Datacrazia: blockchain, AI, politica e casualità

Datacrazia: blockchain, AI, politica e casualità










Datacrazia: blockchain, AI, politica e casualità

Datacrazia: blockchain, AI, politica, forse molta casualità, sicuramente consapevolezza, se non vogliamo finire in una puntata di Black Mirror.


Il solo fatto che oggi si discuta del data-matching tra potere politico e mega aziende private sui dati delle persone e il peso che questi hanno nel processo decisionale e nella qualità democratica è già un passo avanti anche solo rispetto a 5, 10 anni fa. Di tutti gli stimoli, tanti e brillanti, del primo panel su Datacrazia all’Internet Festival, probabilmente questa è l’unica certezza, o una delle poche. In mezzo, una bella discussione – moderata da Barbara Carfagna – su scenari che sembrano presi pari pari dal Nosedive di Black Mirror: il social rate come reputazione del cittadino presa in esame per ogni ambito, anche legale e di diritti, della sua vita.

Datacrazia

Ci stanno lavorando Cina e Taiwan. Mentre in Europa e Stati Uniti imperversa il dibattito su quanto e come i social hanno influito sulle espressioni di voto.

Primo punto dal prof. Dino Pedreschi (Informatica, Università di Pisa): spiegata semplice, la Datacrazia altro non è che la consapevolezza che le dinamiche di rete con l’aggiunta dei pregiudizi di conferma sono diventate polarizzanti quando potrebbero non esserlo, e questo per responsabilità sia delle piattaforme che della politica che sfrutta questo meccanismo. Peccato, perché usati come si deve i big data potrebbero produrre risultati significativamente positivi per i cittadini con interventi percentualmente piccoli nelle loro abitudini.


Walter Quattrociocchi, diventato famoso per il suo lavoro statistico-descrittivo sui confirmation bias che ha smontato la credibilità del lavoro di debunking “puro”, ha illustrato tutti i numeri che ci servono per ammettere – a denti stretti – che la strada per capirci qualcosa a proposito di correzioni e soluzioni è però ancora lunga.

Il dialogo tra Dino Amenduni e Vesselin Popov, è stata la perfetta chiusura su una combinazione terribilmente perfetta: algoritmi predittivi più broadcasting, inteso genericamente come sistema circolare di pacchetti di informazioni spedite a riceventi settati per riceverli. E il pubblico è lì, già polarizzato, già analizzato nelle sue conversazioni, già profilato. Come resistere alla tentazione di non farne solo una audience, ma una moltitudine votante? “Come fu che la Brexit…?” si è chiesto prima di loro il giurista Giuseppe Martinico, sottolineando il valore anti-maggioritario delle costituzioni moderne, come Ulisse che si lega volontariamente per non ascoltare le sirene.

Popov, con un punto di vista più tecnico del comunicatore politico Amenduni, è parso da un lato piuttosto pessimista sulla reale possibilità che la politica abbandoni questo lato dell’uso dei dati a favore di un approccio più etico ed aperto, mentre ha più fiducia nella combinazione di Blockchain e intelligenza artificiale. Amenduni ha precisato diverse volte la necessità di mantenere insieme offline e online per ogni ambito: il processo decisionale, il voto, l’informazione, e di tenere aperto l’ingresso delle informazioni a più attori. Ma è pessimista sulla sensibilità collettiva: “Nell’attuale curva storica, purtroppo, mi pare sempre più chiaro che molte persone baratterebbero la loro libertà per la tranquillità, e se questo passasse dal sacrificio del controllo individuale delle informazioni per un controllo più alto, lo farebbero“.

Cosa sarà di questa datacrazia, in cosa si trasformerà? Cina di oggi o Atene di ieri? Più probabilmente, qualcosa a metà. Ma non scordiamoci mai due elementi eternamente perturbanti: la natura imperfetta dell’essere umano e l’ingovernabilità del suo gene egoista, dei suoi meme culturali, e la possibilità – non si sa quanto probabile, ma comunque probabile – che un’altra tecnologia spazzi via quella attuale portando miliardi di persone da un’altra parte ancora.

