IL PD DECISE IL LOCKDOWN SPINTO DALLE GRANDI IMPRESE

IL PD DECISE IL LOCKDOWN SPINTO DALLE GRANDI IMPRESE

Francesco Borgonovo e Alessandro Rico, La Verità, 4 gennaio 2024

Nelle carte «segrete» di Bergamo le intercettazioni rivelano le motivazioni molto poco «sanitarie» che fecero passare i dem (e Conte) dalla linea «aperturista» alla chiusura totale: il pressing su Gori e Martina degli industriali. Il suggerimento al governo: «Bisogna bloccare le imprese piccole e far lavorare i big»

Un poco alla volta, la verità dei fatti comincia a venire a galla. Le carte di cui il nostro giornale ha potuto prendere visione e di cui ieri vi abbiamo riferito alcuni contenuti contribuiscono a illuminare alcuni luoghi oscuri del regime sanitario che ancora - clamorosamente - non sono stati pubblicamente analizzati.

Ciò di cui abbiamo dato conto emerge da una inchiesta in cui era coinvolto - assieme ad altri - il sindaco pd di Bergamo, Giorgio Gori, che fu indagato e poi velocemente archiviato per abuso d’ufficio e falso ideologico in atto pubblico. Gli inquirenti fecero ricorso alle intercettazioni, trovarono parecchio materiale riguardante la gestione delle prime fasi della pandemia e lo girarono alla Procura bergamasca, la quale però - a quanto risulta – non ritenne di farne grande uso nella robusta inchiesta sul Covid conclusasi nei mesi scorsi. A prescindere dagli esiti giudiziari, tuttavia, quel materiale mantiene ancora oggi una notevole rilevanza politica.

Tanto per cominciare, dalla ricostruzione (forse parziale ma comunque indicativa) di quei primi spaventosi giorni nella bergamasca, emerge l’ombra di un caos totale che lascia allibiti. I politici si muovevano senza sapere dove dirigersi e come comportarsi, le comunicazioni erano difficili e confuse. Di utilizzare gli strumenti adeguati - ovvero i piani pandemici - nemmeno a parlarne: pare che tutto sia stato fatto all’impronta, basandosi sull’emotività più che sulla ragione. Certo, può darsi che fosse già troppo tardi, che il virus stesse già circolando nel Nord Italia e quindi che prendere misure immediate non avrebbe portato grandi risultati. Ma non possiamo dirlo con assoluta certezza. Di sicuro, chiusure più veloci e mirate sarebbero state decisamente migliori dei lockdown generali imposti per «cieca disperazione » a danno di tutti i cittadini. Le une forse avrebbero scongiurato le altre, e comunque un approccio più razionale avrebbe sicuramente giovato. Soprattutto, però, a colpire è il comportamento dei politici, quelli progressisti in particolare. Prima - per ragioni che ora andremo a indagare - si sono quasi tutti schierati per le aperture, anche comprensibilmente. Poi, nel giro di poco tempo, hanno radicalmente cambiato atteggiamento, e non sulla base di chissà quali analisi scientifiche, ma per un misto di convenienza, timore e spaesamento. Che cosa sia derivato da tutto ciò, purtroppo, lo sappiamo bene. E sappiamo pure che - in seguito - non c’è stata mezza argomentazione ragionevole che sia servita a far cambiare idea a chi, ideologicamente, aveva adottato una linea dannosa e controproducente.

