Botros 2 - La verità in filosofia n.2

Botros 2 - La verità in filosofia n.2

Jessica Mauro

Nella storia della filosofia il concetto di verità è stato concepito in due diverse prospettive, l’una ontologica (rigurdante la natura e la conoscenza dell’essere come oggetto in sé), l’altra strettamente legata al discorso umano.

Nella prospettiva ontologica la verità è considerata come una proprietà intrinseca dell’essere; nell’altra prospettiva il concetto di verità è stato variamente elaborato e le analisi vertenti su esso devono essere suddivise in due categorie, a seconda che intendano fornire una definizione o un criterio di verità. La ricerca di un criterio di verità è parte integrante del problema gnoseologico, cioè di quale tipo di evidenza (sensibile, intellettiva, induttiva, deduttiva) possa costituire la garanzia di un’autentica conoscenza. Di là dal più generale problema gnoseologico, comunque, la questione della verità riguarda specificamente il chiarimento di che cosa significhi essere vero, indipendentemente dai modi (o criteri) di conseguire la verità.

I primi filosofi come Eraclito e Parmenide credevano che il concetto di verità fosse strettamente legato alla conoscenza e al rapporto tra soggetto conoscente ed oggetto della conoscenza. Questi si occuparono infatti dei processi della conoscenza, cioè della gnoseologia e contrapposero alla conoscenza sensibile e al suo prodotto, l’opinione (doxa), la conoscenza propria della ragione, il logos (la parola), ritenuto lo strumento unico per vedere la realtà in sé.


Il termine greco utilizzato per indicare la verità era (αλήϑεια) che significa non nascondimento. Essa infatti era intesa come un atto dinamico, non una semplice realtà, attraverso cui avviene la confutazione dell'errore e il riconoscimento del falso: un movimento di rivelazione dell'essere, non un pensiero statico e definito.

Il concetto filosofico di verità infatti (αλήϑεια) inizia a delinearsi nel corso del sec. VI a.C., negli scritti dei naturalisti e, specialmente, nel poema di Parmenide, il quale per primo svolge la contrapposizione αλήϑεια/δόξα (verità/opinione), ponendo il pensiero di fronte al famoso bivio tra la «via della persuasione», di chi afferma unicamente l’«essere» e l’«è» (senz’altra determinazione), e la «via dell’errore», di coloro che sostengono che «il non essere è» (contraddicendosi), o che affermano contemporaneamente l’essere e il non-essere.

Caratterizzata dall’indistinzione tra realtà, pensiero e parola, tra sfera ontologica e sfera logico-verbale, propria della mentalità arcaica, la concezione parmenidea segna l’inizio di quel paradigma ontologico della v. che tanto influsso eserciterà nella speculazione successiva, fino all’età moderna, attraversando diversi orientamenti filosofici.

Con Zenone di Elea e con Melisso di Samo, il vero essere di Parmenide assume i tratti dell’eternità e dell’immobilità. Zenone infatti per difendere la teoria di Parmenide utilizza un metodo dialettico, che consiste nell’accettare in via ipotetica le affermazioni degli avversari, per poi trarne conseguenze in grado di confutarle. Zenone afferma che se le cose fossero molte, il loro numero sarebbe finito e infinito al tempo stesso: finito, perché non possono essere né più né meno di quanto sono; infinito, perché tra due cose ce ne sarà sempre una terza e tra questa e le altre due ce ne sarà sempre un’altra, e così via all’infinito. Questo ragionamento intende dimostrare che la tesi secondo cui le cose sono molteplici porta a una contraddizione.

Allo stesso modo, è contraddittorio affermare che ogni cosa è costituita da più unità: se queste unità non hanno grandezza, anche le cose da essa composte non avranno grandezza; se invece le unità hanno una certa grandezza, le cose composte da infinite unità avranno una grandezza infinita. Secondo Zenone non si può arrivare all’estremità dello stadio, partendo dall’estremità opposta. Occorre, infatti, arrivare prima a metà di esso e prima ancora alla metà di questa metà, e così via all’infinito. È però impossibile percorrere uno spazio infinito in un tempo finito.


 I Sofisti ,Empedocle e Anassagora attribuirono invece alla conoscenza un fondamento non razionale ma empirico. Questi ultimi e in particolare modo Protagora sostengono che la conoscenza è sensazione e muta da uomo a uomo e da momento a momento inaugurando il relativismo gnoseologico. La verità è relativa ad ogni uomo poiché l’uomo è il criterio di misura della verità.

