Esercizi di una politica del(la) comune - Jacobin Italia

Esercizi di una politica del(la) comune - Jacobin Italia

Salvatore Cannavò

17-22 minutes


La democrazia diretta è ormai entrata nell’agenda della politica. Ma senza il contrappeso di corpi collettivi si riduce a plebiscitarismo o a semplice maquillage del comando capitalistico. Ciò impone di costruire dal basso nuove istituzioni

Il tema della democrazia diretta in contrapposizione o a integrazione della democrazia rappresentativa appartiene storicamente alla tradizione socialista. Come spiega Norberto Bobbio, «chi conosce un po’ la storia della disputa ormai secolare pro e contro il sistema rappresentativo sa benissimo che gira e rigira i temi in discussione sono soprattutto questi due. Sono entrambi temi che appartengono alla tradizione del pensiero socialista, o per meglio dire alla concezione della democrazia che è venuta elaborando il pensiero socialista in opposizione alla democrazia rappresentativa considerata come l’ideologia propria della borghesia piú avanzata, come l’ideologia ‘borghese’ della democrazia. Dei due temi, il primo, cioè la richiesta della revoca del mandato da parte degli elettori sulla base della critica al divieto di mandato imperativo, è proprio del pensiero politico marxistico: come tutti sanno fu lo stesso Marx che volle dare particolare rilievo al fatto che, nella Comune di Parigi, questa ‘fu composta dei consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualsiasi momento’ (La guerra civile in Francia)». 

«Il principio fu ripreso e ribadito piú volte da Lenin – scrive ancora Bobbio – a cominciare da Stato e Rivoluzione, ed è trapassato come principio normativo nelle varie costituzioni sovietiche. Il secondo principio è quello che punta alla ‘rappresentanza degli interessi’ e quindi si propone la ‘disarticolazione corporativa dello Stato oltre quella territoriale’ con la costituzione di una ‘rappresentanza funzionale, cioè degli interessi costituiti e riconosciuti, accanto a quella territoriale propria dello stato parlamentare classico’». 

La lunga citazione aiuta a comprendere come il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta ha caratterizzato il dibattito politico e filosofico, ma anche giuridico, nel corso del Novecento. Il tema è di stringente attualità sul piano squisitamente politico e parlamentare, grazie alla presenza e all’iniziativa di forze politiche e sociali che non recuperano l’impostazione socialista né, tanto meno, quella corporativista che nella storia del secolo scorso ha trovato attuazione «sia pur maldestra» sotto il fascismo con la camera dei fasci e delle corporazioni. Oggi l’istanza democratica diretta è avanzata da formazioni la cui definizione è ancora oggetto di dibattito politologico e che per approssimazione potremmo far afferire alla categoria del populismo democratico, nel senso che insistono sulla contrapposizione storica tra il popolo e le élites, tra la cittadinanza e loro – intesi come poteri costituiti, poteri economici e finanziari. Con una strategia che non mette in discussione il sistema liberaldemocratico, basato su libere elezioni, contendibilità degli incarichi pubblici e rappresentanza nelle istituzioni.

Il Movimento 5 Stelle in Italia costituisce il cuore di questa impostazione che, in altre forme e con altri obiettivi, raccoglie consensi o produce analogie in altri contesti. Si pensi al movimento dei cosiddetti Gilets gialli in Francia, alla richiesta di una nuova forma di democrazia diretta tramite l’istituzione del Referendum d’iniziative citoyenne (Ric) e tramite una contestazione radicale, cioè in radice, del sistema rappresentativo generato dalla V Repubblica francese (come racconta l’articolo di Gérard Noiriel, Gilets jaunes, jacqueries e democrazia del pubblico, pubblicato sul sito di Jacobin Italia).

La crisi della democrazia rappresentativa ha fatto emergere formazioni che pur non contestando il sistema capitalistico e, anzi, incaricandosi di organizzarlo con maggiore efficacia utilizzano la chiave della partecipazione popolare e l’allusione a una più perfetta democrazia, come strumento per veicolare consenso in funzione di un cambiamento promesso dell’amministrazione pubblica. 

