Botros 16 - Ripresa dei concetti di filosofia nei periodi di crisi

Botros 16 - Ripresa dei concetti di filosofia nei periodi di crisi

Jessica Mauro (https://t.me/BotrosGiornale) [Art. 3 Settembre 2023]

Come si definisce una crisi dal punto di vista storico e filosofico?
Non basta un semplice elenco: un arretramento economico, un conflitto, una rivoluzione. Se così fosse, con crisi dovremmo intendere qualcosa di molto simile alla maggior parte degli accadimenti della storia moderna e contemporanea. Cambiamenti politici, economici, tecnologici, culturali; è innegabile che dal 1945 ad oggi abbiamo vissuto tutto ciò a un ritmo accelerato, senza avere la percezione che il mondo fosse in perenne crisi.

Solo nell’ultimo decennio abbiamo cominciato a percepire un progressivo sgretolamento dell’ordine mondiale post-bellico, il che ha fatto cadere le coscienze nella crisi. Quando gli storici ricorrono a questo termine di solito lo fanno a posteriori, mettendo insieme un pacchetto di dati che, solo con “il senno di poi”, acquistano un significato che era impossibile cogliere per i contemporanei.

A partire dal XVIII secolo dobbiamo sapere che si affermano nel pensiero occidentale quelle che nel corso del Novecento saranno definite «grandi narrazioni». Illuminismo, idealismo, marxismo, positivismo sono cornici teoriche che, pur nella loro diversità, condividono l’ottimismo verso il futuro; la convinzione che la storia proceda in modo lineare e per progressivi miglioramenti in ambito culturale, sociale, scientifico; l’idea che esista per la società uno scopo a cui tendere.


Sono tuttavia molteplici le questioni che i critici individuano: queste narrazioni sono descrizioni oggettive della realtà in cui l’uomo è immerso oppure diventano gabbie teoriche attraverso cui si intende fornire una spiegazione razionale alla complessità di una determinata epoca? Esiste davvero uno spirito del tempo che caratterizza i singoli periodi storici in modo coerente e riconoscibile? Qual è il rapporto tra la realtà e le rappresentazioni che noi diamo di essa?

L’Ottocento, dobbiamo sapere, è il secolo che forse più di tutti vede nascere e svilupparsi sistemi filosofici completi, alcuni dei quali eserciteranno una decisa influenza anche sul pensiero novecentesco, è in questo stesso periodo che si alzano le prime voci critiche.


Il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) rivendica la centralità del singolo in aperto contrasto con l’impianto dialettico del pensiero hegeliano, incapace di tener conto dell’esistenza soggettiva e concreta degli uomini nel mondo. Annota Kierkegaard nel suo Diario:

«Succede della maggioranza dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica».

Per Kierkegaard, le narrazioni della realtà utilizzate da filosofi come Hegel non solo sono pure astrazioni separate dalla realtà stessa, ma all'interno di esse gli individui non giocano alcun ruolo e neppure hanno la libertà di scegliere per la propria esistenza. In questa contrapposizione, si scorgono due diverse modalità di concepire la disciplina filosofica stessa: da un lato, una scienza oggettiva, distaccata e disinteressata; dall'altro una riflessione soggettiva sulla vita umana.


La sensazione della fine di un’epoca spianò la strada alla filosofia di Nietzsche. Friedrich Nietzsche è vissuto nella seconda metà dell’Ottocento (1844-1900), un periodo in cui si impose facilmente l’idea che la civiltà occidentale stesse procedendo in modo inarrestabile verso il progresso: la conquista dei mercati mondiali grazie al colonialismo, crescente sicurezza e benessere grazie alla scienza e alle tecniche.

E poi l’estensione del diritto di voto (anche alle donne) l’istruzione pubblica, la difesa dei ceti più deboli, tutte misure che destarono sospetti: come sarebbe stato possibile conservare le aristocrazie con una sempre più diffusa uguaglianza? Tutto ciò è davvero una conquista o rappresenta il momento terminale di una malattia che ha colpito l’Occidente? Nietzsche è il pensatore che si pose in modo più radicale questa domanda.

