Botros 17 - Il Sapere nella filosofia

Botros 17 - Il Sapere nella filosofia

Jessica Mauro (https://t.me/BotrosGiornale) [Art. 1 Ottobre 2023]

Quando ci si chiede «a che serve il sapere?» si solleva una questione che rischia di non escludere alcuna risposta. A cosa può non servire il sapere? Quale che sia il fine che ci proponiamo, noi aumentiamo le probabilità di raggiungerlo nella misura in cui sappiamo qualcosa circa la sua natura oggettiva come pure sulle nostre capacità e circostanze.

È così nella vita quotidiana, e mano a mano che i nostri fini diventano più complessi incorporando presupposti istituzionali e tecnologici cresce il bisogno di saperi specializzati, cioè della competenza altrui. Nel mondo moderno, questa tendenza si è diffusa sino al punto che si è arrivati a parlare di una «società della conoscenza». Al giorno d’oggi, pochissimi dei nostri interessi possono essere coltivati senza l’aiuto di un qualche sapere specialistico.

Se non lo possediamo noi stessi, vogliamo quantomeno disporre del sapere che ci indichi dove – agenzia, libro o sito internet – sia possibile reperire l’informazione che ci manca. Il sapere è dunque l’utilità stessa. Non c’è niente a cui non possa servire. Serve inoltre a stabilire in generale cosa è utile e cosa non lo è, come pure fino a che punto un presunto sapere sia davvero affidabile o pertinente. L’utilità del sapere è illimitata.


Non sto pensando soltanto a tutti i benefici pratici della conoscenza, alla capacità stessa delle più alte astrazioni di trovare applicazioni tecnologiche, talora in ambiti remoti e inaspettati. C’è anche un’utilità puramente teorica delle teorie al di là di ogni possibile ricaduta pratica. Nella ricerca scientifica si desidera giungere a risultati sui quali si possa contare, risultati allo stesso tempo solidi e fecondi, poco esposti alla possibilità d’errore, ma sufficientemente rilevanti per suggerire come affrontare altri problemi.

Da qui deriva l’importanza attribuita alla scoperta delle leggi matematico-sperimentali: una volta confermate, è improbabile che vengano successivamente falsificate, mentre vengono usate al contempo per orientare la ricerca imponendo condizioni molto precise alle ipotesi che dovranno d’ora in poi essere prese sul serio. In effetti, la scienza moderna si concepisce come un compito infinito in cui ogni contributo all’edificio della conoscenza ha come scopo quello di mettere nelle condizioni di fornire ulteriori contributi.

Anche sul piano strettamente teorico, il sapere si raccomanda per la sua utilità. Serve a produrre ancor più sapere. Senza dubbio il pubblico è più predisposto ad apprezzare la ricerca e lo stato a finanziarla, per le ricadute pratiche che ci si aspettano. Ma nella misura in cui si riconosce che è spesso difficile stabilire a priori se la ricerca avrà o meno ricadute pratiche, la ricerca pura non è in pericolo, o per lo meno non è più minacciata oggi di quanto non lo sia stata in passato, quando le pressioni esterne si facevano ugualmente sentire.


Così, per ragioni connesse sia ai bisogni sociali sia a una propria dinamica interna, il sapere è certamente destinato ad accrescersi e a diversificarsi. In questo senso, il sapere non è affatto in crisi oggi. Da un altro punto di vista, è legittimo però dubitare che tutto sia in ordine nel nostro rapporto con il sapere. Noi cerchiamo la conoscenza per la sua utilità, per le sue ricadute pratiche, o per la sua fecondità teorica. Ma che ne è della conoscenza in quanto tale, a prescindere dalla sua utilità? Non v’è alcun bene intrinseco nello stato d’animo stesso con cui si accede alla verità, soprattutto quando si tratta di verità fondamentali?

Questa era l’opinione di filosofi come Aristotele e Spinoza, che concepivano il senso della vita teorica non tanto come ricerca quanto come possesso della verità. Questa concezione è in larga misura scomparsa dal nostro orizzonte intellettuale. Ha ceduto il posto a una visione della teoria come compito infinito, in cui il valore di ogni risultato consiste nel suo potenziale contributo al progresso ulteriore.