Si prenda la citazione di Bobbio e la si affianchi a questo brano del libro Siamo in guerra di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo che del M5S sono i fondatori. Scrive Bobbio: «Perché vi sia democrazia diretta nel senso proprio della parola, cioè nel senso in cui diretto vuol dire che l’individuo partecipa esso stesso alla deliberazione che lo riguarda, occorre che fra gli individui deliberanti e la deliberazione che li riguarda non vi sia alcun intermediario». Da questo punto di vista, aggiunge, le forme fondamentali di questo tipo di democrazia sono sostanzialmente due: il referendum e l’eliminazione della rappresentanza. Scrivono Casaleggio e Grillo: «Ognuno vale uno. La Rete può essere spiegata con queste tre parole che stanno alla base della democrazia diretta» nella quale «i cittadini non solo eleggono i propri rappresentanti, ma possono anche proporre e votare leggi attraverso diverse forme di partecipazione, quali la petizione popolare o il referendum». E ancora: «La democrazia diretta non tollera l’intermediazione dei partiti, non delega il proprio futuro a dei leader televisivi di cartapesta. A cialtroni che si autoeleggono rappresentanti per lucro o per visibilità. Nel nuovo mondo ognuno conta uno».

I riferimenti alla tradizione socialista e alla lettura che Karl Marx ha dato dell’esperienza della Comune di Parigi del 1871 sono del tutto assenti (e come potrebbe essere altrimenti?). Qui si recupera una impostazione radicale della democrazia, quella senza intermediari, affidandosi alla forza della Rete, cioè delle nuove tecnologie di comunicazione e interconnessione che renderebbero possibile ciò che finora poteva essere solo esemplare o embrionale. «L’assemblea dei cittadini, la democrazia che aveva in mente Rousseau – scrive ancora Bobbio – è un istituto, come del resto Rousseau sapeva benissimo, che può aver vita soltanto in una piccola comunità, com’era quella del modello classico per eccellenza, Atene del V e VI secolo quando i cittadini erano poche migliaia e stavano tutti insieme nel luogo convenuto». La Rete, invece, permetterebbe un’effettiva partecipazione dei molti, tendenzialmente di tutti, a un processo di deliberazione che eviti la rappresentanza e salti quindi l’intermediazione del rappresentante. Si tratta di un’aspirazione a un processo di effettiva disintermediazione politica, ma anche sociale, che costituisce una delle nervature delle moderne forze populiste democratiche. La democrazia diretta dei 5 Stelle vede gli attori come individui atomizzati, impedendo loro di divenire corpo collettivo. Sulla piattaforma Rousseau non sono previsti spazi di confronto tra pari, solo interlocuzione con gli eletti. 

Se la democrazia diretta di cui parlano i 5 Stelle è uno strumento formale e astratto, la discussione mette a prova la tenuta dell’intelaiatura della democrazia costituzionale e repubblicana in cui il riferimento alla democrazia diretta è radicato nell’articolo 75 che tratta del referendum e che è stato assai poco valorizzato dalle forze di sinistra. Il Pci ha quasi sempre subìto il referendum lasciandolo nelle mani, non a caso, di forze democratico-liberali come il Partito radicale. Quando lo ha voluto praticare, nel 1985 con il tema della scala mobile, su un terreno direttamente sociale, i limiti formali e astratti di una consultazione generalizzata svoltasi su un diritto sociale specifico – il salario operaio – hanno avuto la meglio causando una sconfitta dalle conseguenze durature. Solo con due referendum a carattere sociale come quello sul nucleare del 1987 e quello sull’acqua pubblica del 2011, l’iniziativa è stata presa da forze di sinistra, a volte legate ad una visione di classe, comunque orientate a una concezione di democrazia della partecipazione. 

Una soggettività dotata di sostanza

La giusta critica al carattere formale dell’elaborazione pentastellata, dunque, non è motivo per non cogliere nel valore della democrazia diretta uno strumento essenziale per affrontare, puntando a un esito progressivo, l’attuale crisi della democrazia rappresentativa nel suo rapporto con il moderno sviluppo del capitalismo e per prospettare una soluzione avanzata della partecipazione e della gestione, meglio dell’autogestione, della res pubblica.

