Botros 10 - La storia della Festa della Donna

Botros 10 - La storia della Festa della Donna

Angelins (https://t.me/BotrosGiornale) [Art. 8 Marzo 2023]

Tra storia e leggende


L’origine di questa festa, comunemente viene fatta risalire alla tragedia subita da 134 operaie rimaste uccise durante un incendio all’industria tessile Cotton di New York(1908)

Le donne erano state rinchiuse dai proprietari in seguito ad un loro sciopero, per protestare contro il loro sfruttamento nel lavoro. Scoppiò un incendio e le donne morirono tutte carbonizzate. La tragedia fece molta impressione e richiamò l’attenzione sulle problematiche femminile.


L’episodio anche se non segna la nascita della festa delle donne, è universalmente conosciuto come quello che ha dato il via alla riflessione mondiale sull’ingiustizia della mentalità, che considerava la donna inferiore all’uomo e in quanto tale sottomessa a lui.

Basti pensare che ancora, all’inizio dell’800 la funzione della donna era attribuita e delimitata nello schema di «angelo del focolare».


La condizione della donna è stata spesso caratterizzata, nel corso della storia, da una situazione di inferiorità, dal punto di vista sociale, giuridico e politico.

In effetti, l’istituzione della festa delle donne è nata in seguito a tante battaglie combattute dalla donna, per rivendicare i propri diritti. Sulle donne fiorirono tanti pregiudizi nel corso dei secoli tanto, da far coniare il proverbio che recita “Chi dice donna dice danno”, che le femministe hanno commentato così:





Nel 1903 Emmeline Pankhurst fondò in Inghilterra un’organizzazione la «Women’s Social and Political Union» le cui seguaci sono dette SUFFRAGETTE, nome che indicava tutte coloro che hanno lottato per il suffragio universale, lottando contro l’esclusione delle donne al voto e per cambiare la mentalità sul concetto di donna.

Il primo evento importante in cui si trattò la questione femminile fu il VII Congresso della II Internazionale di Stoccarda (1907), in cui si prese in considerazione il diritto delle donne al voto.

Nel 1908 su di una rivista The Socialist Woman, Corinne Brown, si espresse apertamente sui diritti delle donne e durante una conferenza del Partito socialista a Chicago, parlò dello sfruttamento della donna, delle discriminazioni sessuali da parte dei datori di lavoro e del diritto della donna a votare.


Il partito socialista americano destinò l’ultima domenica del febbraio 1909 alla manifestazione per il voto alle donne ed in seguito nacque l’istituzione di una giornata internazionale dedicata alla rivendicazione dei diritti della donne.

A Mosca nel 1921, durante la Seconda Conferenza internazionale delle donne comuniste, fu stabilito che l’8 marzo fosse la Giornata internazionale dell’operaia.


In Italia nel 1922, fu anche istituita la prima giornata della donna, ma non per l’8 quanto per il 12 marzo, solo nel 1944 è stato stabilito di celebrare la Giornata della donna (di tutte le donne non solo delle operarie!) l’8 marzo, ma ancora nelle zone liberate d’Italia.


Con il decreto di Umberto di Savoia il 2 giugno 1946 le donne italiane ottengono il diritto di voto e nello stesso anno 21 di esse sono state elette deputate.

Ed è proprio nel 1946, le femministe italiane adottano la mimosa quale simbolo della festa della donna l’8 marzo in ricordo della orribile fine fatta dalle operaie morte nel rogo della fabbrica tessile «Cotton» nel 1908.

Negli anni 70 è nato in Italia il Movimento femminista e finalmente il 1975 è stato dichiarato Anno internazionale delle Donne dalle Nazioni Unite.

Quante lotte, quanto cammino hanno fatto le donne prima di ottenere, non del tutto e non dappertutto purtroppo, la parità) tra uomo e donna!

Basti pensare che, solo dopo la prima guerra mondiale, le donne cominciano a lavorare fuori casa e che il riconoscimento dell’uguaglianza si ebbe dopo il 1968, quando le donne di tutti i paesi occidentali rivendicarono in massa i propri diritti e ottennero, almeno sulla carta, la possibilità di impegnarsi in ogni campo con grande successo: arte, letteratura, scienza, musica, sport, anche se già le donne avevano dimostrato di potere raggiungere risultati grandiosi in ogni campo come Marie Curie e Rita Levi Montalcino.




Certo oggi la condizione della donna è cambiata, migliorata, ma è ancora molto la strada da fare.

