Botros 4 - La filosofia del lavoro

Botros 4 - La filosofia del lavoro

Jessica Mauro (https://t.me/BotrosGiornale) [Art. 4 settembre 2022]

Spesso ci chiediamo cosa si intende per lavoro?

Si definisce ‘lavoro’ un’attività che viene espletata per la soddisfazione diretta o indiretta dei bisogni individuali (propri e altrui): un fare dal quale trarre una soddisfazione. Ma in cosa consistono questo fare e questo soddisfare e che significato hanno per noi?

È chiaro che il concetto di lavoro varia a seconda delle epoche e delle civiltà ed esso altrettanto è destinato a cambiare anche in dipendenza degli attuali mutamenti storici, in forme probabilmente inedite. Nell’antichità Il cristianesimo rivaluta certamente il lavoro, senza però esaltarlo; giudica il lavoro attività necessaria, ma inferiore.

È vero che «ora et labora» è stata la regola del monachesimo benedettino, ma è anche vero che non bisogna invertire l’ordine dei valori, «subordinando gli interessi superiori di Dio ai particolari e materiali interessi dell’uomo» (Agostino).

Entro questi limiti anche san Tommaso giudica positivamente il lavoro, che egli considera solo legittimo fondamento del guadagno e della proprietà.

Ma ricalca Aristotele quando sostiene che il lavorare non contribuisce alla “formazione” di chi lavora.

Secondo Nietzsche, il lavoro era un’attività riservata ai poveri e agli schiavi tanto che «un uomo di buoni natali nascondeva il suo lavoro quando era costretto a lavorare» e «lo schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa di spregevole.

Nel Medioevo insomma il lavoro acquista dignità, però è ancora lontano dall’assumere un ruolo centrale nel destino dell’uomo.

Ma il contributo determinante viene dalla Riforma protestante, da Lutero (1483-1546), per il quale l’ozio è evasione peccaminosa, la vita monastica è scelta egoistica di chi sfugge ai propri doveri verso il prossimo, e soprattutto da Calvino. Per Calvino (1509-1564) ogni uomo è “strumento” della divina Provvidenza. L’operare razionale, metodico e instancabile consente di migliorare la propria posizione sociale; crescita e accumulazione diventano segni della benevolenza divina.

Nell’età moderna invece si è fatta strada una concezione opposta, governata dal «meglio fare una qualsiasi cosa che nulla», dove «non si ha più tempo né energia per i cerimoniali», giacché «la vita a caccia di guadagno costringe continuamente a prodigarsi fino all’esaurimento in un costante fingere, abbindolare o prevenire»

Tale rovesciamento, già per Constant, doveva essere decisivo nel differenziare il senso stesso della libertà che avevano gli antichi da quella dei moderni: con l’abolizione della schiavitù, infatti, era stato virtualmente abolito anche il tempo libero da dedicare alla vita politica e tanto meno alla vita contemplativa; di contro, il commercio, a differenza della guerra, non lasciava intervalli di inattività: per cui, una volta rotto il binomio otium/bellum, gli individui, afferma Constant, preferivano ora dedicarsi alle speculazioni economiche più che alla discussione politica, il che non faceva però che alimentare in via esponenziale il senso individualista dell’individuo stesso e la forma privata dei suoi desideri.

Se dunque, nella Grecia classica, si riteneva, a partire da Omero, che la peggiore delle condizioni umane fosse quella dell’operaio agricolo costretto a vendere le proprie braccia , e si rimproverava ai Sofisti di farsi pagare per le loro lezioni, assumendo, in generale, come sostenne chiaramente Aristotele, che non si dovesse riconoscere il diritto di cittadinanza a coloro che avevano bisogno di lavorare per vivere (e ciò nella misura in cui i lavori retribuiti impedirebbero allo spirito ogni elevatezza), nella realtà sociale moderna il lavoro, pur conservando il doppio senso di fatica (molestia) e di prestazione (opus), di parto doloroso e di creazione nuova, è assurto a concetto politico autonomo e, ancor più, ha acquisito dignità, valore, valenza giuridica, fino a divenire il perno fondante della vita associata.

Oltre all’abolizione, almeno formale, della schiavitù, il passaggio storico dovette avvenire in quel preciso salto di qualità dell’accumulazione dei capitali rappresentato dall’avvento delle banche e, contemporaneamente, nel passaggio dalla bottega artigiana all’industria, lungo il quale la schiavitù, divenuta servitù della gleba, si preparava a trasformarsi nel ben più spaventevole proletariato urbano e dall’accumulazione si passava alla concentrazione del. Qui, il lavoro viene rielaborato nella nozione di lavoro socialmente necessario, servente alla produzione industriale, nello stesso tempo diventa oggetto di studio del diritto, se è vero che, proprio con l’impoverimento del ceto artigiano e il lento affermarsi dell’industria, nasce l’archetipo del contratto di lavoro.

Il lavoro è stato definito come attività con la quale si ricava, attraverso un’opera di trasformazione che è quella dell’industria, una qualche utilità da ciò che è originariamente inutile.

John Locke introduce una teoria giusnaturalistica che spiega l'origine della proprietà privata con il valore lavoro. Secondo Locke, ogni individuo ha il diritto di proprietà sui prodotti del proprio lavoro, siano questi le merci o la stessa terra.

Poiché ogni lavoratore dispone della stessa capacità lavorativa, ne consegue che in una distribuzione naturale la ricchezza si distribuisce equamente tra le persone. È soprattutto la moneta, secondo Locke, a causare l'accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi e le diseguaglianze sociali. Pur avendo la stessa capacità lavorativa naturale, gli uomini producono una diversa ricchezza a causa delle politiche mercantiliste che favoriscono l'accumulazione della moneta da parte di alcuni soggetti economici.

