Botros 5 - La scuola serve per il mondo lavorativo?

Botros 5 - La scuola serve per il mondo lavorativo?

Luigi Puccio (https://t.me/BotrosGiornale) [Art. 7 agosto 2022]

Nel medioevo, una persona giovane lavorava gratuitamente in cambio di esperienza, vitto e alloggio.

Lo “studente”, definito apprendista, a volte viveva nella casa del maestro, condividendo i pasti con la famiglia dell’artigiano. Era così che si imparava una professione e si cominciava sin dai dodici anni d’età. Dopo aver completato il primo stadio di apprendistato lo studente, ora chiamato “garzone”, poteva avventurarsi in altre città, lavorando da solo. Non poteva però assumere apprendisti, quello era un diritto riservato solo ai mastri.

Per molti versi, il garzone era ancora uno studente, anche poteva farsi pagare per il suo lavoro. Essere un garzone significava mettere in pratica le tecniche imparate dal maestro per vedere e testare se funzionavano nel mondo reale.

Era una prova per capire se si aveva la stoffa per diventare maestri. Essere un garzone comportava una certa irrequietudine perché voleva dire che non si aveva ancora trovato il proprio posto nel mondo. Dopo aver trascorso una stagione in giro, il garzone consegnare alla gilda locale (Le corporazioni delle arti e mestieri, o gilde, erano delle associazioni create a partire dal XII secolo in molte città europee per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale) un capolavoro.

Se l’opera veniva giudicata, il garzone poteva ottenere il titolo di maestro, essere accettato nella gilda e finalmente assumere degli apprendisti tutti suoi. E così il processo ricominciava.

Quanto tempo pensi durasse questo processo di apprendistato? Basandoti sui tempi moderni, potresti pensare qualche mese, o uno/due anni. Neanche lontanamente.

Secondo il sistema di allora, un apprendista lavorava almeno sette anni, prima di andare a lavorare da solo. Poi trascorreva qualche altro anno come garzone, prima di diventare finalmente un maestro (se era bravo ovviamente).

Tutto il processo richiedeva circa dieci anni. Se cominciava a studiare a dodici anni, non poteva diventare un professionista prima di vent’anni. Se cominciava dopo, poteva aprire la sua attività non prima dei trenta. E questo solo se era stato abbastanza fortunato da ottenere l’apprendistato.

 Dieci anni. Ecco quanto tempo ci voleva per padroneggiare un mestiere. Oggi – che praticamente tutti gli universitari hanno l’occasione di fare diversi stage senza troppa fatica – può essere difficile capirlo per noi ma, come abbiamo visto finora, ci vuole tempo per trovare la propria “chiamata”. La pratica è fondamentale, un tempo un apprendistato era un ottimo modo per imparare un’arte sotto la guida di una persona più saggia e con più esperienza, ma oggi non c’è rimasto quasi nulla del sistema di apprendistato, che ha creato una spiacevole lacuna nella nostra educazione, nella società in generale e nella fattispecie nel mondo lavorativo. All’alba del Rinascimento, le gilde diminuirono e crebbe la popolarità delle università, sostituendo l’apprendistato con un’educazione più generica.

 

Oggi, la responsabilità di raggiungere il proprio potenziale è spesso lasciata all’individuo. Questa non è solo una sfida, ma un crudele insulto.

Come può una persona essere tutto ciò che dovrebbe o potrebbe essere se non sa chi è, se non ha esempi a cui ispirarsi?

Rimboccarsi le maniche porta solo fino a un certo punto. Siamo tutti il risultato del nostro ambiente, influenzati dalle persone che incontriamo e dai posti in cui viviamo.

 

Oggi cosa sta accadendo?

Negli ultimi decenni e soprattutto in questi ultimi due anni, l’ONU ha avuto un ruolo straordinario nel rafforzare la consapevolezza generale su temi come l’emergenza climatica, la povertà, la disuguaglianza globale, l’istruzione, la corruzione.

Per quanto riguarda il tema dell’istruzione pone l’attenzione su questo tema: Fornire un’educazione di qualità.

Un’istruzione di qualità è la base per migliorare la vite delle persone. Negli ultimi anni sono stati fatti grandi passi in avanti sulla parità di accesso all’istruzione per bambine e bambini e il livello di alfabetizzazione è cresciuto notevolmente. Tuttavia, 57 milioni di bambini sono ancora esclusi dalla scuola primaria e più della metà dei bambini non iscritti a scuola vive nell’Africa subsahariana; anche nelle zone di conflitto, la dispersione scolastica è elevata. Occorre impegnarsi per garantire parità d’accesso a un’istruzione tecnica e universitaria di qualità in tutto il mondo. Sarà cruciale migliorare le infrastrutture educative in tutti i paesi, formare meglio gli insegnati e aumentare le borse di studio in per i paesi in via di sviluppo.

 

Il 22 aprile 2022 la Stampa scrive questo articolo: “Il sistema scolastico italiano fra i più stressanti al mondo. Gli studenti ne risentono. Il Report di WeWorld sottolinea dunque come il sistema scolastico italiano sia uno dei più stressanti al mondo: più della metà degli studenti dichiarano di sentirsi nervosi mentre studiano, rispetto a una media OCSE del 37%.

