanto procede progressivamente ad estendere di molto i suoi territori) le cause che portano dalla libertà antica a quella moderna: estendendo i territori entrano a contatto più “leggi divine” sotto un’unica legge statale, così che la legge dello stato chiude la sua legittimità unicamente nella sua legalità e non ha più valore assoluto, il commercio addirittura inventa una sua propria legge con la sua propria pretesa di legittimità e l’aumento di popolazione impedisce per ragioni di spazio un attivo coinvolgimento nella legge statale facendo disperdere gli uomini negli altri sistemi di leggi (religiosi o morali) rendendoli così meno coesi nella legge dello Stato che perde necessariamente di legittimità; e vede nei socialismi un futile tentativo di ritornare ad una libertà antica. Infatti, e questo è il nucleo del suo testo, una libertà socialista non è altro che una sorta di revival della libertà degli antichi e per il modo di vivere attuale non è possibile, poiché per avere una libertà puramente politica è necessario il pensiero unico conforme a una singola legge dello Stato, un commercio limitato e non capitalista e un ridotto numero di abitanti, cosa impossibile in uno Stato del 1800 in cui si cercava di garantire libertà di stampa e di opinione a tutti, e che avrebbe fatto nel tempo a venire dell’espansione territoriale e del colonialismo la sua colonna portante.

3.2) La libertà moderna è libertà economica

la società umana si è evoluta sollevandosi da una libertà politica e arrivando ad una libertà economica, ossia la libertà di poter impiegare il proprio tempo e il proprio denaro come più si vuole. Ma così come i delfini, che una volta erano terrestri, dovettero rinunciare alla terraferma per potersi spostare verso il Mare e diventare le creature acquatiche che noi ora conosciamo, allo stesso modo noi uomini abbiamo dovuto rifiutare la nostra terra per cominciare a solcare i nostri mari... e il paragone non è meramente casuale. Infatti Carl Schmitt in un suo testo intitolato “Terra e Mare” sembra integrare la tesi di Constant con la seguente: le popolazioni che hanno una vita di terra e che basano la propria vita su un’economia di terra tendono ad essere collettiviste (socialiste) e coloro che si pongono alla conquista dei mari sviluppano uno spiccato individualismo. E così, sempre lo stesso autore, in un altro testo “la teoria del partigiano” contrappone il partigiano al pirata in cui il primo combatte per la propria patria come un cittadino, mentre il secondo rischia la propria vita con la propria ciurma per il suo profitto personale. Si tratta di due modi di concepire la vita in maniera completamente differente. Ma cosa ha permesso, nella storia, questo passaggio? Ecco che un altro testo, il penultimo che citeremo, ci aiuta a completare il disegno. L’opera a cui mi riferisco è un saggio di Max Weber chiamato “l’etica protestante e lo spirito del capitalismo” in cui si mostra come le dottrine della predestinazione e dell’ascesi protestante (luterani esclusi) riuscirono ad estendere quel modo di vivere la vita che poi darà origine alla modernità, che è completamente speculare alla libertà degli antichi (quasi ne fosse un’hegeliana antitesi). Infatti così come il cristianesimo cattolico proponeva un’economia tradizionalista basata sul sostentamento e sull’evitare l’accumulo di profitto, d’altra parte, le dottrine protestanti più radicali imponevano come dovere morale e religioso la ricchezza in quanto considerata segno della grazia, ossia della predestinazione divina. Ovviamente la forma di vita capitalista e la libertà moderna si emanciparono quasi subito dal loro imprinting religioso, tanto che questo ne è stato un semplice catalizzatore. Si può dire quasi che la libertà antica, trovando la sua contraddizione presso il logos divino, ed essendo stata sostituita ad un predominio di quest’ultimo nel medioevo, è stata poi soppiantata dalla religione stessa, covando e accumulando nei secoli dei secoli quel contatto assolutamente privato che ogni uomo sente con la divinità della propria religione in quanto ne ha un sentimento privato di fede che è testimoniato da tutta la tradizione Patristica (ad esempio da Agostino) ma anche nei tempi moderni da figure come Kierkegaard. Nell’Antico testamento stesso Dio si rivela agli uomini sempre grazie ai suoi profeti e ai suoi prescelti, tanto per fare qualche esempio, è a Mosè che Dio parla, o ad Abramo, o a Noe, o, addirittura, nel nuovo testamento, al suo stesso figlio. Ma questo non cambia nelle religioni pagane in quanto la divinità parla sempre ai sacerdoti o agli oracoli, e questi sono individui. Quindi quel germe di rapporto privato (che nell’epoca antica veniva ancora interpretato come una seconda e sotterranea comunità, non a caso Hegel definisce questa legge divina una legge delle ombre, degli inferi) attraverso il cristianesimo (attraverso la pratica della confessione dei propri peccati alla divinità) e alla fine attraverso i calvinisti, i battisti, i pietisti e i puritani ha portato alla concezione di una libertà come un bene di cui l’individuo usufruisce, che è poi stata presa dallo Stato come un contentino da elargirgli per istituire il suo potere in modo indisturbato.