Per Socrate, che invece rifiutò la posizione dei Sofisti, il fondamento della conoscenza è dentro l’uomo: conosci te stesso è il motto e il principio ispiratore della ricerca socratica Per Socrate, perché sia possibile essere soggetto, occorre che ci sia la verità dell’uomo. Senza la verità, infatti, non è possibile la competenza come tale Intendersi dell’uomo significa intendersi della verità che lo costituisce. DI conseguenza, solo colui che diventa ciò che egli è, vale a dire solo colui che è soggetto, un essere libero, si intende dell’uomo.

“Conosci te stesso!” significa: diventa te stesso! Sii soggetto! Sii giudice! Giudice dei giudici!

Ma non è facile per l’uomo conoscere l’uomo. Socrate ammetteva; “So di non sapere nulla”, ma desiderava conoscerlo. E questo desiderio doveva aver già un valore conoscitivo, perché Socrate era libero dalle opinioni sul problema dell’uomo; la libertà è dalla verità.


Successivamente con Platone, sulla scia della dottrina socratica del concetto, identifica la verità con l’idea (esemplarmente con l’idea del bene), dotata di esistenza oggettiva ed esente da mutamento; A Platone risale peraltro la prima formulazione della verità come caratteristica del discorso che «dice gli enti come sono», cui corrisponde quella del falso come proprietà del discorso «che dice come non sono» (Cratilo, 385 b).

Definizione, questa, che sarà codificata da Aristotele, nel celebre luogo della Metafisica (IV, 7, 1011 b) secondo cui «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero». Se tale definizione – che si collega strettamente al principio di (non) contraddizione assurgerà a paradigma delle concezioni ‘corrispondentistiche’ della verità, negli scritti aristotelici è presente anche un’altra, più fondamentale idea del vero, quale perfetta adeguazione del pensiero (noetico) al proprio oggetto, da cui scaturiscono i termini che la dianoia collega o separa nel giudizio e nel sillogismo.


Ciò che chiamiamo verità assoluta indica una conoscenza il cui contenuto riflette la realtà oggettiva in maniera completa, incondizionata e assoluta. Ciò che chiamiamo verità relativa è dunque una conoscenza il cui contenuto riflette la realtà oggettiva in modo approssimativo, incompleto e relativo. Tuttavia, già nelle rielaborazioni delle grandi scuole post aristoteliche, e in particolare dello stoicismo, sarà soprattutto la prima concezione aristotelica ad affermarsi, mentre inizia a porsi esplicitamente il problema del criterio della verità.

Nelle discussioni medievali intorno al tema della verità un ruolo determinante è assunto dalla fede cristiana in un Dio creatore, causa di tutto l’essere. In tale prospettiva si colloca la figura di Agostino di Ippona, il quale considera la verità come eterna e immutabile, e la identifica nella sua pienezza con Dio stesso.

All’uomo, che dispiega invece la propria esistenza nel mondo mutevole del divenire e del contingente, è dato secondo Agostino di avvicinarsi gradualmente alla verità per mezzo della propria anima. Ogni qualvolta infatti l’uomo distoglie il proprio sguardo dalla caducità del mondo sensibile, e rivolge invece l’attenzione verso la sua anima, quest’ultima viene illuminata dalla luce del Verbo interiore (Cristo) che è il fondamento ultimo di ogni verità.

La Verità immutabile e perfetta non può necessariamente essere l’uomo mutabile e imperfetto ma Dio. L’uomo non fa che accogliere semplicemente una parte di quella verità che è data in dono da Dio. Dio illumina la nostra mente permettendole di apprendere. Come il sole permette all’occhio di vedere e distinguere tra le tenebre, Dio permette di conoscere una verità che comunque non appartiene all’uomo. Come Platone, Agostino ritiene che esistano delle verità nell’uomo innate, che derivano però da Dio. Egli è la verità immutabile. Non è la ragione dell’uomo ma la legge che la regola. La verità risiede nell’uomo. Per carpirla bisogna chiudersi nella propria interiorità per aprirsi a Dio. Poiché essa trascende la natura dell’uomo, tuttavia, non è mai pienamente posseduta. Rimane pur sempre un mistero, che l’uomo può in questa vita solo riconoscere e amare. Dio è verità. Ed è insieme essere, trascendenza, rivelazione, logos(parola) e verbo. La ricerca dell’uomo rende manifesta l’essenza di Dio e dello Spirito Santo. Egli è amore. Amare Dio significa pertanto amare l’Amore.