Pasolini spiegò Internet? No, però...

Pasolini spiegò la rete? No, ma capì la televisione, e l'impatto omologante sugli uomini, fino ad anticipare alcuni trend che oggi viviamo online.

I dibattiti di Off The Platform all’Internet Festival di Pisa sono stati una bella sorpresa, e in particolare Pasolini lives, lo short play curato da Antonio Pavolini, con musiche di Alessandro Sebastiani e letture di Nicola Fanucchi, merita qualche riflessione che sarà utile, qui su Punto Informatico, anche in futuro.

L’autore di “Oltre il Rumore” ha sempre avvertito circa la visione/avversione da parte dei media più vecchi e in particolare della televisione quando ci si riferisce a Internet: atteggiamento pregiudiziale – legato anche a dinamiche economiche vissute come concorrenziali – piuttosto evidente anche nel caso del rapporto Auditel – Censis. Potrebbe sembrare contraddittorio da parte dell’esperto che meglio di altri ha spiegato come non dobbiamo mai farci spiegare Internet dalla televisione, visto che il suo lavoro su Pasolini parte proprio dalle parole dell’intellettuale friulano sulla televisione per poi correre avanti e indietro con frammenti del nostro contemporaneo, ma questo è stato fatto per illuminare quella sottaciuta relazione che esiste fra l’industria dell’informazione e chi viene informato.

Insomma, sono cambiate moltissime cose, certo, ma noi? Gli esseri umani?


Esseri umani, televisione e rete

Pavolini ha pensato di teatralizzare la sua articolazione del pensiero di Hossein (“Internet è la nuova televisione”), e basandosi sulla voce di Pasolini ne è uscito inevitabilmente anche un messaggio antropologico: se anche non esistono più ostacoli fisici all’accesso ai contenuti, le piattaforme ci intermediano tre volte, perché canalizzano la pubblicità come modello di business, perché i loro algoritmi canalizzano i contenuti stessi in cui incappiamo, perché noi stessi tendiamo ad essere pigri e a privilegiare più la scoperta del contenuto che la sua ricerca. Come forma mentis televisiva predica. Una impressionante somiglianza con quel che Pasolini 45 anni fa sosteneva a proposito della televisione: “Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare“. Sostituite il riferimento ad essa pensando alla Rete…

E così, superando di slancio i cliché sul Pasolini profetico – che ha fatto un gran male alla sua corretta interpretazione – Pavolini ci consegna una intuizione: fatto salvo tutto ciò che sappiamo e distinguiamo (giustamente) di Internet rispetto a qualunque cosa accaduta prima, ciò che Pasolini diceva della televisione, cioè che annulla le diversità e favorisce l’omologazione, sembra valere anche per i nuovi media. D’altronde il problema dei bias di conferma e relative fake news sono lì a dimostrarlo.

Siamo umanamente predisposti all’omologazione“, ci ha raccontato dopo lo spettacolo, “e i modelli commerciali cavalcano questo istinto. Sia i modelli vecchi, sia quelli nuovi, dove gli algoritmi si sostituiscono ai palinsesti“.

È cambiato molto meno di quello che si pensava sarebbe cambiato, con Internet? Sì, possiamo ammetterlo. D’altronde, potrebbe di converso anche essere già cambiato o destinato a cambiare molto di ciò che non abbiamo mai pensato potesse in relazione con Internet. La fluidità c’è, senza dubbio. Anche gli smottamenti. L’ingenuità dei manifesti anni 80, invece, non più. Testi come la dichiarazione di Barlow sono ormai consegnati alla letteratura. Non hanno mai avuto, neppure per un attimo, una potenza “politica”.

E ancora Pasolini ci viene in soccorso per farci capire cosa deve azionarsi perché la faccenda sia davvero seria:

Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.


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