4) La fuga dalla politica ci rende ostaggi di essa

Certamente dobbiamo dire che la libertà nel suo concetto si sia evoluta e che la sua evoluzione è stata storica, in quanto questo nuovo concetto di libertà non era minimamente possibile, ma era invece concepito come criminale (si veda gli esempi sopra). E per questo non c’è dubbio che la libertà dei moderni sia migliore di quella degli antichi, in quanto prevede che si dia come entità giuridica l’individuo e che questo, almeno su carta, abbia delle minime tutele. Che poi lo Stato le calpesti continuamente è un altro discorso, ma fino a quando l’individuo riesce a mantenersi fuori dallo stato d’eccezione e evita di ridestare il Leviatano decisionista che è la macchina statale, esso è almeno libero di costruirsi una propria cultura, associarsi come vuole, professare una propria idea senza ricevere condanne di empietà e essere messo a morte. Ma cosa abbiamo perso? Abbiamo dovuto sacrificare le zampe per avere le pinne, e così, non ci rimane che “vivere nascosti” come suggerisce il motto di Epicuro, perché la luce del Sole non ci è più concessa. Il mio obiettivo era rendere consapevoli di questo sacrificio storico e di far capire che quanto abbiamo ottenuto non è un dono da parte di un potere clemente che ci vuole liberi, ma di un potere che vuole governare indisturbato mentre ci rende innocui nel farci godere privatamente dei nostri beni. Ma che succede, invece, a chi allerta il Leviatano? Esso si dispiega con tutta la sua furia ed è pronta a banchettare con le carni del malcapitato. Infatti, chi oltrepassa le sue misure, chi prova a prendersi una fetta in più di libertà rispetto a quella che viene concessa per il godimento privato, in modo che ce ne stiamo tutti buoni nella nostra personale cella a godere della serenità e del piacere che ci è concesso, diventa subito “visibile” al sistema e la sua libertà viene opportunamente annientata.

4.1) Anche la società moderna opprime l'individuo

Viviamo nel paradosso in cui per poter essere almeno un po’ liberi occorre essere invisibili, e si è invisibili solo nella misura in cui si rimane buoni negli spazi che ci sono concessi, e ciò significa non poter far mai emergere la propria individualità in quanto tale. Infatti lo Stato vuole essere l’unico individuo, l’individuo assoluto, è testimoniato da quanto dice Schmitt nella già citata opera sulla teoria del partigiano. Il partigiano è concepito come politico, a volte come agitatore rivoluzionario, in quanto decreta da sé chi è il proprio nemico. E questo, come ho già detto, è il peccato mortale. Per questo il partigiano è stato concepito nella storia, all’interno del suo stesso Stato, come illegale a prescindere dalla sua causa. Come combattente irregolare è sempre stato reputato una canaglia e ai gruppi politici partigiani non venne mai riconosciuto lo statuto di vero nemico, in quanto nessun gruppo di partigiani in Europa poté mai godere del regolamento per la guerra terrestre dell’Aja che legittimava secondo caratteristiche che non si potevano applicare ai partigiani, un esercito come tale. Ciò è importante perché secondo il diritto classico della guerra, un nemico legittimo gode di certi privilegi come il diritto ad avere una pace, dei diritti sui prigionieri di guerra e soprattutto era riconosciuto come entità legittima che non doveva essere annientata. Di tutto ciò il partigiano, l’unico tipo di nemico politico intrastatale, non ne poteva in alcun modo godere e le sue guerre erano concepite come rivolte da reprimere nel sangue dai corpi di polizia senza riguardo alcuno, e quindi essere fucilati senza alcun ritegno. Per farvi un’idea, ecco che cosa riporta l’articolo 4 del regolamento dell’Aja sui prigionieri di guerra