«Pare che la scelta consapevole di chi poteva e doveva decidere tempestivamente la chiusura della Val Seriana e della Bergamasca e, invece, ha deciso di non intervenire, sia stata quella volta a tutelare l’economia e gli interessi economici degli imprenditori più importanti bergamaschi, violando e ledendo il diritto costituzionalmente garantito alla salute e alla vita»

dicono oggi gli avvocati Piero Pasini e Consuelo Locati, esponenti del gruppo di legali che assiste circa 360 familiari delle vittime del Covid in causa al Tribunale civile di Roma. La loro accusa è senz’altro pesante. Ma dalle carte visionate dalla Verità, effettivamente, emergono le pressioni e gli intrecci tra la classe imprenditoriale e la classe politica lombarda in quei giorni fatidici del 2020. La ricostruzione degli inquirenti comincia il 21 febbraio, quando il sindaco di Bergamo, Gori, parla al telefono con Massimo Giupponi, direttore dell’Ats e viene informato da quest’ultimo di un imminente confronto con il direttore della locale Confindustria, Paolo Piantoni. In quel colloquio, si dovrebbe decidere «come comportarsi con le aziende bergamasche che operano nel lodigiano», territorio infetto. Due giorni dopo, nonostante un decreto preveda già la possibilità di fermare le principali attività commerciali e di vietare gli assembramenti, il primo cittadino orobico e il rappresentante degli imprenditori concordano: sarebbe una «cosa eccessiva» chiudere «per un solo caso di contagio». Parlando con Alberto Ceresoli, direttore dell’Eco, Gori lo conferma: lui spera «che Bergamo non venga inquadrata in zona rossa, ma solamente gialla». Il motivo di tanta apprensione per le possibili restrizioni è presto spiegato: il 25 febbraio, il primo cittadino di Nembro, Claudio Cancelli, riferisce al sindaco di essere stato contattato da Pierino Persico, presidente dell’omonimo gruppo, famoso per aver realizzato lo scafo di Luna Rossa, «in quanto preoccupato per la chiusura dell’attività produttiva». Qui entra in gioco Elena Carnevali, già deputata dem. Il suo nome ce lo ricordiamo bene: emergeva proprio da un’inchiesta sull’accoglienza dei migranti nella Bergamasca analoga a quella da cui giungono le informazioni di cui stiamo dando conto. Nelle carte di quella indagine era contenuta una intercettazione fra la Carnevali e Bruno Goisis, gestore della cooperativa Ruah, piuttosto raccapricciante. L’esponente del Pd chiamava l’amico della coop e gli diceva: «Ciao, senti, ho un’urgenza e ho bisogno di chiederti una mano in questo senso, tu riesci a darmi la disponibilità di avere tre, tre braccia, cioè tre o quattro esseri umani domani un paio di ore che mi aiutano ad imbustare poi io i soldi li do a te ci pensi tu a trovare il modo». Questa era la sensibilità con cui trattavano gli aspiranti profughi. I politici del Pd, in compenso, sembrano essere molto più sensibili nei confronti degli imprenditori amici.