Un colpo ancora più generalizzato alle narrazioni e autorappresentazioni che il pensiero occidentale ha elaborato nel corso dei secoli viene inferto da Friedrich Nietzsche (1844-1900). Non è un caso che proprio il filosofo tedesco divenga un punto di riferimento per i critici del secondo Novecento. Sin dal suo primo e celebre scritto La nascita della tragedia (1872), Nietzsche intende scardinare l’interpretazione razionalista attraverso cui l’uomo europeo ha rappresentato sé stesso.

Pur analizzando un ambito circoscritto come la tragedia, una delle forme d’arte più importanti della classicità, Nietzsche individua nell'affermazione del carattere “apollineo” nella Grecia antica l’inizio della decadenza della civiltà occidentale: l’ordine, la forma, il calcolo, la razionalità sono stati utilizzati per reprimere e imbrigliare l’essenza caotica e tragica della vita.


Nella maturità, Nietzsche continuerà la sua battaglia contro i grandi racconti di cui l’uomo si è nutrito per tollerare meglio l’assurdità dell’esistenza, fino a giungere alla provocatoria affermazione «Dio è morto», contenuta nel testo La gaia scienza (1882): si tratta di prendere atto del fatto che tutte le certezze assolute, non solo religiose ma anche filosofiche e metafisiche, sono venute meno, sono state smascherate e la realtà si.

L’attacco alla cultura cristiana e borghese si inserisce infatti nel più ampio quadro di sfiducia nei confronti della civiltà e del progresso. Lo scetticismo di Nietzsche per tutte le manifestazioni della modernità, valori e morale inclusi, il disprezzo sprezzante verso le masse, chiamate i superflui, rappresentarono per molti giovani un motivo di fuga dalla realtà.

“Libertà significa che gli istinti virili, gli istinti che gioiscono della guerra e della vittoria, hanno la signoria su altri istinti, per esempio quelli della felicità. L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto libero, calpesta la spregevole sorta di benessere di cui sognano i mercantucoli , i cristiani, le mucche, le femmine, gli Inglesi e altri democratici. L’uomo libero è guerriero“.


Il più famoso esponente della crisi e declino del continente fu però Oswald Spengler, il cui Tramonto dell’Occidente vide la luce nel 1918 e poi nel 1922. Le civiltà secondo Spengler, attraversano una storia ciclica in cui esiste un momento di declino: il Novecento si apre al tramonto. L’Europa sarebbe caduta in balìa di politiche selvagge, nell’individualismo più becero e in un annientamento generale se non fosse riuscita a purificarsi.


Chiaramente Spengler non pensava solo alla guerra ma a tutti gli eventi storici precedenti che ne avevano disegnato l’ambiente, l’humus. Ho richiamato sommariamente questi due autori per riflettere su due questioni. Una definizione completa di un concetto come quello preso in esame si può ottenere, per quanto non sia qualcosa di assoluto, su un piano intermedio tra storia e filosofia. Lo sguardo dello storico, e con molte più difficoltà per i contemporaneisti soprattutto per il problema delle fonti, è costitutivamente uno sguardo a posteriori.

E su questa base definisce, a seconda del periodo, i caratteri peculiari a una determinata crisi. Per il filosofo spesso questo non vale; Nietzsche e Spengler sono stati, per certi versi, profetici in quanto scrivevano della crisi e nella crisi: già Auguste Comte nel Discorso sullo spirito positivo del 1844 caratterizzava la modernità come un’età di crisi, un’instabilità che si sarebbe fatta sentire soprattutto in ambito scientifico. Il filosofo, a volte, ha la sventura di non sopravvivere alla verità delle sue parole.


Nel 1979, il filosofo francese Jean-François Lyotard (1924-1998) pubblica invece il saggio La condizione postmoderna. È a lui che si deve l’introduzione dell’espressione «grandi narrazioni», la cui fine diviene la cifra dell’epoca contemporanea. Lyotard prende le mosse da un’analisi che coinvolge in prima battuta l’ambito della scienza, ma che si allarga progressivamente alle sfere della filosofia, della politica e della morale.