Eppure, quando poniamo davanti all’occhio della mente qualche verità significativa e contempliamo ciò che ci svela sul mondo, esercitiamo la capacità umana più profonda e trasformatrice, innalzandoci in effetti al di sopra della nostra mera umanità, al di là di ogni punto di vista condizionato dai nostri interessi o dalla nostra posizione nello spazio e nel tempo, in quanto consideriamo le cose nella loro realtà, così come sono in sé.


Ciò che è vero non è vero per noi, ma è vero assolutamente
. In questi momenti, il sapere non serve a niente. Esiste per se stesso e dispiega allora la sua virtù più alta. Secondo Paolo Costa quando pensiamo alla conoscenza tendiamo a immaginarcela come un patrimonio personale o collettivo, qualcosa di cui si può disporre a piacere, quale che siano gli scopi che ci prefiggiamo, una volta che sia stato acquisito e accumulato.

In fondo, il sapere viene raffinato, organizzato, immagazzinato e conservato nei libri, nelle enciclopedie, ora anche nel World Wide Web, e può essere rispolverato da chi ne abbia bisogno e trasmesso a chiunque lo desideri. Tuttavia, secondo una corrente oggi minoritaria, eppure influente nella nostra tradizione intellettuale, la conoscenza non andrebbe vista solo come qualcosa che si possiede – informazioni che si acquisiscono, conservano e utilizzano – ma come una forma di vita, un’attività in sé compiuta, che si esaurisce in se.

In italiano non si fa fatica a esprimere questa idea perché un sinonimo di conoscenza è proprio il verbo sostantivato «sapere». Per noi è scontato che «conoscenza» equivalga a «sapere». Conoscere è anche guardare la realtà con occhi diversi. È una forma speciale di «visione». Disporremmo perciò di un alternativa all’immagine della conoscenza come una risorsa finalizzata alla soluzione di problemi. In quest’ottica conoscere significa procurarsi informazioni attendibili sulla realtà, le quali dovranno poi essere assemblate e applicate mediante un metodo affidabile alla soluzione di una determinata tipologia di problemi.


La conoscenza richiede quindi anche una notevole dose di agilità mentale. Occorre, allo stesso tempo, sviscerare un problema ed essere pronti a ricontestualizzarlo in continuazione. Servono, cioè, resistenza, potenza e agilità. Per questo viene spontaneo riconoscere in Socrate un maestro di conoscenza anche se, per quanto ne sappiamo, la sua sapienza veniva impiegata più per smontare gli edifici conoscitivi che per erigerli.

Ma in che senso una domanda ben posta, che riconfigura la nostra visione di un problema, può essere definita una forma di conoscenza?
Si potrebbe forse dire che una ricontestualizzazione innovativa ci dischiude una trama di ragioni a cui prima non eravamo sensibili facendoci apparire sotto un punto di vista diverso le informazioni e le abilità che già possedevamo. Questo, però, sembrerebbe essere più un passo nella direzione del riconoscere che del conoscere. L’affermazione potrà risultare forse più plausibile se ci si sofferma su quegli oggetti che meglio appagano la tradizionale aspirazione filosofica all’assoluto.

Non sto pensando tanto ai principi fondamentali del pensiero e del comportamento, quanto piuttosto a quelle incarnazioni della totalità dell’esperienza quali possono essere, per esempio, i concetti di natura, natura umana o natura vivente. Che cosa può voler dire scoprire o conoscere qualcosa in questi ambiti? Abbiamo a che fare qui con oggetti complessi, immagini mentali che racchiudono in sé quadri concettuali, dimensioni dell’esperienza (fatti e interpretazioni di fatti), impegni ontologici, orientamenti di valore. Si potrebbe anche parlare di schemi attraverso cui la realtà viene messa in prospettiva.


In particolare, le immagini metafisiche consistono in una visione prospettica della totalità della realtà, un certo modo di vedere noi stessi e le cose che ci circondano ed è proprio su questi oggetti che tradizionalmente si è focalizzata l’indagine filosofica. Contemplare la verità in quanto «vita del tutto» (per citare Hegel) non vuol necessariamente dire possedere una visione chiara e univoca del reale, ma può significare anche, ad esempio, maturare di esso una visione «bistabile», come accade con le figure gestaltiche, al cui interno convivono due forme che possono essere messe a fuoco solo alternativamente. (Pensiamo solo allo sforzo richiesto per pensare la natura allo stesso tempo come una «prima» e una «seconda» natura.)