Questo non è possibile se non si ama chi ama, cioè il prossimo. Dio si rivela come Verità e Amore, solo a chi le ricerca. Questo non avviene se non si sprofonda entro se stessi e non si riconosce il vero sé. Solo aldilà di sé si riesce ad intravedere la vera essenza trascendentale di Dio dettata proprio dall’impossibilità di raggiungerla. Le determinazioni trascendenti di Dio si manifestano esclusivamente nell’atto della ricerca. Questa non può avvenire se non per un richiamo di questa stessa trascendenza di Dio. Dio è la condizione della sua ricerca. È inoltre condizione dei rapporti inter-umani. Essendo Dio Amore, condiziona e rende possibile ogni amore. L’uomo può cercare Dio proprio perché la sua condizione di uomo glielo consente, perché egli è come Dio in minor grado. Egli è come Dio è Essere, conosce come Dio è Somma intelligenza, ama come Dio è Bontà infinita. Ha cioè memoria, intelligenza, volontà e amore. Fortemente legato alla tradizione agostiniana è il De veritate di Anselmo d’Aosta, primo testo medievale a occuparsi specificatamente di questo tema. In esso Anselmo definisce la verità come rectitudo (rettitudine), ossia come conformità in relazione a un modello che altro non è che l’idea stessa della cosa in Dio.

Tale modello costituisce per l’uomo il fondamento non solo del pensiero, ma anche della volontà e dell’azione, che possono dirsi veri e retti solo se rispettano tale conformità. Come Agostino, Anselmo ritiene quindi che la somma verità, che include tutte le altre, sia Dio stesso. Quest’ultimo aspetto è ripreso nel 13° sec. da Tommaso d’Aquino il quale, nelle sue Quaestiones disputatae de veritate, fa propria la celebre definizione di matrice avicenniana della v. come adaequatio rei et intellectus.


A differenza di Agostino però, il quale sostiene che la misura della verità è data dall’intelletto, e quindi dal soggetto conoscente, Tommaso ritiene invece, forte della tradizione aristotelica a cui fa riferimento, che tale misura sia fornita dall’oggetto conosciuto. Se la riformulazione del paradigma classico consente a Tommaso di affermare anche una relativa autonomia della ragione dalla fede, l’esigenza di discutere liberamente intorno a problemi delicatissimi, senza attirarsi l’accusa di eresia, porterà i seguaci dell’averroismo latino a insistere sulla diversità fra gli ambiti della ragione e della fede – pur essendo l’una subordinata all’altra – ossia sulla posizione che la storiografia ha riassunto nella formula, in certa misura fuorviante, di ‘teoria della doppia verità’.

La filosofia moderna appare interessata meno al problema della definizione che a quello dei criteri di verità. Così, sebbene la definizione di Tommaso sia generalmente accolta –per es., da Descartes (Cartesio), Leibniz, Wolff e dallo stesso Kant, il quale, dandola per scontata, la considerava secondaria rispetto al problema delle condizioni di validità della conoscenza –, al paradigma classico si sostituisce gradualmente un modello gnoseologico della verità, in cui assurge a motivo centrale il tema della certezza, in quanto criterio che consente di riconoscere la verità indipendentemente da qualsivoglia pregiudizio o autorità esterna al soggetto, sulla base della sola ragione.

Grande influsso eserciterà, in questa prospettiva, la posizione di Descartes, il quale individua nel cogito il criterio fondamentale della certezza, sul quale poggiano le verità matematiche e quelle metafisiche, nonché le conoscenze attinenti alla res extensa. Tuttavia in Descartes tra il criterio di certezza e la verità vi è un’articolazione, a livello metafisico, in quanto l’evidenza attuale delle v. matematiche o logiche (le verità eterne della tradizione) non è autosufficiente, ma deve essere garantita dalla veracità divina, ossia dalla necessaria condizione che Dio non sia ‘ingannatore’ rispetto al contenuto evidente del pensiero; diversamente la certezza del cogito attesterebbe unicamente l’esistenza del soggetto pensante e non la v. di ciò che appare evidente alla mente.

Cartesio ritiene che criterio basilare della verità sia l'evidenza, ciò che appare semplicemente e indiscutibilmente certo, mediante l'intuizione. Il problema nasce nell'individuazione dell'evidenza, che si traduce nella ricerca di ciò che non può essere soggetto al dubbio. 

Cartesio si appella a Dio. È Dio che, al contrario del genio maligno, ci garantisce una conoscenza esatta. Questo Dio deve essere quindi buono, giusto. Non ingannatore Alla concezione cartesiana si riallaccia Spinoza, che fa però discendere la certezza dalla conoscenza di Dio in quanto sostanza unica; e una declinazione notevolmente diversa del motivo della certezza si ha nella filosofia inglese, per la quale la v. si trova negli enunciati e non riguarda né le cose («veritas enim in dicto, non in re consistit», afferma Hobbes), né le idee in quanto non sono oggetto di un giudizio (come sostiene Locke).