Ancora, purtroppo persistono pregiudizi gravi e profondi (guarda la condizione delle donne in Iran, Afghanistan, India, Somaliland, ad esempio, o in tanti paesi africani dove si pratica l’infibulazione, la violenza sessuale e psicologica, contro le donne nel mondo intero e anche in Italia, che si proclama paese civile, dove si verificano femminicidi, solo 120 nel 2022).

La festa delle donne, tuttavia, oggi sta perdendo un po’ del suo significato: ci sono eventi che tendono con serietà a ricordare e riconoscere il valore della donna, ma va prendendo sempre più piede la tendenza a ridurre il significato della festa della donna all’uscita serale di sole donne, lasciando a casa mariti e figli.

Non è solo riduttiva questa abitudine, ma sembra approfondire e quasi a riconoscere la distanza tra uomini e donne invece che rafforzarne la parità.


Il colore ufficiale della festa delle donne è il viola, colore che rappresenta la dignità, ma in Italia è stato sostituito dal giallo, colore della mimosa, quando nel 1946 due donne dell'Unione Donne d'Italia (UDI), Rita Montagnana, antifascista, che aveva preso parte alle lotte partigiane e Teresa Mattei, storica militante comunista, proposero il rametto di mimosa come simbolo in quanto rappresenta bene l'energia, la forza e la tenacia delle donne.    

Sulla scelta della mimosa per festeggiare la donna gira anche un’altra leggenda.

Si racconta che sulle tombe delle operaie morte nell’incendio di Cotton, fiorirono le mimose ed è per questo che sarebbero state scelte come simbolo della festa dedicata alle donne.

La mimosa in effetti è un fiore bellissimo, che rappresenta la delicatezza della femminilità e veniva spesso regalata alle donne.

Secondo una tradizione degli indiani d’America, la mimosa andava regalata alle ragazze, per dimostrare loro amore e passione. Secondo altre usanze questo fiore simboleggia il sole e l’oro, la vita e il bene che trionfano sul male, ma anche la forza e la purezza.

In realtà la mimosa, è bellissima, sfolgorante con il suo giallo oro che riempie il cuore e gli occhi, ma dura pochissimo perchè appassisce presto.

Meraviglia un po’ che sia stata scelta, per rappresentare la tenacia, l’energia e la forza della donna!

Il suo veloce sfiorire potrebbe far pensare che i festeggiamenti non incidono a lungo nella vita quotidiana; presto le lodi della donna, come le mimose appassite, vengono dimenticate e messe da parte, per tornare a concepire pregiudizi con risultati disastrosi.

Ma il valore della donna non appassisce: è sempre florido, perchè le donne hanno dimostrato e dimostrano in tutte le epoche di essere fiere, coraggiose, forti e resilienti.

L’8 marzo dovrebbe essere tutti i giorni.




Donne Calabresi: eroine e non più madri amare ed oscure

La Calabria ha dato i natali a donne che sono entrate nella storia anche se non sono conosciutissime, hanno dato lustro alla nostra terra.

Le donne calabresi, così numerose che si potrebbe scrivere un libro con le loro storie, sono state protagoniste della storia quanto gli uomini, ma ancora oggi le comunità scientifiche ignorano il loro ruolo.

A loro è stata dedicata una serie di sei puntate, intitolata Donne di Calabria, andata in onda su Rai Storia dal 21 giugno fino al 26 luglio, presentata da attrici famose.

La serie ha riscosso moltissimo successo e ha fatto conoscere realtà dell’universo femminile calabrese.

Queste figure hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia civile, politica, intellettuale della Calabria e dell’Italia tutta. 


Queste donne straordinarie smentiscono il mito della donna calabrese arretrata, abituata ai più svariati soprusi, e soprattutto condannata alla più nera ignoranza, perchè le era negato l’accesso all’istruzione.

“ La Calabria è una regione che ha attraversato il tempo in una maniera molto diversa rispetto all’Italia ed è tuttora una regione che si dibatte fra una enorme ricchezza culturale sotterranea ed anche una straordinaria capacità delle sue donne di essere guerriere, lottatrici, presenti, protagoniste, di ottenere quello che vogliono portando una tradizionale dominanza domestica al di fuori delle mura domestiche. Però è anche una regione che, per molti versi, si dibatte ancora in una forma di legame ancestrale ai ruoli tradizionali”.
(Giulia Blasi)



Le donne che vi presentiamo danno una visione diversa della donna calabrese, che ha dato vita ad una grande trasformazione culturale e politica, dimostrando che le donne sanno farsi valere, sanno affrontare sacrifici e battaglie, per ritagliarsi un posto importante nella storia e sanno essere da input per un cambiamento di mentalità, senza perdere nulla della propria femminilità.