Rispetto al secolo precedente, il Novecento presenta alcune peculiarità: l’affermazione su larga scala del capitalismo in campo economico, il progressivo sfaldamento del comunismo, ultimo elemento ideologico del secondo dopoguerra, la trasformazione della società da un tutto omogeneo o una realtà plurale, frammentata, sempre più individualista. Nel momento in cui Lyotard scrive, le narrazioni che l’occidente ha costruito per rappresentare sé stesso, per raccontarsi e, quindi, per legittimarsi sono oramai al tramonto.


Ed è proprio la questione della legittimazione che viene posta al centro dell’analisi di Lyotard: i sistemi filosofici della modernità, così come le ideologie novecentesche, hanno avuto sia l’obiettivo di “spiegare” il mondo sia di legittimare un certo modo di interpretare la realtà. Di fronte alla sempre maggiore complessità sociale, allo sgretolamento dei legami comunitari, i grandi sistemi e le grandi narrazioni “non funzionano più”, si sono dimostrati incapaci di dare un senso alla realtà. La modernità, ossessionata dall'unità, ha lasciato il posto al pluralismo radicale della postmodernità. Scrive Lyotard:

«possiamo considerare postmoderna l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni […]. La funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini».

Per il filosofo, questo «declino del narrativo» si è compiuto tanto a causa dello sviluppo tecnologico, che ha messo al centro il mezzo rispetto al fine, quanto a causa del capitalismo che ha valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi. In questo modo, da un lato si è concretizzata la perdita di un orizzonte finale, dall'altro si è giunti a una frantumazione non solo sociale, ma anche identitaria.

Lyotard non manca infatti di evidenziare come nel Novecento non solo va in crisi l’idea di una realtà esterna omogenea, ma anche la rappresentazione di un’“io” unitario e trasparente a sé stesso, una convinzione tipicamente moderna che affonda le proprie origini nel pensiero di Descartes. Alla luce della condizione postmoderna, la domanda cruciale per Lyotard diventa allora la seguente: «dove risiede la legittimità dopo la fine delle metanarrazioni?».

Nel contesto attuale, non si può più ricorrere a una verità assoluta, ma possono esistere solo combinazioni pragmatiche tra i diversi linguaggi che percorrono la società postmoderna. Il sapere diviene così strumento essenziale per renderci sensibili alle differenze e fronteggiare la mancanza di un’unità di misura condivisa mostra per quello che è: contraddittoria, disarmonica, senza alcuna direzione provvidenziale. Una definizione completa di un concetto come quello preso in esame si può ottenere, per quanto non sia qualcosa di assoluto, su un piano intermedio tra storia e filosofia.

Lo sguardo dello storico, e con molte più difficoltà per i contemporaneisti soprattutto per il problema delle fonti, è costitutivamente uno sguardo a posteriori. E su questa base definisce, a seconda del periodo, i caratteri peculiari a una determinata crisi. Per il filosofo spesso questo non vale; Nietzsche e Spengler sono stati, per certi versi, profetici in quanto scrivevano della crisi e nella crisi: già Auguste Comte nel Discorso sullo spirito positivo del 1844 caratterizzava la modernità come un’età di crisi, un’instabilità che si sarebbe fatta sentire soprattutto in ambito scientifico. Il filosofo, a volte, ha la sventura di non sopravvivere alla verità delle sue parole.


Infine, riflettere sul concetto di crisi è a mio avviso molto interessante perché ci permette di capire meglio il presente, un presente che molti vivono consapevolmente come periodo di crisi (una consapevolezza che chiaramente dipende anche dal tasso di scolarizzazione).

Come definiamo la nostra crisi? E perché non troviamo un Nietzsche che la interpreta ma solo un Edmund Husserl, una voce del passato, che nel suo testo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale del 1934 (pubblicata postuma solo nel 1954) ha sottolineato il problema che si era posto Comte, approfondendo il lato epistemologico della questione. Possiamo dire, partendo da Husserl, che la crisi oggettivistica delle scienze (in virtù della quale i suoi principi risultano svincolati dalla operatività del senso soggettivo) è un “pericolo” per le masse, per i pregiudizi che possono avere nei confronti della scienza.

Sono portata a pensare che la crisi che viviamo non sia solo una crisi di valori, di idee, economica e politica, ma sia anche una crisi umanistica scientifica, una crisi della scienza che si trova a dover faticare, forse più che in passato, contro la credulità degli ignoranti.

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