Botros 7 - La festa

Botros 7 - La festa

Jessica Mauro (https://t.me/BotrosGiornale) [Art. 4 Dicembre 2022]

La festa, per la filosofia, dobbiamo sapere è il sacro nel tempo.


Così come esistono nello spazio dei luoghi, naturali o artificiali, cui si riconosce il carattere della sacralità, ugualmente esistono nel tempo dei momenti che, grazie a una specifica determinazione, assumono i tratti della sacralità. In questo processo, che s’intreccia ma non s’identifica con l’esperienza religiosa, due aspetti appaiono essenziali: la delimitazione e la sua accettazione collettiva.

Finché il tempo si svolge in una neutralità indifferenziata e indifferente, si resta nella quotidianità. Tutto è attuale ma, al tempo stesso, tutto è scorrimento. Il tempo propriamente non esiste. Non l’oggi, non lo ieri, non il domani. La quotidianità pura è atemporale. La quotidianità pura, peraltro, dà luogo a una contemporaneità senza condivisione. La quotidianità pura lascia ciascuno solo davanti allo scorrere inesorabile del tempo. Solo arrestandolo, il tempo viene ad appartenermi. Quest’appartenenza non è mai privata. Richiede la condivisione. Anche quando segnala qualcosa di privatissimo (ad esempio un compleanno), essa si eleva a festa solo a condizione che altri partecipino all’evento. La festa richiede una dimensione pubblica. Con ciò il tempo diviene un tempo condiviso. Assume una stabilità a cui aggrapparsi anche dopo lo scorrere delle stagioni. Ritorna. E risulta persino in grado di scandire lo stesso indifferenziato fluire del quotidiano.

Come si vede la delimitazione e la condivisione si trovano intrecciate.
È risaputo. Si è filosofi quando si acquisisce l’abitudine di non dare mai nulla per scontato, andando alla ricerca di un senso o di un ordine anche quando questo sembra proprio non esserci. Se l’espressione non fosse poco laica e scopertamente religiosa, si potrebbe dire che i filosofi siano dei cercatori di senso.

C’è chi cerca la felicità, chi, invece, va alla ricerca di stelle e reperti del passato. I filosofi, no; i filosofi cercano il senso, indagano il visibile e raramente, pur non avendo quasi mai un’inclinazione al misticismo, arretrano di fronte all’invisibile.

Si spiega così perché anche il Natale sia diventato per loro un tema di analisi e confronto. Tema non facile, speculativamente insidioso più di quanto si potrebbe credere, perché il filosofo che indaga il Natale tiene, di norma, a preservare la sua laicità, considerandola alla stregua di una garanzia, una sorta di memorandum da tenere sempre presente per non scordare la “mission” dell’indagine.

Arthur Schopenhauer, uno dei più grandi pessimisti di tutta la storia del pensiero, del Natale costruisce una delle rappresentazioni più toccanti che si possano trovare nella letteratura filosofica.

«Colui che ha una grande ricchezza in sé stesso – scrive in Parerga e Paralipomena – è come una stanza pronta per la festa di Natale, luminosa, calda e gaia in mezzo alla neve e al ghiaccio della notte di dicembre».

Il Natale che scalda i cuori e induce a pensieri di riconciliazione con la vita deve averlo conosciuto anche Nietzsche, il filosofo che, dopo aver teorizzato e annunciato la “morte di Dio”, avrebbe dovuto fare altrettanto con il Natale e con il retaggio cristiano della sua formazione di uomo e pensatore.

Dal suo voluminoso epistolario apprendiamo invece che era solito ricevere doni natalizi dalla sorella Elisabeth e dalla madre Franziska anche quando era difficilmente raggiungibile.
Viaggiò attraverso l’Italia per diversi anni, andando alla ricerca di un luogo che fosse di giovamento al suo precario stato di salute. Una ricerca non facile che gli fece, comunque, conoscere gran parte del Belpaese, in una sorta di terapeutico gran tour poco goethiano e molto tormentato. In una lettera del 1880 indirizzata proprio a madre e sorella ricorda come il 25 dicembre «in tutte le case si accende l’albero e si distribuiscono i doni di Natale».

Il filosofo è nostalgico, avverte la lontananza da casa, si misura con le difficoltà del quotidiano (far quadrare i conti, trovare una pensione a buon prezzo, contattare editori sensibili e capaci, prevenire i mal di testa che gli danno l’impressione di poter impazzire da un momento all’altro), e l’atmosfera del Natale, il ricordo delle vigilie dell’Avvento trascorse da bambino in compagnia dei familiari, gli sono di conforto.
È con la curiosità di un bambino che scarta i doni che riceve per posta; è così eccitato che – come confessa in una lettera del 1885 – perde per strada una parte del regalo. Nietzsche non è propriamente un misantropo, ma da uno che considera il cristianesimo come la più grande menzogna della storia dell’umanità, sarebbe stato quasi ovvio attendersi considerazioni meno benigne sul Natale.

Discorso che potrebbe valere anche per Jean-Paul Sartre, uno dei pensatori più tenacemente atei del secolo scorso, che, trovandosi a riflettere sul Natale durante l’esperienza di detenzione nel lager nazista di Treviri, scrisse parole toccanti sulla maternità di Maria, la donna che mise al mondo Dio, la sola donna che ha potuto considerare Dio come una creatura di cui prendersi cura:

«Ella lo ha portato per nove mesi – scrive Sartre in Bariona o il figlio del tuono – e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio… Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia!”».