Bistabile non significa «indefinita», significa solo non fissa, non immediata. Una simile proprietà forse non conoscibile, ma è pur sempre riconoscibile. La distinzione, tutto sommato, appare meno aporetica e più promettente di quella kantiana tra «conoscibilità» e «pensabilità», pur appartenendo allo stesso ordine di discorso. Come stanno dunque le cose? Occorre anzitutto chiedersi se nella vecchia visione aristotelica e spinoziana della conoscenza come contemplazione sub specie aeternitatis non possa trovare spazio questa prestazione cognitiva che ha senso interpretare come una forma dinamica, esplorativa e sofisticata di riconoscimento.

Si tratta, allora, di una variante di conoscenza che eccede la dimensione dell’utilità? Sì e no. In effetti, non sembra essere un fondamento solido su cui edificare qualcosa. Secondo Charles Larmore la conoscenza come una forma di vita si esaurisce in se stessa.


In generale, l’idea di una vita consacrata alla conoscenza può significare tre cose diverse. Egli parte dalla concezione che considera la conoscenza come una risorsa al servizio di fini che travalicano la conoscenza. Spesso secondo lui consideriamo la conoscenza come un corpo di verità e metodi che può essere immagazzinato in luoghi differenti nelle teste delle persone, ovviamente, ma anche nei libri e sul web e può essere recuperato e utilizzato ogni volta che serve per raggiungere i nostri scopi.

Una persona provvista di conoscenze su un certo argomento è qualcuno che padroneggia le relative informazioni, che può rievocarle al momento opportuno e applicarle con successo nelle circostanze date. Parliamo di persone bene informate anche quando abbiamo a che fare con individui che non possiedono direttamente un certo tipo di conoscenza, ma sanno dove o da quali esperti procurarsela, e questo tipo di conoscenza di secondo grado è una risorsa non meno importante, sia che la si possieda o, di nuovo, che si sappia come procurarsela.

Lo stesso vale per il differente tipo di conoscenza di secondo grado che stabilisce nel dettaglio quanto possano essere affidabili le diverse forme di conoscenza e per quali tipi di situazioni possano essere pertinenti. La conoscenza, inoltre, non è solo utile per perseguire i fini scelti, ma può servire anche per spiegare quali fini sia ragionevole perseguire e con quale tipo di impegno.


In tutti questi casi la conoscenza è una risorsa inestimabile e, perciò, un possibile significato di una vita dedita alla conoscenza è quello di una vita che mira ad aggiungere nuovo materiale, magari più approfondito o in ambiti sin qui inesplorati, alla riserva di conoscenza esistente al fine di consentire all’umanità di raggiungere più facilmente i suoi vari scopi.

Questa è la vita della scienza così com’è stata spesso compresa dagli architetti dell’età moderna. È una vita rivolta, per citare Francis Bacon, al miglioramento della condizione umana. Tuttavia, questo stile di vita non trova la sua ragion d’essere in qualcosa che abbia in ultima istanza a che fare con la conoscenza stessa. La sua attenzione si fissa sui vantaggi pratici che si attende dalla conoscenza. Che cosa significa, invece, vedere nella conoscenza stessa, nella sua acquisizione in quanto tale, qualcosa di incalcolabile importanza?

Come ho già suggerito Larmore, sembrano profilarsi qui due possibilità molto diverse. Secondo una concezione, ci dedichiamo alla ricerca della conoscenza non solo perché vogliamo migliorare la condizione umana, ma prima di tutto perché la ricerca stessa, la scoperta di nuove verità, l’elaborazione di visioni comprensive dell’uomo e del mondo ci appare degna: l’esercizio di alcune delle più elevate capacità umane.


Va notato che questo stile di vita, al pari dell’ideale baconiano-cartesiano, continua ad apprezzare la conoscenza essenzialmente per la sua utilità, anche se non più soltanto per la sua fecondità pratica, ma ancor più per quella teorica. Ciò che conta in questa concezione è l’esercizio delle nostre capacità di acquisire conoscenza. Una volta acquisita, la conoscenza è considerata perciò preziosa, a prescindere dalle sue conseguenze pratiche, solo nella misura in cui rende possibile l’acquisizione di ulteriore conoscenza, delineando i problemi ancora in attesa di soluzione e procurando i mezzi per risolverli.