I prigionieri di guerra sono in potere del Governo nemico, e non degli individui o dei corpi che li hanno catturati. Essi debbono essere trattati con umanità. Tutto ciò che appartiene loro personalmente, eccetto le armi, i cavalli e le carte militari, resta di loro proprietà.

Questa umanità non è garantita a chi si rivolta all’interno dello Stato, perché è considerato solo un criminale. Con ciò Schmitt suggerisce che ogni rivolta nel mondo moderno è dal principio concepita come illegittima e quelle guerre che non si combattono più tra gli stati sono a tutti gli effetti, come dice il giurista, “guerre civili totali” perché il rivoltoso è reputato feccia, e caratterizzate dall’inimicizia assoluta. E qual è il vero nemico in queste guerre? Domanda veramente cruciale a cui c’è una risposta secca e tagliente: noi. Il nostro individuo, la nostra individualità. Certamente, nelle forme attuali non si tratta di una guerra che si combatte con le rivoltelle, piuttosto con manganelli, lasciapassare e vaccini, ma in verità essa si combatte principalmente come una partita a scacchi in una dialettica tra ciò che è stato detto e ciò che si può dire: le nostre parole sono diventate completamente inutili e hanno perso ogni pericolosità, perché l’individuo se ne sta nel privato e viene riconosciuto soltanto come qualcosa di negativo, esso è quasi un’entità metafisica, noumenica. Schmitt definisce ciò una guerra non per colpire i sensi e le immaginazioni, ma perché ci è effettivamente vietato essere pubblicamente degli individui, possiamo esserlo solo nel privato. Questo divieto si esprime nell’impossibilità di poter esprimerci attraverso il discorso sulle tematiche rilevanti, e nell’essere appiattiti nella “vacuità della persona”, come dice Hegel nella “Fenomenologia dello Spirito” a cui è concesso soltanto un voto numerico. Ma proprio in ciò consiste la libertà moderna: nel non disturbare.

4.2) La facoltà di critica si è trasformata in una fobia

A chi disturba viene dichiarata una guerra silenziosa svolta con strumenti volti alla moderazione e qualsiasi causa viene subito tacciata di estremismo e con vari termini dal pedice “fobia”.
Se critichi la teoria della razza critica sei automaticamente xenofobo e razzista
Se critichi il femminismo sei automaticamente misogino e maschilista.
Se critichi la teoria gender sei automaticamente omofobo e bigotto.
La critica anche se non incita alla violenza verso nessuno, ma si limita a distruggere delle ideologie, cioè delle strutture di pensiero, viene concepita assolutamente come socialmente sconveniente e scorretta, viene alterata, strumentalizzata e ridotta ad una critica verso delle persone. Questo perché lo Stato ci tiene tantissimo a tenere tutti rinchiusi nella cella del proprio godimento privato, e cerca il più possibile di sopprimere qualsiasi critica perché non vuole che le celle di ognuno scoppino come delle bolle di sapone, non vuole che ci troviamo dinanzi alla nuda vita e si rendano conto del potere oppressivo dello Stato. Noi non vaccinati siamo diventati consapevoli nel 2020 anche se in realtà questo scritto è del 2018, lo sto lievemente modificando per adattarlo all'oggi.
Il vero fobico è solo lo Stato, poiché il costruire una propria causa, qualsiasi essa sia, porta a fondare come tale un’unità di persone che stabiliscono chi è il nemico. E ciò è fondamentale, perché lo Stato vede sostituirsi alla propria legittimità la legittimità di un gruppo intrastatale, e nel più grande dei casi di un partito (come la storia del ‘900 ha più volte mostrato). Nessuno può combattere per la propria causa. Deve essere sempre la causa di qualcun altro. O la causa di una minoranza, o quella astratta dei diritti. L'importante è che la causa in questione non sia personale, ma possa essere in qualche modo collettiva così che lo Stato ci possa mettere il suo zampino per mantenere la propria legittimità con la forza, infatti quando essa viene minacciata deve intervenire, perché la legittimità è ciò che lo regge in piedi e non la sua legalità. È la forza del fucile e non della legge a mantenere gli stati.

