Botros 11 - l'Editoriale

Botros 11 - l'Editoriale

don Rosario (https://t.me/donRosarioMorrone) [Art. 2 Aprile 2023]

Quando ero bambino pensavo che gli unici abitanti del mondo fossero, papà, mamma e mia sorella.

Poi, piano piano, cominciai a scoprire che avevo dei nonni, legati alla mia famiglia in un modo davvero unico.

Mi accorsi, più tardi, di avere degli zii ed intorno a me dei cugini con cui condividere molti dei miei giochi.


Riuscivo a comprendere che le persone vicine a me, rappresentavano in qualche modo una significatività. Gli altri, quelli più lontani, invece, li guardavo con un pochino di diffidenza, perché non avevano un vincolo affettivo, come quelli che ritenevo fondamentali per la mia esistenza.

Crescendo andai all’asilo, e qui incontrai altre persone la cui presenza ritenevo occasionale.

Alle elementari feci scoperte bellissime: conobbi persone che non abitavano nemmeno nel mio quartiere, e nè vicino casa mia.

Erano estranei, ma immettevano in me la curiosità di capire cosa pensavano, come vivevano nelle loro famiglie, cosa abitualmente facevano e quale era lo stile con cui si relazionavano fra di loro, e con altre persone.


Piano piano, cominciai lentamente a comprendere che la mia intelligenza si sviluppava sempre di più, anche grazie a questi incontri con persone - neppure legate a me da vincoli stretti - ma che mi facevano avvicinare ad altre storie di vita, ad altre individualità, altri modi di pensare e di rapportarsi.

Mi accorsi che la vicinanza con 'altri vissuti' faceva bene alla mia immaginazione, alla mia fantasia, alla mia intelligenza, perché ero stimolato - incontrando persone diverse da me - ad uscire dal ristretto della mia quotidianità, per allargare i miei orizzonti culturali, e capire che non esisteva solo il mio modo di pensare e di affrontare la realtà, ma che nel mondo sono presenti anche altri individui, altre idee, altri modi di vivere con cui confrontarsi.


Adesso che sono adulto, ritengo che quel lento processo di avvicinamento a persone diverse, mi abbia in qualche modo salvato la vita, e l’abbia resa più aperta ad accettare e ad accogliere gli altri senza la presunzione che la mia persona, le mie idee, siano migliori, e che non debbano prevalere su chiunque abbia a relazionarsi con me.

Alle medie e alle superiori conobbi altre persone - che non erano nemmeno del mio paese - e i miei orizzonti conoscitivi spaziarono sempre di più, recependo ed accettando tutto il nuovo ed il bello “dell’altro”, del 'lontano'.

All’Università cambiai addirittura usi e costumi. Andai a studiare in una città famosa dove si respirava la cultura metropolitana ed io - che arrivavo da un paesino della Calabria - invece di sentirmi spaesato, ero stimolato ancora di più ad allargare la conoscenza dell’umano.


Poi diventai prete, e tutte queste varie conoscenze ed esperienze culturali mi risultarono molto di aiuto: mi avevano reso predisposto a relazionarmi con chiunque, di qualsiasi ceto sociale, di qualsiasi paese, di qualsiasi età.

Riuscivo a mettermi con tutti in una 'comunicazione empatica', che mi arricchiva sempre di più.

Non era per mia propria capacità o per la mia innata personalità, come si potrebbe pensare.

Riconosco che ero capace di “comunicazione” proprio perché mi ero aperto nel corso dei miei anni in rapporti con diversi individui - diversi da me - senza diffidenza, senza paure e senza deliri di superiorità.


Mi accadde più avanti nel tempo, proprio mentre ero prete, di avere a che fare con flussi migratori, durante la guerra del Kossovo e durante tanti sbarchi migratori.

Operavo dietro le quinte come direttore Caritas, ma trovavo sempre soluzioni per situazioni struggicuore.

Arrivarono, ad un certo punto, nel Campo Sant’Anna, minori che non si sapeva dove collocare.

Allora li presi con me in affidamento: aprii casa mia, e fu quella forse la cosa più grande che abbia fatto nella mia esistenza.

Coinvolsi la comunità della parrocchia dove ero parroco, ed insieme ci autotassammo per nutrirli, vestirli, acculturarli.


Trovammo una casa, dove i ragazzi potevano dormire, trascorrere liberamente le loro giornate, ma loro preferivano stare tutto il giorno nella casa canonica: mangiavano con me a pranzo, a cena, e anche e soprattutto durante le feste; eravamo una famiglia di vari colori, ma famiglia.

Ho conosciuto durante quel periodo, altre mentalità, altre usanze, altri linguaggi, altre religioni, altre intelligenze, altri affetti e anche diversità fisiche, sia di pelle, di statura, di lineamenti.

E proprio quella diversità mi ha permesso di diventare un esperto in umanità.

Oggi, se so qualcosa dell’uomo e delle sue costitutività, lo devo a quei ragazzi, che si mettevano in relazione con me, che si affidavano a me.


Sembrava che io fossi il grande 'guru' - che li guidava - la persona che li aiutava e li faceva accettare, e rispettare dalla gente.

Adesso, dopo anni, riconosco che sono stati loro ad aiutarmi, a regalarmi affetto, ad insegnarmi a guardare «all’altro» senza diffidenza, con la mente ed il cuore sgombri da pregiudizi.

Oggi posso affermare, senza alcun riserva, che 'il diverso' non è una minaccia, non è affatto un pericolo.

“Il diverso da me” è la più grande ricchezza che io possa continuare ad incontrare lungo il corso della mia vita.


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