Tornando alle carte che esaminano quanto accaduto il 4 marzo del 2020, infatti, troviamo traccia di una chiamata della Carnevali a Gori. La deputata rivela al sindaco di essere stata raggiunta sempre da Persico, «il quale la esortava di far sì che le zone industriali venissero escluse dal provvedimento di chiusura». Delle sue presunte pressioni per impedire l’arresto delle attività produttive, l’imprenditore ha avuto modo di parlare, lo scorso marzo, con i magistrati di Bergamo. A loro, Persico ha spiegato di aver «semplicemente espresso le mie preoccupazioni, atteso che se non consegnavo i materiali sarei stato soggetto a danni milionari». Davanti alle toghe è comparso anche Marco Bonometti, ex presidente di Confindustria Lombardia. Costui ha ammesso di aver proposto al governatore, Attilio Fontana, «di farsi parte attiva a non far istituire zone rosse ma solo di limitare le chiusure alle attività non essenziali». Finora, invece, era venuto fuori soltanto parzialmente il ruolo di un altro big dell’imprenditoria bergamasca: Alberto Bombassei, già deputato di Scelta civica, il partito di Mario Monti, nonché patron della Brembo e generoso sostenitore, visti i 50.000 euro donati dalla moglie, Grazia Flaviani, dello stesso Gori. Bombassei, «preoccupato per l’allargamento della zona rossa», chiede al sindaco «se il governo possa emettere delle deroghe di apertura per talune aziende così come è stato per la zona del Lodigiano». Gori «è d’accordo sul fatto che la chiusura totale potrebbe avere effetti devastanti per l’economia in particolare su alcune aziende come quella di Persico, ma non sta a lui decidere il da farsi. Bombassei spera che le decisioni di chiusura siano prese con ponderazione per evitare il crollo economico». L’interpretazione degli inquirenti è cristallina: «La parte politica bergamasca, nelle persone di Elena Carnevali, Maurizio Martina (ex ministro dell’Agricoltura, ndr) e Antonio Misiani (all’epoca viceministro delle Finanze, ndr) si adoperavano in merito affinché il governo predisponesse nel dpcm le deroghe» desiderate. E anche Gori, benché sostenesse «con forza l’istituzione rapida delle zone rosse afferibili ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro», si fa «portavoce delle istanze degli industriali a tutela delle loro imprese». Tanto che promette a Mr Brembo «che proverà a sentire il ministro Guerini (Lorenzo, allora responsabile dem della Difesa, ndr)», lodigiano, oltre al direttore di Confindustria Bergamo. Da Piantoni, il sindaco prova a ottenere «informazioni circa la possibilità dell’emissione di proroghe di apertura per le aziende presenti nella zona rossa di Alzano e Nembro». Dopodiché, lo invita «a contattare il viceministro Misiani». Ma l’attivismo di Gori non si esaurisce qui. Sente Martina, il quale suggerisce di adottare «il principio di internazionalità» per salvare la Persico: siccome lavora con commesse estere, non può essere bloccata. Manca praticamente una settimana al clamoroso decreto che impone il lockdown nazionale. Eppure, mezza classe dirigente lombarda del Pd si barcamena tra la necessità di contenere il virus e quella di schermare le imprese del territorio.

Un’esigenza comprensibile da parte dei titolari delle società. Ma la politica avrebbe dovuto stabilire tempestivamente un ordine di priorità. Quale fosse quest’ordine, Gori lo lascia intendere il 5 marzo: conversando col suo omologo di Alzano, Camillo Bertocchi, lo informa «di essersi adoperato con Confindustria e alcuni parlamentari per far sì che nel decreto del ministero ci siano delle deroghe di apertura per alcune aziende fra cui quella di Persico Pierino e quelle più importanti della zona rossa». Ventiquattr’ore dopo, tuttavia, i timori paiono prendere il sopravvento. A Beppe Sala, il primo cittadino orobico spiega che, ormai, «la situazione in Bergamasca è sfuggita di mano» e «non ha quasi più senso fare zona rossa la Val Seriana, in quanto il virus si è diffuso in larga scala». Il 10, Persico chiama Gori e si lamenta del fatto che Giulio Gallera, assessore regionale al Welfare, «vorrebbe chiudere tutta la Regione Lombardia e che detta cosa rovinerebbe l’economia». Adesso, il sindaco di Bergamo non è più tanto accondiscendente. Cerca «di far ragionare Persico in quanto vi è un grave problema sanitario che sta facendo molti morti» e aggiunge che «inizialmente non era d’accordo sulla chiusura di tutte le aziende ma allo stato attuale è l’unico modo per evitare una carneficina». Eppure, il giorno dopo il primo cittadino si trova ancora a rassicurare Bombassei. Gli parla di «un accordo tra Fontana e Bonometti in cui veniva definito quali aziende chiudere e quali no» e sottolinea che «le grandi aziende come la Brembo e la Tenaris», del milanese Paolo Rocca, devono «restare aperte mentre le medie e le piccole imprese dovranno essere chiuse».