Gli studenti italiani, con 50 ore a settimana, sono anche tra quelli che dedicano più tempo allo studio: proprio a causa della mancanza di pause adeguate durante l’anno scolastico, bambini e ragazzi faticano a trovare tempo per riposare e vedono aumentare il loro livello di stress, correlato anche al carico di compiti a casa. Risultato, sottolinea WeWorld, il nervosismo e il malessere producono scarso interesse per la scuola e cattive performance tra i banchi, favorendo disagio psicologico e dispersione scolastica. Nel 2020, i giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano né studiano hanno raggiunto il 20,7%.”

 

In tutto il mondo è raro trovare classi politiche capaci di una visione di lungo periodo: la ricerca del consenso immediato pregiudica ogni sforzo di rinnovamento, e anche chi è mosso dai fini più nobili rimane condizionato a vecchi schemi.

C’è un’unica soluzione possibili: dobbiamo riconnetterci al senso più profondo del nostro essere, allo scopo ultimo delle nostre esistenze, al vero “perché”. La vera sfida della nostra vita, la nostra vocazione più intima e profonda è il saperle dare una direzione. E oggi gli insegnati, gli educatori, hanno un ruolo fondamentale nell’essere d’aiuto ai loro ragazzi e ragazze. 

La vita ci viene donata, non ci era dovuta: a noi il compito di darle un orientamento riempiendola di senso. E allo stesso modo, in un’epoca minata da incertezze, complessità e ambiguità, l’Umanità intera deve trovare una direzione nel caos di un mondo accelerato su scala esponenziale.

Dobbiamo ripensare alla scuola e all’intera società, ri-animandole, mettendo al centro Noi, le persone, gli esseri umani e l’ambiente in cui viviamo; ma i nostri leader politici, chiamati dal loro ruolo a proporre e applicare soluzioni, sembrano le persone meno adatte per riuscirci. Potrebbe essere che, semplicemente, non vogliono trovarle, le soluzioni, che preferiscano giocare con le nostre vite inconsapevoli? No, io mi sono fatto un’altra idea del perché questo accada: non possono perché non sanno.

Non sanno perché la politica nazionale e internazionale li incatena a procedure inefficaci; non sanno perché si sono formati al loro ruolo in modo insufficiente rispetto alla complessità della situazione; non sanno perché non si fanno le giuste domande; non sanno perché fare politica è al massimo una missione, nella maggior parte dei casi un lavoro, ma quasi mai una Vocazione. Nel frattempo, però il tempo passa e la pressione sale, così l’urgenza sposta l’asse della responsabilità della politica alla società civile, che dalla politica dovrebbe essere rappresentata.

È dunque questa l’epoca in cui il singolo individuo è chiamato a fare la differenza. Occorre però più determinazione, pazienza e coraggio, il coraggio di non accontentarsi più di elezioni ogni cinque anni e di fare quotidianamente pressione sull’intero sistema sociale, affinché ognuno di noi possa “votare” ogni giorno.


Per questo, occorrono soprattutto individui “educati”, nello specifico insegnati “educati”, intendendo per “educazione” il significato che le attribuisce Edgar Morin in La testa ben fatta, cioè: “una metodologia didattica fondata su un’iter-poli-trans-disciplinarità che aiuti la formazione di una testa ben fatta, capace di quel pensiero complesso adeguato alla comprensione delle dinamiche esigenze dell’interdipendenza planetaria”.

Invece, nonostante in tutto il mondo aumenti l’accesso all’istruzione attraverso la scuola, negli adulti, in prevalenza in quelli dei paesi industrializzati, si osserva una crescita dell’analfabetismo funzionale e dell’analfabetismo di ritorno, fenomeno che in Italia riguarda il 47% della popolazione. Queste persone nonostante siano state istruite e sappiano leggere e scrivere, non sono più in grado di usare la lettura, la scrittura e la capacità di calcolo per il proprio sviluppo cognitivo e quello della comunità.

Sono dunque capaci di leggere e scrivere ma hanno difficoltà a comprendere anche testi semplici e sono privi di molte competenze utili per la vita quotidiana, fenomeno che circoscrive le loro esistenze negli esigui confini, che oltretutto non concede all’individuo opportunità di crescita. Eppure, ci sarebbe urgente bisogno, oggi più che mai, di comprendere che ogni nostro gesto quotidiano può divenire, almeno in potenza, l’espressione di una volontà, di un orientamento, di un’alternativa, di un consenso come dissenso.

Questo prevede però - di esserne a monte - consapevoli di questa potenzialità e della responsabilità a essa collegata. Vale per l’unità atomica della società, l’individuo, la scuola, ma anche quella aggregata, cioè le diverse organizzazioni di persone, prime fra tutte le imprese. Non sorprende, dunque, che spesso sia il mondo del business a tentare di riempire di significato parole come progresso, sviluppo e innovazione.