Ecco le storie di alcune di queste donne eroiche calabresi


Nata a Fuscaldo (provincia di Cosenza) nel 1920, giovanissima emigrò in Argentina con la sua famiglia.

Si sposò e condusse una vita tranquilla, fino all’arresto di uno dei suoi quattro figli. Impegnò tutte le sue forze in una battaglia, per ottenere la libertà del figlio e i diritti per tutti i cittadini. Venne arrestata dal regime militare argentino, torturata per mesi e alla fine gettata dall’aereo, ancora viva, nell’Oceano Atlantico, diventando una desaparecida. Rimane come simbolo del coraggio della donna.

Scienziata e neurologa di fama mondiale, fece notevoli scoperte su l’Alzheimer

E’ nata a Girifalco (provincia di Catanzaro) nel 1955.

Dopo la laurea in medicina conseguita nel 1979 e la specializzazione all’università di Napoli, scelse una via diversa da quella sognata per lei dalla famiglia, che avrebbe voluto vederla sistemata presso l’Istituto Pascale, diretto allora da un cugino materno.

Amalia scelse la ricerca e cominciò a lavorare presso il Reparto di Neurologia del “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro.

Gli studi sulle forme ereditarie di Alzheimer la conducono infatti all’individuazione del gene, che soprattutto ne causa la trasmissione. In seguito ai suoi studi e scoperte, a Lamezia Terme nel 1996, nacque il Centro regionale di Neurogenetica, di cui attualmente è direttrice.


Nata a Reggio Calabria nel 1931, è stata una delle più importanti giornaliste italiane.

Ha avuto il coraggio di affrontare e vincere l’opposizione della famiglia, riuscendo a realizzare il suo sogno, quello di diventare giornalista.

Si trasferì a Roma e riuscì nel suo scopo, collaborando e diventando direttrice dei più importanti giornali d’Italia, tra cui Paese Sera, la Stampa, il Messaggero, l’Unità.

Fu la prima a raccontare con obiettività i moti del ‘70, “la rivolta di Reggio”, una rivolta che la sinistra non capì…una rivolta da tutti considerata fascista, ma che fascista non era, almeno all’inizio”
(R. Pino)

È stata anche scrittrice e convinta femminista.

Svolse un ruolo centrale nella cultura italiana prima e dopo il Sessantotto con Camilla Cederna ed Oriana Fallaci.

 Il suo motto era: “Vado, vedo, scrivo”. È morta a Roma il 5 novembre 2015.

Nata a Zagarise (provincia di Catanzaro) nel 1712, è stata accusata di essere una strega e di aver causato, con la sua magia, la morte di un uomo.

Ma la difesa di un giovane avvocato di Catanzaro, Giuseppe Raffaeli, riuscì a dimostrare l’innocenza della sua assistita.

La donna fu assolta, diventando un’eroina civile.

È stata la prima donna calabrese a entrare in Parlamento, nonché la prima donna d’Italia a essere eletta nelle liste del Movimento Sociale Italiano.

Nelle file del MSI ha conquistato un ruolo di leader, grazie al suo impegno in ogni attività e alla sua abilità nell’arte della retorica, che in un passato lontano, quando alle donne non era consentito di parlare, caratterizzò Giugni Lattari.

Allieva di Benedetto Croce, da cui ereditò l’arte della retorica, seppe utilizzare questa abilità sapientemente, per denunciare le ingiustizie, la disuguaglianze e soprattutto l’ignoranza in cui l’Italia versava ancora.

Insegnante molto dotata, era nota anche per le sue lezioni magistrali; la sua preparazione spaziava dall’arte alla letteratura ed alla poesia, che declamava a memoria.

Attivò diverse proposte di legge a favore della scuola, salvò l’industria metallurgica in Calabria, cercò di realizzare porti, strade e ferrovie nella nostra Regione.

Fu donna esemplare, che ha lavorato per veder fiorire questa Terra. Con la sua formazione attraverso la scuola e l’università, si propose sempre di realizzare obiettivi positivi per il sud. “Crotone mia” era la sua espressione preferita, che ripeteva spesso durante i comizi, con la proverbiale veemenza oratoria.