Gli articoli precedenti hanno già sviluppato il tema della crisi della democrazia rappresentativa. L’acutezza di questa contraddizione, del resto, è stata rappresentata dal sociologo liberal-democratico Colin Crouch quando, nel suo Post-democrazia, ha messo in evidenza la preponderanza delle élites economiche. La soluzione, semplicistica di Crouch è quella di definire «nuove regole per prevenire, o almeno per regolare da vicino, i flussi di denaro e di personale tra i partiti, gruppi di consulenti e lobby industriali», codificare i «rapporti tra sponsor privati da una parte e funzionari statali, criteri della spesa pubblica e decisionali dall’altra; va ripristinato il concetto di servizio pubblico come campo con un’etica e scopi sui generis». Sembra il programma del M5S scritto con anni di anticipo: nessuna contestazione del modello produttivo e un’attenzione meticolosa alle forme della politica democratica per ripristinare un circuito virtuoso tra istituzioni e aziende, multinazionali o meno che siano. Eguaglianza «formale» contro eguaglianza «astratta» come notava Gaetano Della Volpe a proposito della differenza tra Rousseau e Marx. Un approccio che porta all’impasse anche perché non riconosce, come pure sarebbe possibile leggendo Stefano Rodotà, che la «lex mercatoria» è il principale ostacolo al «diritto di avere diritti». 

Per dispiegare una democrazia integrale non ci si può fermare al compromesso con il capitalismo finanziario o affidarsi alla capacità di persuasione delle lobbies. Occorre un di più di consapevolezza e di sostanza, una capacità effettiva di un soggetto politico che si dota di un programma e di un’ambizione di tale natura, che produca uno scarto rispetto al sistema vigente e rivendichi un’effettiva capacità di decidere, un potere effettivo. La democrazia diretta, così, deve porsi in relazione esplicita con il tema dell’autogoverno, di una democrazia sostanzialmente diversa da quella esistente. Per questo il tema dell’autogestione può rappresentare una risorsa. Perché «lentamente, ma decisamente, l’eclissi dell’autogestione lascia il posto se non alla luce a un chiaro-scuro che proietta dei lampi su ciò che è possibile» scrivono gli autori della monumentale Enciclopedia dell’Autogestione, un volume di 2.368 pagine finora disponibile solo in francese. Come scriveva Karl Marx a Ludwig Kugelmann nel 1861, «nelle utopie di un Fourier o di un Owen si leggono i presentimenti e l’espressione fantastica di un mondo nuovo». 

Bisogna liberarsi dal capitalismo ma intanto strumenti di «contropotere» e sperimentazioni di altre forme di democrazia sono possibili. La democrazia diretta può servirsi del referendum, a condizione che sia uno strumento nelle mani di una soggettività dotata di sostanza e interessi attorno ai quali organizzare partecipazione, altrimenti, come abbiamo potuto constatare recentemente, la promessa di democrazia nasconde solo il tentativo plebiscitario. 

Le potenzialità dell’articolo 75 della Costituzione stanno per essere ampliate dal progetto di riforma del M5S in cui, anche costituzionalisti democratici e progressisti (quelli auditi dalla commissione affari costituzionali) rintracciano modifiche positive e migliorative dell’utilizzo del referendum. Ci si riferisce all’abolizione del quorum relativo alla partecipazione o all’introduzione del «secondo referendum» legato alla legge di iniziativa popolare che scatterebbe qualora quest’ultima – per la quale si prevedono meccanismi più vincolanti da parte del parlamento ai fini della sua esamina e approvazione – venisse modificata nelle aule di camera e senato: a quel punto i promotori della legge di iniziativa popolare avrebbero il diritto di chiamare a un referendum per decidere quali delle due leggi – quella popolare o quella del parlamento – debba essere approvata. Ma il referendum non corrisponde all’idea che comunemente si ha, a partire da Rousseau, della democrazia diretta come «compresenza fisica del popolo». Servirebbe quindi un di più anche per inverare l’articolo 1 della Costituzione che stabilisce che la sovranità «appartiene» al popolo e non semplicemente «emana» (come nota uno dei più prestigiosi costituzionalisti italiani, Vezio Crisafulli) e quindi deve garantire che la democrazia sia espressione della decisione popolare.