4.3) L'individuo viene espropriato da sé tramite la legge


Se un tempo quando il criminale commetteva un crimine si vedeva inflitta una tortura per poter ripristinare il torto inflitto al Re come garante della legge, oggi l'uomo viene sconfitto e umiliato ancor prima della condanna, a prescindere dal fatto che sia accusa o difesa, perché espropriato della propria causa e viene affidata alla legge ed in questo atto d'affido viene svuotato di se stesso, perché la sua causa gli viene strappata e viene affidata nelle mani del potere giuridico che gioca con essa con le sue leggi e con i suoi modi: la legge è come nel racconto inserito nel Processo di Kafka, una serie di porte e di guardiani che per essere compresi devono essere violati. Tra individui non può esserci un rapporto diretto, ma tutto deve essere considerato indirettamente e lo Stato deve sempre fare da mediatore. Cessando così tutti i battibecchi privati e diventando il garante di qualsiasi mossa di un individuo, diventandone approvatore della legittimità non appena si sposta in un settore un po’ più pubblico, lo Stato si prende il monopolio del politico e della decisione legale. Questa è la più astuta mossa dello Stato moderno che così si fa Assoluto nella stessa maniera dell’antico, riuscendo a mantenersi forte nonostante esistano di fatto delle leggi secondarie (religioni e morali) e addirittura degli individui. Lo Stato diventa “Stato neutrale” e ciò, secondo ciò che dice Schmitt, significa dare allo Stato il titolo di legge delle leggi. Esso non potendo rivaleggiare con le altre leggi secondarie allo stesso modo dello Stato antico, in quanto se le riconoscesse come nemiche le porrebbe al suo stesso livello (e proprio qui lo Stato antico ha trovato la sua rovina), si fa tollerante e neutrale e si pone al di sopra di tutte le questioni in virtù della sua neutralità e si auspica e ci invita alla sua stessa neutralità, ossia alla rinuncia di qualsiasi posizione. Lo stato ci sconfigge neutralizzandoci. Rendendoci neutri e tolleranti ci rende morti. Ci rende ingranaggi della sua macchina e ci assorbe e metabolizza proprio attraverso l'atto di renderci tolleranti e neutrali. Perciò, alla fine, seppur siamo criceti a cui è stata affidata una ruota da far girare, almeno possiamo esser certi che se restiamo nascosti nessuno viene a ucciderci perché abbiamo decorato la ruota in un modo che non piace ai potenti. Finché non decidiamo di commerciare le nostre decorazioni o persuadere il nostro criceto vicino ad adottarle, lo Stato ci considererà neutrali e nella sua neutralità ci lascerà alla nostra misera vita da cricetini. Ci è concessa questa individualità proprio perché ci dobbiamo dedicare alla decorazione della nostra ruota. Come Paul Scheerbart nel suo romanzo “Lesabéndio” ci suggerisce, vivere unicamente per decorare significa vivere per essere dispersi, senza avere un progetto.