Nell’altra concezione, invece, il valore della conoscenza sembra consistere non solo nella sua utilità pratica o teorica, ma anche, e soprattutto, in un certo tipo di fruizione che il suo stesso possesso garantisce. L’idea guida in questo caso è che conoscere delle verità fondamentali su come stanno le cose equivale a vedere il mondo così come esso è in realtà, indipendentemente dai nostri particolari interessi e preconcetti, persino indipendentemente dalla nostra collocazione nello spazio e nel tempo, tenuto conto che qualsiasi verità che scopriamo non è vera per noi o per la nostra epoca storica, ma vera senza aggettivi, vera in senso assoluto.

Questo è appunto il significato del predicato «vero». Quando contempliamo, noi comprendiamo il mondo come Dio (se esiste un Dio) vedrebbe il mondo. In questa concezione, il valore ultimo della conoscenza consiste, non tanto nell’esercizio delle nostre capacità di raggiungerla, quanto piuttosto nel risultato stesso, grazie al quale trascendiamo i limiti della condizione umana entro i quali altrimenti vivremmo le nostre vite.


Non c’è bisogno di aggiungere che solo per mezzo della ricerca della conoscenza, che è un’attività essenzialmente umana (Dio non persegue la conoscenza, ma la possiede sin dall’origine dei tempi), possiamo arrivare a possedere la verità. Non è meno evidente che ciò che riteniamo conoscenza potrebbe in realtà rivelarsi falsa e che non possiamo mai escludere completamente la possibilità che la nostra visione del mondo così come esso è possa rivelarsi un’illusione. Ma è la trascendenza di ciò che è meramente umano ad animare questo ideale. Queste tre concezioni del valore della conoscenza formano gerarchia. La seconda e la terza riconoscono il fatto innegabile che la conoscenza è indispensabile alla vita di ogni giorno, ma allo stesso tempo oltrepassano tale preoccupazione per l’utilità pratica e scorgono un valore più alto nella conoscenza stessa.

Analogamente, la terza concezione riconosce il valore insito nell’esercizio di quelle capacità umane che sono implicate nella ricerca e nell’acquisizione della conoscenza. Allo stesso tempo, però, intravede un valore persino superiore nella contemplazione della verità stessa, grazie alla quale possiamo superare il punto di vista umano. Se mi si chiede se «nella vecchia visione aristotelica spinoziana della conoscenza come contemplazione sub specie aeternitatis non possa trovare spazio» un particolare tipo di attività intellettuale, cioè quella indagine riflessiva, interpretativa, inquisitiva della nostra comprensione del mondo e di noi stessi che si può descrivere come «una forma dinamica, esplorativa e sofisticata di riconoscimento», non faccio fatica a cogliere il valore di questo tipo di attività. Ma è un tipo di attività molto diverso dalla contemplazione della verità.

Ma la questione che ha posto Larmore è un’altra: non abbiamo forse perso di vista oggi un altro valore della conoscenza (quello affermato nella terza concezione) che ci solleva al di sopra della sfera umana e ci fornisce una comprensione del divino e dell’eterno?. Secondo il filosofo Paolo Costa sarebbe difficile negare che sono pochissime oggi le persone che intravedono nel sapere e nell’esperienza conoscitiva un’opportunità per accedere a una dimensione dell’esistenza atemporale, assoluta, extra-naturale. Tuttavia, per procedere da questa constatazione al sospetto che «non tutto sia in ordine nel nostro rapporto con il sapere» bisogna predisporsi contro corrente e a decostruire molti degli assunti dell’epistemologia moderna.


Non stupisce, d’altro canto, che nella «società della conoscenza» il sapere finisca per apparire come un evento ordinario e naturale. In fondo, chiunque viva in uno stato moderno è obbligato a spendere gran parte dei propri anni migliori studiando e accumulando quel patrimonio basilare di conoscenze (linguistiche, logico-matematiche, scientifiche, storiche) che sono date per scontate nelle attività e nelle transazioni che costituiscono la trama della vita di ogni giorno. In quest’ottica, la conoscenza appare sin dall’inizio un oggetto a portata di mano, l’utilizzabile per eccellenza. Fatta eccezione per qualche occasione rituale è molto raro che si venga spinti a riflettere sul valore «sacrale» o soprannaturale della conoscenza.