Ma poi arriva il colpo di scena. Il 12 marzo, a lockdown nazionale scattato, Matteo Tiraboschi, della Brembo, manda al sindaco il contrordine. Ovvero, che «vorrebbe chiudere l’azienda solo a seguito di un’ordinanza del governo che possa giustificare la situazione». Perché? Gori gli ricorda «che erano stati loro stessi a chiedere al governo di potere rimanere aperti». Cosa è successo? «Tiraboschi ribatte dicendo che la cosa era valida fino a ieri poiché adesso si sono ritrovati senza personale in quanto hanno tutti paura di andare a lavorare e quindi rimangono a casa. Per questo motivo non hanno più forza lavoro per portare avanti la produzione». La ditta di Bombassei , però, «non può fare in autonomia un comunicato», essendo «quotata in Borsa», una circostanza che, annotano gli inquirenti, fa temere ai manager un «crollo economico». È il motivo per cui si chiede a Gori, «in qualità di politico, di emettere un comunicato in merito al problema dell’assenteismo degli operai». Il sindaco si sente con Misiani. Lo informa «che serve un’ordinanza di chiusura di tutte le aziende», ovvero, «un’ordinanza governativa che giustifichi la chiusura di tutte le aziende». Comunque, precisa che «ieri Alberto Bombassei gli aveva espresso la volontà di continuare la produzione, ma Tiraboschi ha affermato che hanno sbagliato». A Misiani girano un po’. Quelli della Brembo, sbotta, «sono delle “teste di cazzo”». Tutta la vicenda degli scambi e del pressing degli imprenditori, Gori la racconta a Matteo Mauri, meneghino, suo compagno di partito e all’epoca dei fatti viceministro dell’Interno. Il colloquio, rilevano gli inquirenti, avviene presumibilmente tramite una telefonata via Whatsapp, non ascoltabile. Il che porta a concludere che il sindaco fosse anche oggetto di intercettazioni ambientali. A Mauri, Gori spiega che «la situazione inerente al mantenimento di apertura delle attività produttive veniva portata fino al presidente Confindustria di Regione Lombardia Bonometti che tramite Confindustria nazionale condizionava la scelta del governo», ossia la «prosecuzione delle attività produttive nel dpcm».

Similmente, a determinare il cambio di linea non sembra essere una mutata consapevolezza sulla pericolosità dell’epidemia, bensì la «netta inversione di scelta» da parte dei rappresentanti della Brembo, che spinge Gori a invocare «l’intervento di Mauri come portavoce della problematica al governo in seno alla decisione di chiudere le attività produttive a tutela delle stesse». Un’esigenza che, poi, il primo cittadino di Bergamo «ribadisce al viceministro Misiani», sempre «in virtù del cambiamento di idea da parte delle aziende produttive». Il 12 marzo, il sindaco di Bergamo si confronta con Piantoni. Sostiene che sarebbe intervenuta una «mediazione», cui Confindustria avrebbe «costretto Regione Lombardia» e «da cui nasceva il decreto governativo». Nondimeno, a Francesco Boccia, ministro per le Autonomie, «in tono nervoso», Gori «dice di non “tirarsi la palla” tra governo e Regione e chiede di trovare un comune accordo per chiudere tutte le aziende, salvo le filiere primarie».

Il 13 marzo, nel dialogo tra il primo cittadino bergamasco e Piantoni affiora di nuovo la vera ragione per cui gli imprenditori, dopo tante resistenze, vorrebbero la serrata: il punto è che «era inevitabile che il personale sarebbe venuto a mancare». Il 21 marzo, infine, il primo cittadino orobico offre questa sintesi: le «difficoltà nel dichiarare la Val Seriana zona rossa» sono dipese dalle «pressioni ricevute da Confindustria» e la volontà di non chiudere «partiva anche dal sindaco di Alzano Lombardo unitamente ad alcuni industriali della zona tra cui la ditta Persico». D’accordo. Ma a decidere erano forse gli imprenditori? E i politici erano forse costretti a seguire i loro diktat?



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