5) La libertà moderna è solo una cella più confortevole

Eppure, per quanto il neutrale invito alla neutralità ci voglia persuadere che occuparsi unicamente della propria ruota è tutto ciò che dobbiamo fare, quanti tra noi, invece, sono spinti a costruirsi un progetto d’esistenza e cercano di fare qualcosa di concreto? Ecco, questa è la vera funzione dell’individuo per lo Stato. Come Hegel dice nella Fenomenologia dello Spirito, esso è sottratto dalla famiglia, ossia dalla sua zona privata, per poter produrre beni nella comunità e questo gli consente di produrre ricchezza, ed è per questo che la libertà moderna è una libertà costruita sulla base dei beni. Lo stato concede di godere dei beni nella misura in cui lo stesso individuo ne produce, sempre ovviamente entrando come “mediatore neutrale” a decretare sul commercio e la diffusione di tali beni. La vecchia libertà, invece, chiedeva un impegno politico costante e il contatto diretto tra le persone. Lo Stato non mediava quasi nulla in quanto interveniva direttamente e l’unica unità decisionale possibile era quella politica. Perciò occorre dire proprio che ci sono due forme di libertà, una antica caratterizzata dall’impegno politico e pubblico e che pretende la totale devozione, assai simile alla devozione che richiedono le ideologie di partito e che hanno richiesto gli stati totalitari, e una moderna caratterizzata dal completo sacrificio del politico per approdare ad una libertà con finalità economiche della quale possiamo godere in tranquillità a patto di rinunciare di cambiare lo status quo. Entrambe le libertà mantengono uno Stato assoluto, ma il primo lo fa negando l’individualità a priori e il secondo, visto che non può fare a meno di essa in quanto non la sa arrestare completamente e in quanto gli è utile economicamente, la restringe e le toglie ogni potenza con la neutralità e la mediazione. La somiglianza tra i due stati, se visti da fuori, può indurre a confondere queste due libertà e a non far intendere senza un po’ di riflessione la loro differenza. Ma occorre non confonderle in quanto ciò comporta a non considerare realisticamente la nostra situazione, infatti ciò porta, assai di frequente, o a radicali pessimismi, poiché l’individuo sente il politico come determinante la sua sfera privata, o sfrenati ottimismi nei quali l’individuo vede estendere la sua sfera privata al di là di ogni misura. Occorre ora fare il punto della situazione e rispondere una volta per tutte in modo definitivo alla domanda: “qual è meglio?” Benjamin Constant, il cui discorso ci ha guidato in maniera impercettibile per tutta l’esposizione, suggerisce che sia del tutto preferibile il secondo tipo di libertà, ossia quella moderna, nonostante i suoi grandi difetti poiché possiamo almeno aver cura di noi stessi, in quanto l’esistenza di un “noi stessi”, o meglio, di un “me stesso” è politicamente riconosciuta. Questa, a suo avviso, è la vera evoluzione della libertà, nonostante lo Stato possa essere stato descritto in questa esposizione come tirannico e manipolatore: perché se nel passato esisteva unicamente uno Stato, ossia un’attività politica incessante garantita da alcune condizioni economiche, demografiche e sociali che doveva riguardare tutti, adesso si può dire che esistono lo Stato e l’individuo e gli individui dotati di ingegno possono cavarsela sicuramente meglio. In conclusione si può dire che con tutti questi secoli siamo almeno usciti dal carcere duro... riusciremo mai ad aprire la gabbia?


BIBLIOGRAFIA:

Carl Schmitt:

1) La teoria del partigiano, Adelphi.

2) Terra e mare, Adelphi.

3) Le categorie del politico, Il Mulino.

Hegel:

1) La Fenomenologia dello Spirito, Laterza.

Weber:

1) L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, “i classici del pensiero libero”.

Benjamin Constant:

1) La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, “i classici del pensiero libero”.

Kafka:

1) Il processo, Crescere edizioni.

Scheerbart:

1) Lesabéndio, Castelvecchi.

Per l’Antigone: Sofocle, in “Il teatro greco, tragedie” di BUR.

Per l’aneddoto su Protagora: “I presocratici”, BUR

Per l’adeddoto su Socrate:

Platone:

1) Apologia di Socrate, Laterza.

2) Critone, Laterza.

Per la metafora della società come carcere:

Michel Foucault:

1) Sorvegliare e Punire, Einaudi.

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