Molte aziende, in controtendenza rispetto ai governi, hanno cominciato a investire in educazione, in formazione, consapevoli che non bisogna mai smettere di informarsi e di studiare il passato, per metterlo in relazione con il presente per poter “costruire” il futuro. Ma non solo: si è diffusa la sensazione che un’intera civiltà debba rimettersi in discussione (quella occidentale soprattutto), e che l’attuale modello scolastico e di sviluppo sia insostenibile.

Dopotutto, quella che ci troviamo davanti è anche una grande occasione: grazie alle enormi potenzialità della tecnologia e delle conoscenze scientifiche potremmo persino provare ad andare ancora più veloci, se questo ci consentirà di aumentare il benessere, purché non si dimentichi l’importanza dell’orientamento da dare a questa velocità, con tutto ciò che comporta: in primis, non lasciare indietro chi va più lento. Bisogna anche resistere alla tentazione della nostalgia del passato, quella che Baumann chiamava “retrotopia”, una tendenza ormai diffusa che però suggerisce soluzioni vecchie a problemi nuovi.

Se la politica, la scuola, e i governi sembrano incapaci di affrontare le sfide del lavoro e del futuro, può essere il mondo dell’impresa a indicarci la via e a promuovere un reale cambio di paradigma.

 

Facciamo un passo in avanti: nel mio libro Industry 4.0 Innovazione, Creazione e Cambiamento nel Mondo del Lavoro, in quarta di copertina scrivo “due bambini su tre fra quelli che ora iniziano la scuola primaria, faranno in futuro un lavoro che oggi non esiste”.

È difficile sottovalutare l’impatto dell’accelerazione tecnologica sulle nostre vite, eppure alcune analisi, concentrate più sulla funzionalità che sull’effetto dei nostri cervelli, ci riescono. Stiamo sostanzialmente trasformando i nostri processi neurologici da percorsi di natura lineare a percorsi di natura esponenziale o forse, stiamo semplicemente attivando nuove funzionalità già insite nel nostro programma di umani.

Ci vorrà del tempo, ma la trasformazione della nostra specie è ben più che iniziata. Sta a noi renderla evolutiva o involutiva. Mentre le macchine si evolvono per soddisfare i nostri bisogni a un livello sempre più intimo – producendo così nuovi bisogni – noi ci muoviamo nella stessa direzione, adattandoci progressivamente alle esigenze delle macchine. Questo balzo è molto evidente nei membri di quella che i sociologi chiamano Generazione Z (o iGen): i nostri figli, nativi digitali, che ovunque si trovino sono sempre alla ricerca di un’unica chimera: il collegamento a una rete Wi-fi.

Bambini cresciuti con le tecnologie smart, vivendole come un dato di fatto esistenziale, che passano in media sei ore al giorno davanti a uno schermo, e a cui rimane poco tempo per qualsiasi altra cosa. Avete mai visto un visto un poppante trotterellare verso un televisore e rimanere confuso dell’assenza di touch screen?

Per i nativi digitali, i cervelli sono stati plasmati da un rapporto costante con i device, le neuroscienze parlano già di nuovi modelli cognitivi. Ne sa qualcosa chi opera nelle scuole, dove gli insegnati si trovano davanti a studenti completamente diversi da quelli di vent’anni fa:

·     Abituati al multitasking, cioè a compiere diverse operazioni contemporaneamente anche nei momenti di studio;

·     Estremamente ricettivi al learning by doing, toccare, esplorare, progettare i contenuti didattici. Le lezioni frontali sono sempre meno sopportabili;

·     Caratterizzati da un pensiero non sequenziale, lineare, ma puntiforme.

Sono sempre pronti a saltare da un concetto all’altro: non sorprende che si annoino a sfogliare un libro. Ma la questione non riguarda solo i bambini. Il web è diventato parte integrante delle nostre vite: secondo alcuni studi passiamo oltre quattro ore al giorno del nostro tempo libero davanti a uno schermo, più della metà delle stesse sui social. A me sembrano molto di più, ma il punto è che il nostro rapporto con lo smartphone è qualcosa che va oltre un mero dato numerico: è diventato un’appendice del nostro cervello o forse sarebbe meglio dire che il nostro cervello fa parte di un sempre più vasto ecosistema digitale.

Internet e le tecnologie digitali si possono impiegare, anche nella scuola, per aiutare i ragazzi ad attingere a maggiori informazioni, connettersi non solo tecnicamente ma anche mentalmente, favorendo l’incontro e la comprensione fra culture diverse e l’ingresso nel mondo del lavoro acquisendo nuove skills. Ma possono favorire anche la disinformazione e la manipolazione, diventando un potentissimo veicolo di propaganda, radicalizzazione e odio verso il diverso.

Anche in questo caso quindi, la tecnologia non è di per sé né il problema, né la soluzione. La questione cruciale è il suo rapporto con l’uomo, la nostra capacità di comprendere limiti e potenzialità dell’innovazione.

Il senso di responsabilità nei confronti del Pianeta e delle generazioni future è inscritto in noi, prendiamone atto.  


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