Quasi per definizione, nell’orizzonte moderno la conoscenza non schiude le porte sull’assoluto, ma è casomai un antidoto contro ogni forma di assolutismo. Questo spiega secondo Costa il perché negli ambienti scientifici la parola «mistero» suscita sempre reazioni negative che vanno dall’imbarazzo all’aperta ostilità. In effetti, per suscitare ancora un brivido nei nostri contemporanei bisogna chiedere loro di affacciarsi sull’abisso dell’infinitamente grande o dell’infinitamente piccolo. Non a caso le ultime tracce di una visione non disincantata della conoscenza si lasciano scorgere in quel sogno di una teoria del tutto con il quale i più temerari tra i fisici contemporanei aspirano a trasformare in realtà la sfrontatezza di Laplace.

Forse è proprio su una simile fede nelle illimitate capacità esplicative della scienza moderna che si basa lo spirito missionario di cui danno prova molti atei militanti ai nostri giorni. Anche una teoria fisica del tutto sarebbe, però, pur sempre un frutto del pensiero discorsivo e difficilmente potrebbe fungere da archetipo della «contemplazione della verità». Ma che cosa intendiamo per contemplazione della verità? Come dobbiamo immaginarcela? Malgrado le apparenze, non è affatto scontato che essa consista in un esercizio teorico distaccato. Per molti aspetti, viene più spontaneo pensarla come una visione assorta e stupita della realtà.


Una conoscenza intuitiva dell’essenza delle cose simile a quell’amore intellettuale di Dio che secondo Spinoza è necessariamente accompagnato da una condizione mentale di gioia e «supremo acquietamento». L’immagine evocata dalla concezione spinoziana è quella di un’anima saturata dalla presenza dell’oggetto conosciuto; di un occhio della mente totalmente assorbito dalla visione intellettuale di una forma pura sottratta al divenire delle cose. Non è un’idea indecifrabile, ma non è neanche facilmente conciliabile con l’irrequietezza, la volubilità, la sospettosità, la radicale secolarità dell’individuo moderno, almeno se dobbiamo prestare fede al ritratto che di esso ci hanno fornito l’arte, la letteratura, la filosofia degli ultimi secoli.

È lecito chiedersi, allora, quanto spazio rimanga nell’orizzonte culturale contemporaneo per una visione della conoscenza come trascendenza di sé, come fuoriuscita dai confini angusti di una soggettività che si auto-autorizza e si auto-determina. Sempre secondo Charles Larmore ciò che ci divide è la questione seguente: fino a che punto nel nostro mondo «non tutto è in ordine nel nostro rapporto con il sapere»? La visione dominante oggi è che il valore della conoscenza risieda nella sua utilità, e non vedo come questa concezione strumentale sia necessariamente messa in dubbio dal tipo di autoesplorazione che consiste in «un lento, ostinato, quasi ossessivo lavoro di scavo del familiare e dell’ovvio».


Certamente, lo sforzo di rendere più espliciti e articolati i nostri fini fondamentali è un’attività la cui importanza viene spesso sottovalutata nella nostra società. Nondimeno, dobbiamo ancora chiederci: in che cosa esattamente consiste la sua importanza? E, più in particolare: come dev’essere concepito il valore della maggiore autocomprensione che ci consente di raggiungere? Se si ritiene che il suo valore derivi dal valore dell’attività stessa di autoesplorazione, allora l’importanza della conoscenza – in questo caso l’autoconoscenza – viene ancora percepita in termini essenzialmente strumentali.

Il valore intrinseco della conoscenza risiede nel fatto che ci consente di vedere la realtà così com’è, indipendentemente dai nostri interessi e dai nostri preconcetti. Questa è una condizione mentale che comporta una soddisfazione a sé stante. Ci rivela, inoltre, una verità importante su noi stessi, cioè che abbiamo la capacità di trascendere i nostri limiti spaziali e temporali e di osservare il mondo dal punto di vista dell’eternità. 

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