Contadina calabrese, era nativa di Calabricata, all'epoca parte del comune di Albi, oggi di Sellia Marina. Divenne nota per essere stata la prima vittima della lotta al latifondo in Calabria. 

La legge Gullo del 1944 aveva decretato l'assegnazione di alcune terre facenti parte di vari latifondi ai contadini che, riuniti in cooperative, li coltivavano.

Il provvedimento fu ostacolato dai latifondisti calabresi, che vedevano nei nuovi proprietari contadini degli usurpatori.      

Questa situazione causò diversi scontri violenti, i primi dei quali si verificarono a Calabricata nel 1946. 

Il 28 novembre di quell'anno Giuditta Levato si unì a un gruppo di persone, che si scontrò con Pietro Mazza, latifondista del luogo, che impediva ai contadini di coltivare i campi a loro assegnati, facendovi pascolare una mandria di buoi.     

Durante la protesta, in circostanze mai del tutto chiarite, dal fucile di una persona al servizio del Mazza partì un colpo, che raggiunse la donna all'addome.

Fu trasportata prima a casa e subito dopo in ospedale, ma inutilmente.
Morì all'età di 31 anni, mentre era incinta di sette mesi del suo terzo figlio.

Donna dal coraggio fuori dal comune, nata a Siderno, è stata riconosciuta partigiana il 9 settembre 1943.

Insieme al marito, ha combattuto i fascisti, in nome della libertà.        

Furono entrambi arrestati, in seguito al tradimento di un contadino, loro amico, per cinque chili di sale.

Hanno sfiorato più volte di la morte, ma alla fine sono riusciti a salvarsi.       

Morì il 30 settembre 2008, per un cancro ed anche durante la malattia dimostrò un coraggio strabiliante, che meravigliò medici e familiari.

Si iscrisse giovanissima al PCI, e nella scuola del partito, applicandosi anche negli studi, conseguì in poco tempo la licenza media e il diploma dell'Istituto Tecnico Femminile.

Svolse diversi incarichi: quello di dirigente della federazione del partito a Cosenza, di segretario provinciale del CNA e di consigliere comunale di Cosenza sociale del dopoguerra.

Subì processi ed arresti per violazione del vecchio Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che più tardi la Corte Costituzionale abolì parzialmente per incompatibilità con la Costituzione.

Protagonista della lotta per l’emancipazione femminile, istituì la prima biblioteca per le donne, la “Biblioteca Donne Bruzie”, simbolo del suo amore per la cultura e per l’arte.

Lottò sempre contro le ingiustizie sociali e le diseguaglianze; fu sindaco del suo paese per 20 anni: dal 1964 al 1984, anno della sua prematura morte. Il suo nome è reso celebre da un particolare episodio: quando aveva 23 anni, a Roma, incontrò il celebre pittore Pablo Picasso, che incantato dalla sua bellezza le fece un ritratto, dal titolo “Jeunne fille de Calabre”.


Nata a Rombiolo (provincia di Vibo Valentia) nel 1897, sfidò tutta la sua famiglia perché voleva iscriversi all’università.

Riuscì nel suo intento, si iscrisse alla facoltà di Scienze naturali alla Sapienza di Roma, laureandosi col massimo dei voti.

Proseguì la sua vita insegnando scienze nelle scuole superiori e viaggiando.

A fine carriera, ricevette la Medaglia d’oro dal Ministro della Pubblica Istruzione.

Laureata in giurisprudenza, fu eletta sindaco, all’unanimità, il 24 marzo 1946, nel comune di San Sosti (provincia di Cosenza) all’età di 24 anni.

Si impegnò molto, per migliorare le sorti del suo paese e la vita della gente. Si avvalse dell’amicizia nata ai tempi del collegio romano con le figlie di Alcide De Gasperi, per ottenere i fondi e far ricostruire la maggior parte delle opere distrutte dalla guerra, come il campanile, i mercati, il cinema, le scuole, e costruì molte nuove infrastrutture, che arricchirono il paese cosentino. Fece costruire nuove scuole, strade, l’acquedotto, il mercato coperto e una struttura per le famiglie meno abbienti.

Animata da profondo senso civico e volontà di aiutare le classi più disagiate, promosse l’alfabetizzazione, la costruzione di asili nido e dell’orologio cittadino, per permettere ai contadini di non lavorare oltre le ore per le quali venivano pagati.

 A fine legislatura, nel 1952, lasciò un bilancio consuntivo con tutte le opere realizzate, scusandosi per quello che non era riuscita a fare.