Il Natale è anche la festa che provoca imbarazzo in chi, pur provandone e subendone l’attrazione, sostiene di non crederci o ritiene che, un po’ come le stagioni, anche il Natale non sia più quello di una volta.

Lo pensano, ad esempio, Massimo Cacciari e Umberto Galimberti: per il primo può essere un’occasione per meditare con sobrietà e disincanto sull’elevato grado che la secolarizzazione ha raggiunto ormai in ogni aspetto della realtà (saremmo, come dire, ben oltre il “disincanto del mondo” di cui parlava Weber); il secondo fa invece i conti con il senso di colpa dell’uomo contemporaneo che vorrebbe continuare a credere nella “magia” di un evento che è stato trasformato in una sagra dell’opulenza.
Per Galimberti la domanda da porci non sarebbe: «che senso ha la festività di Natale per un laico, ma che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell’Occidente “cristiano”».

Di sicuro, una risposta alla domanda l’avrebbe trovata Edith Stein, la filosofa ebrea tedesca perita ad Auschwitz nell’agosto del 1942. Per questa filosofa fattasi carmelitana da adulta, basterebbe la sola parola per evocare scenari di tenerezza e redenzione.

«La sola parola – ha scritto in un saggio di poche pagine intitolato Il mistero del Natale – sa di incanto, un incanto a cui, si può dire, nessun cuore può sottrarsi. Anche gli uomini di altra fede e quelli che non ne hanno affatto, per i quali la vecchia storia del Bambino di Betlemme non significa niente, fanno preparativi per la festa e pensano come poter accendere qua e là un raggio di gioia».

Come dire che il Natale non chiude le porte a nessuno e che queste devono, comunque, venire aperte. La festa, interrompendo il tempo, evoca l’inizio – quando il tempo ancora non esisteva – e la fine – quando il tempo sarà compiuto. Per questo nella festa ritorna ogni volta la sorpresa della nascita, la novità del cominciamento, il miracolo che il già stato possa ancora essere di nuovo. Ma anche sempre una vaga malinconia. Perché la nascita avrà un termine, il cominciamento una fine, il miracolo un compimento.
Timorosi di ciò, gli uomini della modernità arretrano la festa al sabato, assaporando l’avvicinarsi della festa, ma così si chiudono al giorno, agostinianamente, primo e ultimo, al tempo nel suo trascolorare in forma di eternità.

Del resto noi uomini della modernità abbiamo grande difficoltà con tutto ciò che il tempo implica.

Siamo divenuti troppo consapevoli di essere fatti di tempo e che il tempo è fatto per disfarsi. Ma la conseguenza dolorosa che ne è derivata è che, per non dissolversi nella temporalità, ci si arresti un gradino prima del tempo, alla sua anticipazione. Solo in questa prospettiva – grande modello della modernità e dei suoi fallimenti – diviene comprensibile ciò che Heidegger ha proposto nel parlare di anticipazione della morte.
Anticipando ciò che non può essere anticipato, si guadagna un tempo altro, che egli chiama un tempo proprio, il tempo dell’autenticità (l’autenticità, come dice l’etimologia, è appunto ciò che ci è proprio). Ma in tal modo il tempo che è a noi, senza mai essere nostro, il tempo della caducità cui invero apparteniamo, viene gettato nell’inautenticità e non compreso.

Hölderlin, festoso e triste, l’aveva intuito. E il suo tentativo di unire nella festa Dioniso e Cristo non è sincretismo religioso, ma sguardo acuto che della festa penetra il lato di compimento totale, quell’ansia di ricomposizione che essa, nel ricordo dell’origine, prefigura anche come momento finale.
S’incontra qui di nuovo l’intreccio della festa con il religioso. Storicamente, sappiamo quanta importanza abbiano avuto le religioni per la celebrazione delle feste. Attraverso i riti, esse hanno solennizzato ciò che era semplicemente natura, scandendo per gli uomini il ritorno della luce, ricostruendo su un piano divino ciò che era accadimento naturale. Hanno raddoppiato il tempo e l’hanno codificato. Hanno sottratto agli uomini il fluire degli avvenimenti, poiché hanno preteso che non riguardassero loro soltanto. Ma così facendo, hanno anche restituito questo fluire agli uomini, con un senso più profondo e grande.

Questa reduplicazione, all’inizio soltanto speculare – pensiamo agli dei omerici, che combattono in cielo le stesse battaglie degli uomini e che sono soggetti agli stessi sentimenti degli uomini – si è a mano a mano purificata. E la temporalità del divino ha scandito un tempo altro, rispetto a quello degli uomini comuni.

L’anno liturgico, come mostra la tradizione cristiana, ma come in diverso modo anche altre religioni fanno, ha corso differente da quello delle stagioni.
Accanto alle feste religiose si sono però progressivamente affacciate le feste civili. E anzi le rivoluzioni hanno sempre avuto cura di istituire un calendario loro proprio, che sovente veniva a ricoprire quello religioso, come del resto era già accaduto per le religioni rivelate che avevano assunto e trasformato le festività di origine naturalistica.

E tuttavia le feste laiche, di cui l’inizio è noto, fin troppo noto, e il compimento è incerto, senza la garanzia di un’apocatastasi, che la rivoluzione può sostituire solo a mala pena, restano in certo modo feste sospese.

Il sacro, che in esse pure abita, manca di un soggetto che ne dia garanzia. La festa è difficile. Ci si può sempre domandare se essa non sarà spazzata via domani. Si fa festa in un tempo sospeso. Come se fosse sempre sabato, ma senza certezza di una domenica.



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