Questo, secondo John Lock, è la causa della distribuzione iniqua delle ricchezze e delle proprietà mercantiliste che favoriscono l'accumulazione della moneta da parte di alcuni soggetti economici. Questo, secondo Lock, è la causa della distribuzione iniqua delle ricchezze e delle proprietà. Secondo il filosofo il valore del prodotto è il lavoro. Pertanto, la proprietà della merce è un diritto naturale dell'uomo che l'ha prodotta. Si tratta di un ordine naturale che non viene intaccato o alterato dalle convenzioni sociali. Tuttavia, la proprietà è distribuita in modo diseguale tra gli uomini. Locke non nega questo aspetto. Secondo il filosofo la diseguaglianza e l'accumulazione della ricchezza sono generate dalla possibilità dell'uomo di acquistare i beni prodotti dal lavoro altrui tramite la moneta. Anche se diseguale la distribuzione delle proprietà è comunque naturale. In conclusione, Locke considera naturale la distribuzione della proprietà anche se diseguale.

Nella teoria economica di Adam Smith la divisione del lavoro svolge un ruolo di fondamentale importanza sia nello sviluppo che nella capacità di produzione del sistema economico. Secondo l'economista inglese, la divisione del lavoro aumenta l'abilità del lavoratore a svolgere una particolare operazione nel processo produttivo e riduce i tempi morti dovuti al passaggio del lavoratore da un'operazione a quella successiva.

Il lavoro è stato variamente definito come attività con la quale si ricava, attraverso un’opera di trasformazione che è quella dell’industria, una qualche utilità da ciò che è originariamente inutile (Locke), o come la misura reale e universale del valore di scambio di tutte le merci (Smith) o, ancora, come un’opera di mediazione specifica: la mediazione tra bisogni e il loro appagamento, la quale fa dipendere gli uomini gli uni dagli altri (Hegel).

Al di là dei diversi sviluppi teorici, si è riconosciuto che il lavoro è una attività di trasformazione, utile e valida, la quale produce valore e dal valore discende in una particolare, forse perversa, circolarità economica, e che è capace, per Hegel, di coagulare la scissione dialettica del particolare e dell’universale all’interno della società civile, facendosi dunque parte integrante del sistema etico: il lavoro, come teorizzò ancora Hegel, è quell’elemento capace di conferire «al mezzo il valore e la sua adeguatezza al fine», in un fitto scambio di vicendevoli bisogni.

E proprio perché i bisogni e il loro appagamento sono connessi al lavoro in un sistema di scambio e di valorizzazione, ecco che emerge un’altra caratteristica imprescindibile dell’essenza del lavoro: la divisione. Il lavoro è diviso nei diversi mestieri, mansioni, occupazioni, competenze, pratiche e professioni, in dipendenza dei diversi bisogni che è destinato ad appagare.

La divisione del lavoro, invero, non è affatto un fenomeno moderno: essa infatti affonda le sue radici nel baratto, nella misura in cui, per riprendere un esempio di Marx, chi fabbricava archi e frecce barattava il suo prodotto con chi cacciava animali selvatici . È lo scambio stesso a produrre e legittimare – a valorizzare – la divisione del lavoro. Da tale assunto, Marx, sin dagli inizi, aveva ricavato le legge generale secondo cui «la differenza delle doti naturali tra gli individui non è la causa ma l’effetto della divisione del lavoro».

È il lavoro, in altre parole, nel suo diversificarsi, che va a diversificare le inclinazioni naturali. Tuttavia è solo nell’era moderna che tale concetto assume importanza decisiva. Con l’emergere dell’economia capitalista, infatti, è il capitale stesso che va a stimolare gli scambi e che, dunque, alimentando il mercato, va a determinare la divisione del lavoro. Marx conclude dunque che in una fase più avanzata della società capitalista, con la crescente diversificazione dei prodotti, dei bisogni e delle esigenze sociali, ogni uomo è destinato a vivere di scambi e a divenire un commerciante, giacché l’accumulazione dei capitali cresce con la divisione del lavoro e viceversa.

Tanto lo scambio dipende dalla divisione del lavoro, tanto la capacità di dividere il lavoro diventa la capacità stessa del mercato di estendersi e dell’accumulazione dei capitali di accrescersi. In questo senso, il progresso della società capitalista non doveva essere incoraggiato, per Marx, se non per farlo esplodere nella sua intima contraddizione, quella di un cattivo infinito: l’evoluzione non è altro che la preparazione della rivoluzione.

In conclusione abbiamo visto come il lavoro abbia assunto nel corso dei secoli opinioni contrastanti e a volte completamente in antagonismo e contrapposizione tra loro.

Oggi il lavoro è un diritto fondamentale e l’idea del lavoro come punizione, fatica e dolore, ricordiamo le Sacre scritture che Dio disse.. con il sudore del tuo viso mangerai il pane finchè non tornerai alla terra, polvere sei e polvere ritornerai… lavoro che però anche le Sacre scritture sembrano rivalutare.. infatti Dio scelse come padre putativo di suo Figlio, Giuseppe, un falegname, un lavoratore che appunto si guadagnava il pane con il sudore del suo viso, in un periodo storico dove il lavoro era visto ancora come un disonore, in una società fatta di nobili, schiavi e soldati.. 

Questa concezione di un lavoro come punizione si è radicalmente trasformata nella convinzione che esso è fonte di ricchezza, di valore e di libertà… come ad esempio nel pensiero di Darwin e Wallace… “IL LAVORO NOBILITA L’UOMO“ ovvero ci eleva rispetto alle altre creature della terra poiché in grado di organizzarsi e coordinarsi tramite il lavoro per il proprio bene e quello della comunità e collettività.

                                                                                                                                                  

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