Morì il 7 dicembre 1979 a soli 57 anni, non stancandosi di testimoniare  l’amore per la propria Regione.

Nonostante tutte le opere compiute, ha rischiato di cadere nell’oblio, ma nel 2016, l’allora presidente della Camera Boldrini, decise di inaugurare la stanza delle donne al Parlamento, includendo tutte le donne, che hanno avuto un ruolo di rilievo nella Repubblica Italiana, tra cui le prime donne sindaco.

 

Fu una delle pioniere del femminismo italiano ed europeo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, nel pieno della Belle Epoque.

Sposò il marchese calabrese Francesco Maria Pellicano, deputato al Parlamento, con cui si trasferì a Gioiosa Jonica, facendo spola tra Castellammare di Stabia e Roma, dove frequentò il mondo culturale romano dell’epoca.

Nobildonna colta e raffinata, scrisse, con lo pseudonimo di Jane Grey, di relazioni e di divorzio, lottò per il voto alle donne, denunciò la violenza domestica e la disparità salariale, facendosi portavoce di tutte le angherie subite dalle donne, che non sapevano difendersi.

Corrispondente della rivista mensile “Nuova Antologia”, pubblicò un’indagine sulle donne illustri di Reggio Calabria e svolse un’inchiesta sulla condizione delle operaie delle industrie del capoluogo.

Nel 1909 si recò a Londra in qualità di socia delegata del Consiglio Nazionale Donne Italiane (CNDI), per partecipare al Congresso Internazionale femminile, dove le sue proposte riscossero un enorme successo, non solo per i contenuti, ma anche per le sue grandi doti oratorie.


CURIOSITA'

La Margherita, un giornale per le donne calabresi

Il 10 maggio 1877 alcune cosentine diedero alle stampe La MargheritaIl giornale si proponeva l’istruzione delle donne ma ancora prima di uscire suscitò apprensione e preoccupazione.

Al punto che il suo responsabile nell’editoriale del primo numero dal titolo Ai babbi e alle mamme dovette tranquillizzare i genitori precisando che il giornale non voleva offuscare il candore delle loro fanciulle.

«Un giornale per le nostre figliole redatto da giovani! Ma se n’è vista mai una simile a Cosenza? Piano, babbi e mamme carissime, non vi spaventate, non aggrottate il sopracciglio; e permettete prima che vi accigliate a farci una ramanzina, qualche spiegazione. Vero, in Cosenza non era mai sorta a nessuno l’idea di pubblicare una rivista educativa e istruttiva, dedicata esclusivamente alle Donne; e in verità è stato un grave torto che s’è fatto loro: quasi che in questo povero angolo di Calabria, non fossero degli ingegni eletti, che comprendono e sentono eminentemente. E se fino a ad oggi le nostre donne giacquero dimenticate, oscure, neglette, è tempo oramai che si sveglino, che si muovano, e ci aiutino a innaffiare questo, nascente fiore che si chiama Margherita».
Da I Calabresi

 

IL CORAGGIO DELLE DONNE CALABRESI

Le due Guerre mondiali

Le donne calabresi erano coraggiose e spesso si ribellavano ai soprusi. Nella prima e seconda Guerra mondiale migliaia di popolane scesero in piazza, per chiedere il rientro dei mariti dal fronte e per denunciare la penuria di generi di prima necessità, l’aumento indiscriminato dei prezzi, l’inadeguatezza dei sussidi e la mancanza di assistenza alle famiglie.

Sventolando bandiere tricolori giravano per le vie e con loro portavano i figli per rendere la manifestazione più rumorosa e scoraggiare l’uso delle armi da parte dei soldati. A volte queste rimostranze sfociavano in episodi violenti, come occupazioni di municipi, saccheggi di negozi, aggressioni agli amministratori e ai «milionari» che non davano un centesimo per i bisognosi e ingrassavano speculando sulla guerra.

Le donne calabresi in Africa

Seppure avvezze a sopportare stenti e sacrifici le donne non esitavano a lasciare la loro terra quando intravedevano la possibilità di migliorare le loro condizioni di vita. Intorno alla metà dell’Ottocento, centinaia di donne della provincia di Cosenza partivano per l’Algeria e la Tunisia; quelle della provincia di Catanzaro, imbarcandosi a Pizzo, si recavano al Cairo o ad Alessandria d’Egitto. In Africa facevano soprattutto le balie, ma lavoravano anche come domestiche, cameriere e stiratrici in case private e alberghi. Gli studiosi del tempo si mostravano scandalizzati da questo flusso migratorio, che abbatteva la credenza secondo la quale le donne vivevano in condizioni di totale reclusione.