L’autogoverno dei produttori

Per non divenire una petizione di principio o figurare come espressione di una figura «astratta», come immagina il pensiero roussoiano, non si può evitare di tornare a Marx. Attorno all’esperienza carica di drammaticità e di prefigurazione del futuro, la Comune, Marx reimposta la sua concezione dello stato passando dalla centralizzazione autoritaria del potere nel Manifesto del Partito comunista all’«autogoverno dei produttori» di cui scrive ne La guerra civile in Francia: «In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale, che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è stabilito con chiarezza che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna […]. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato a un mandat imperatif dei propri elettori». 

Lo storico francese Serge Aberdam ha ben ricostruito come l’esperienza della Comune trovi il proprio materiale fondativo – assemblee di villaggio, delegati al Terzo Stato, intreccio tra referendum e democrazia diretta – proprio nella Rivoluzione francese su quella «Comune di Parigi che era già esistita tra il 1792 e il 1794». I rivoltosi del 1871 invece di riferirsi alle esperienze rivoluzionarie del 1830 o del 1848 preferirono recuperare quel modello che incarnava delle «pratiche politiche radicate nella vita dei quartieri e del lavoro, una concezione della democrazia differente da quella del nemico».  

La fine del mandato imperativo e la revocabilità, principio chiave della nuova idea di democrazia del(la) comune, affermano l’aderenza tra delegati e la loro origine «sociale», ma sono i fini della democrazia diretta così organizzata a restituire sostanza a un’organizzazione sociale differente. La democrazia del(la) comune mira all’eguaglianza sociale, ad affermare i diritti dei proletari, a permettere loro di esercitare il potere e di autogovernarsi in quanto produttori. Una volta istituito, il comune – nel senso elaborato da Pierre Dardot e Christian Laval, come «costruzione politica» che «obbliga a concepire una nuova istituzione dei poteri nella società» – non si ossifica ma resta in relazione con il movimento reale in un rapporto dialettico tanto proficuo quanto tumultuoso. Revocare il deputato eletto rimane un cardine per un’ossatura statuale autogestita e basata sulla partecipazione effettiva alla vita pubblica. «Una esplicita politica del comune – scrivono Dardot e Laval – mira dunque a creare le istituzioni dell’auto-governo che consentono la distribuzione più libera possibile di questo agire comune». Il concetto è contestato in radice da Antonio Negri che intende il comune come espressione del «lavoro vivo» non riducibile a sola «attività»: è invece attività produttiva di ricchezza e di vita e trasformatrice del lavoro. Ma sarà lo stesso Negri, insieme a Michael Hardt, a proporre, in Assembly, che si costruiscano delle «istituzioni» non tali «che ci comandino ma che possano favorire continuità e organizzazione, istituzioni che ci aiutino a organizzare le nostre pratiche, gestire le nostre relazioni e prendere decisioni insieme». Cambiando i termini si rintracciano quelle «istituzioni del comune» di cui parlano Dardot e Laval.

In ogni caso resta un principio di base: si tratta di organizzare istituzioni nel sociale, organizzare contropotere, sperimentare democrazia dell’avvenire avendo come orizzonte la fine delle diseguaglianze, la rimessa in discussione del modello sociale e produttivo, un effettivo passaggio di potere alla maggioranza della società, ai proletari o al 99% come si voglia definire la massa degli esclusi. Per fare questo, in tempi di crisi democratica, non basta difendere la Costituzione, per quanto sia corretto e utile di fronte a tentativi di stravolgerla in chiave autoritaria. Occorre proporsi il suo ampliamento in chiave partecipativa e l’introduzione di solidi meccanismi di democrazia diretta: il referendum, certamente, la valorizzazione della cooperazione e dell’autogestione, la revocabilità degli eletti da parte della base sociale sono solo alcune ipotesi transitorie sapendo che non si tratterà di una operazione di ingegneria costituzionale, ma di una trasformazione che potranno attuare solo soggetti sociali desiderosi di riprendere in mano le leve della storia. 

*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).


Fonte: https://jacobinitalia.it/esercizi-di-una-politica-della-comune/


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