Particolare rilievo assumerà, nella declinazione gnoseologica del paradigma classico, la distinzione, operata da Leibiniz, tra v. di ragione, la cui v. è basata sui principi logici della ragione (principio di non contraddizione) ed è quindi necessaria, e v. di fatto, ossia giudizi la cui v. dipende dai fatti dell’esperienza (principio di ragion sufficiente) ed è quindi contingente. La distinzione leibniziana si ritrova in Hume (nella contrapposizione di relazione di idee e materie di fatto), nonché in Kant (che parla di giudizi analitici, basati sulla ragione, e giudizi sintetici, basati sull’esperienza), e verrà ripresa (nella versione humeana) nel Novecento dal neopositivismo.


Distaccandosi invece dal modello cartesiano, incentrato sulla certezza soggettiva del cogito, Vico giunge a teorizzare la «conversione» del vero con il fatto, come criterio della sua «scienza nuova». Nell’ambito dell’idealismo postkantiano sarà Hegel a ripensare l’intera problematica, innestando la definizione classica in una teoria processuale e dinamica del sapere, secondo la quale il vero si compie solo nell’intero, ossia nel sistema filosofico, attraverso il superamento dialettico di tutte le opposizioni concettuali, e consiste propriamente «nel fatto che l’oggettività corrisponde al concetto, non nel fatto che cose esterne corrispondano alle mie rappresentazioni». nel corso del Novecento, la posizione di Nietzsche, il quale, interpretando la «volontà di verità» come espressione di una tradizione metafisica improntata alla trascendenza, sosterrà la sua dissoluzione nella «volontà di potenza». La Verità è l'obbligo di mentire «secondo una salda convenzione», servendosi delle «metafore usuali».

Dunque Nietzsche non si congeda dalla verità; piuttosto dice che non è un possesso, ma scaturisce ogni volta da una molteplicità di prospettive e non è mai né assoluta, né definitiva.


 Nel fornire una definizione semantica del concetto di verità, Tarski mostra l’impossibilità di una definizione valida per il linguaggio naturale e mette in evidenza che, per essere «adeguata», una definizione di verità non può che basarsi su una distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio. Popper dice che non c’è certezza nella scienza e nessun criterio di verità dal momento che le conseguenze di una teoria sono infinite; il potere politico non può essere giustificato dalla ragione; il futuro della storia è imprevedibile.

Sul finire del XIX secolo Nietzsche nega l’esistenza di una conoscenza disinteressata del mondo, poiché la conoscenza è lo strumento che non guarda ai fatti, perché non ci sono fatti, ma solo interpretazioni dei fatti stessi.

Egli muove da un assunto hegeliano che separa verità e finzione (cioè metafora e poesia) con l’intenzione di dimostrare che in realtà quella che comunemente viene chiamata verità è una grande costruzione retorica, di cui però si è dimenticata la natura illusoria. Nietzsche attacca la comune concezione antropocentrica del mondo che eleva l’uomo a misura di tutte le cose, e dice che in realtà «ci furono eternità, in cui esso non c’era; e quando sarà finito di nuovo, non sarà successo nulla.».

La figura dell’uomo riacquista il posto che realmente le compete nel mondo e perde l’unicità del punto di vista assegnatole, poiché, afferma Nietzsche, anche una formica si pone al centro del suo mondo e secondo la propria prospettiva lo misura: come si può ritenere una delle due prospettive – quella dell’uomo o quella dell’insetto – più vera dell’altra? Ciò che però l’uomo chiama “verità” è una scelta arbitraria, che niente ha a che vedere con un’autentica verità; l’uomo attua delle delimitazioni arbitrarie e ciò che risulta dalla sua comprensione diviene dunque menzogna, falsità, negazione della verità.

Esiste anche una concezione esistenzialistica della verità affrontata da Heidegger che tratta soprattutto il rapporto dell’uomo con la verità. Per Heidegger, che insiste sul senso etimologico della parola che in greco significa verità (alétheia: alla lettera, “non nascondimento”), essa consiste in una sorta di autorivelazione dell’Essere, che tuttavia non è mai completa. Heidegger interpreta il mito platonico della caverna che è la raffigurazione del passaggio dalla verità come alétheia alla verità come orthótes.

La storia della filosofia è, sostanzialmente, storia di teorie in cui si sono cercati, credendo di averli trovati, fondamenti stabili per teorie scientifiche, per proposte etiche, per sistemi politici, per teorie metafisiche concernenti l’uomo, la storia, la conoscenza e la scienza, Dio. Esistono dei fondamenti certi, inattaccabili?

Non c’è certezza nella scienza come ha ribadito Popper e non possediamo nessun criterio di verità dal momento che le conseguenze di una teoria sono infinite; il potere politico non può venir razionalmente giustificato, sebbene possa venir criticato; il futuro della storia umana è imprevedibile.

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