Scalise scrive che si trattava di un grosso esodo di donne che, appena dopo il parto, lasciavano i figli e, col seno turgido e riboccante di latte, andavano a nutrire i nati delle anemiche inglesi che abitavano nel paese dei faraoni.  Lo studioso rileva che, fatto insolito e quasi unico, nel 1881 in provincia di Catanzaro il numero dei coniugati presenti al momento del censimento era superiore a quello delle coniugate.           
da I Calabresi


Le donne calabresi del Risorgimento

Francesca Zupi di Fiumefreddo Bruzio (CS), di vent'anni, nata da Alessandro ed Elisabetta Pellegrini, né nobile, né ricca, ma donna del popolo, animata da grande ardore patrio, seguì i suoi fratelli Achille e Giuseppe Zupi che militavano con Garibaldi e, indossata la divisa, si munì di due revolvers e di altre armi e si recò a combattere nella battaglia del Volturno, decisa a morire per la causa italiana. Si pose agli avamposti del primo reggimento calabrese comandato dal colonnello Pace, dando prova di grande coraggio e spirito di sacrificio.       

“Fu la prima che si lanciò nella mischia scaricando i suoi revolvers contro gli avversari”. Una mitraglia le scoppiò davanti e lei cadde tramortita, ma non uccisa, tanto che riuscì ad alzarsi e tornare al combattimento.

Menotti Garibaldi, primogenito di Anita e Giuseppe Garibaldi, era presente e l'apprezzò molto per il suo coraggio. Volle premiarla nominandola sottotenente. Una rarità per una donna a quel tempo divenire sottotenente!

L'episodio è riportato pure da P. Camardella, I Calabresi della Spedizione dei Mille, Roma 1913.


Le donne partigiane calabresi

Le donne partigiane calabresi erano casalinghe, operaie, insegnanti. Tra l’altro, alcune di loro erano giovanissime, ma purtroppo nonostante oggi sia facile reperire informazioni nel web, di loro non si conosce quasi nulla. Il loro apporto nell’opporsi al nazi fascismo si è praticamente perso nell’oblio.

Cecilia, Angiolina, Nina, Beba, questi sono alcuni dei nomi di battaglia di ragazze e donne calabresi che, in un futuro dell’Italia, di nuovo marcato al maschile, ritornarono al silenzio per rioccupare un ruolo in famiglia visto che, per tradizione, i luoghi di lavoro e i poteri decisionali, erano rioccupati dagli uomini.

 

La struttura porta il nome di una donna vibonese che sognava di dare una speranza a una terra afflitta dalla miseria.

Ed è qui, a Namugongo, in un angolo sperduto e lontanissimo dell’Africa, il Congo da una parte, il Sudan del Sud dall’altra, Etiopia Kenia e Tanzania dall’altra ancora, che sorge un piccolo-grande Ospedale che porta i colori calabresi, grazie ad un’insegnante elementare di Vibo Marina, che è stata riferimento carismatico per molti alunni e per molte donne della sua città e del suo comprensorio. Molti la ricordano ancora come donna di grande operatività, eternamente disponibile e al servizio di una comunità.

Una donna moderna, Angelina De Maria intellettuale a suo modo rivoluzionaria, cristiana nel senso più vero della parola. Attivissima volontaria in parrocchia, laica consacrata del Terzo Ordine francescano, si era sempre dedicata di opere di bene. 

Colpita da un cancro al seno, lasciò un testamento spirituale in cui spiegava che avrebbe voluto, che con i suoi beni, fosse realizzato un sogno, quello di un ospedale per i più poveri in Africa. Per interessamento di un suo zio quell’ospedale fu realizzato con i soldi lasciati da Angelina.

Il miracolo di Zia Angelina aveva quindi, finalmente, preso corpo e si era perfettamente compiuto, forse molto più e meglio di quanto lei stessa potesse avere sognato o immaginato in vita.

«Desidero che mia figlia si chiami Angelina», chiederà una delle prime donne africane che aveva lì partorito al dottore Fiorucci.
«Ma non è un nome ugandese», le rispose l’ostetrica.

E lei di rimando, con una determinazione ed una saggezza straordinaria:

«Voglio donare alla mia bambina il nome della signora italiana che ha costruito per noi questa Clinica! Per noi è stata la salvezza.”


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