Articolo del Ministro della Federazione Russa Sergey Lavrov “L’osservanza dei principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro totalità e interconnessione è la chiave per la pace e la stabilità sul piano internazionale”

Articolo del Ministro della Federazione Russa Sergey Lavrov “L’osservanza dei principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro totalità e interconnessione è la chiave per la pace e la stabilità sul piano internazionale”

Ambasciata della Federazione Russa nella Repubblica Italiana

Il dibattito politico generale conclusosi di recente nell’ambito della 78° sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU ha confermato in maniera ben chiara che il mondo sta vivendo profondi e radicali cambiamenti.

Davanti ai nostri occhi sta prendendo forma un nuovo ordine mondiale multipolare, più giusto, che riflette la grande varietà delle culture e delle civiltà del mondo. I contorni del futuro nascono dalla lotta. La Maggioranza mondiale, che rappresenta l’85% della popolazione del pianeta, si schiera a favore di una distribuzione più equa dei beni globali, del rispetto della molteplicità delle nostre civiltà e della conseguente democratizzazione della vita internazionale. Dall’altra parte, un ristretto gruppo di Paesi occidentali guidato dagli Stati Uniti punta, con metodi neocoloniali, a frenare il corso naturale degli eventi e a mantenere il suo sempre più debole dominio.

Ormai da tempo, il segno distintivo dell’Occidente collettivo è diventato il rigetto del principio dell’uguaglianza dei diritti, assieme alla totale incapacità, a ciò legata, di negoziare e di rispettare gli accordi. Abituati a guardare il resto del mondo dall’alto in basso, in linea con la logica del “leader” e del “seguace”, gli americani e i loro Paesi satelliti europei assumono obblighi di continuo, sovente anche in forma scritta e giuridicamente vincolanti. Salvo poi, semplicemente, non rispettarli. Come ha fatto notare il Presidente Vladimir Putin, l’Occidente è un vero e proprio “impero della menzogna”. Noi, come anche molti altri Paesi, questo lo sappiamo: e non per sentito dire. È sufficiente ricordare come, ancor prima della capitolazione della Germania nazista, i nostri alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, cioè Washington e Londra, stessero già pianificando l’operazione militare “Unthinkable” contro l’URSS; mentre, nel 1949, gli Stati Uniti stavano elaborando dei piani riguardanti attacchi nucleari ai danni dell’Unione Sovietica, i quali furono sventati soltanto grazie al fatto che Mosca predispose i propri armamenti per un’eventuale ritorsione.

Dopo la fine della Guerra Fredda, quando l’URSS giocò un ruolo determinante nell’unificazione della Germania e nell’armonizzazione dei parametri della nuova architettura di sicurezza europea, furono date, prima alle autorità sovietiche e poi a quelle russe, concrete rassicurazioni in merito al fatto che la NATO non si sarebbe ampliata verso Est. I documenti relativi a quei negoziati sono presenti sia nei nostri archivi che in quelli occidentali. Tuttavia, tali rassicurazioni da parte dei leader occidentali si sono rivelate un inganno, perché da parte loro non c’era l’intenzione di attenersi ad esse. Non si sono mai sentiti in imbarazzo per il fatto che, con l’avvicinamento della NATO ai confini russi, sono stati brutalmente violati anche gli impegni ufficiali assunti ai vertici tra il 1999 e il 2010 tramite l’OSCE, i quali imponevano di non rafforzare la propria sicurezza a spese di quella altrui e di scongiurare il predominio politico-militare in Europa da parte di Paesi, gruppi di Paesi o organizzazioni. La NATO, imperterrita, ha fatto e sta continuando a fare esattamente ciò che si era impegnata a non fare.

Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, le nostre proposte in merito alla firma di alcuni accordi con gli Stati Uniti e la NATO riguardanti le reciproche garanzie di sicurezza in Europa, senza che la posizione non allineata dell’Ucraina venisse alterata, sono state respinte con arroganza. L’Occidente ha proseguito sistematicamente con la militarizzazione del regime di Kiev, che è stato condotto al potere a seguito di un sanguinoso colpo di stato e che è stato sfruttato come testa di sbarco per lanciare minacce militari dirette al nostro Paese, ma anche per l’annientamento del nostro patrimonio storico su territori di legittimo interesse russo.

Episodi quali la recente serie di esercitazioni congiunte svolte dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei nell’ambito della NATO, tra cui anche la simulazione di possibili scenari di utilizzo degli armamenti nucleari sul territorio della Federazione Russa, non si erano più verificati dalla fine della Guerra Fredda. L’intento dichiarato di infliggere alla Russia una “sconfitta strategica” ha offuscato totalmente la vista a questi politici irresponsabili, i quali sono esaltati dalla propria impunità e hanno ormai perso anche il più basilare istinto di autoconservazione.

Una nuova, pericolosa manifestazione dell’espansionismo della NATO è emersa dai tentativi di estendere l’area di responsabilità del blocco a tutto l’emisfero orientale in nome dell’astuto slogan dell’“indivisibilità della sicurezza della regione euro-atlantica e indo-pacifica”. Per raggiungere lo scopo, Washington sta istituendo mini alleanze a carattere politico-militare poste sotto il suo controllo quali l’AUKUS, il trio costituito da Stati Uniti, Giappone e Repubblica di Corea, o ancora il quartetto composto da Tokyo, Seoul, Canberra e Wellington. Attira quindi i suoi partecipanti verso una cooperazione pratica con la NATO, la quale sta introducendo la sua infrastruttura sul teatro del Pacifico. La palese finalità di tali sforzi di contrastare la Russia e la Cina, per spingere al collasso un’architettura regionale inclusiva e basata sul consenso come quella sviluppatasi attorno all’ASEAN, rischia di generare un nuovo esplosivo focolaio di tensione geopolitica, che va ad aggiungersi a quello europeo, già sull’orlo della deflagrazione.

Si ha la netta sensazione che gli Stati Uniti, assieme al “collettivo occidentale“ ad essi completamente soggiogato, abbiano deciso di proiettare la “dottrina Monroe” su scala globale. Tali propositi sono tanto illusori quanto estremamente pericolosi, ma ciò non basta a fermare gli ideologi di questa nuova versione della “Pax Americana”.

Siamo arrivati al punto in cui le élite al comando in Occidente, in violazione della Carta delle Nazioni Unite, danno indicazioni agli altri Paesi in merito a come e con chi costruire legami interstatali. In sostanza, viene loro negato il diritto di avere i propri interessi nazionali e una politica estera indipendente. Nella Dichiarazione di Vilnius tra i membri dell’Alleanza Atlantica, il “sempre più solido partenariato tra Russia e Cina” viene definito come una “minaccia alla NATO”. Durante il suo recente intervento alla presenza degli Ambasciatori francesi, Emmanuel Macron ha espresso sincera preoccupazione in merito all’ampliamento dei BRICS, giudicando tale fatto come una dimostrazione del “complicarsi della situazione sul piano internazionale, cosa che preannuncia il rischio di un indebolimento dell’Occidente e, in particolare, dell’Europa... È in corso una rinegoziazione dell’ordine mondiale, delle diverse forme della sua impostazione, in cui l’Occidente ha occupato e occupa tuttora una posizione dominante”. Ecco la confessione: se qualcuno ha intenzione di andare da qualche parte senza di noi, o stringe rapporti di amicizia senza di noi o senza il nostro permesso, ciò verrà visto come una minaccia al nostro dominio. L’avanzamento della NATO nella regione dell’Asia-Pacifico è un bene, mentre l’espansione dei BRICS rappresenta un pericolo.

L’Occidente collettivo guidato dagli Stati Uniti ha assunto arbitrariamente il ruolo di arbitro del destino dell’intera umanità e, spinto dal complesso di esclusivismo, ha preso a ignorare sempre di più l’eredità lasciata dai padri fondatori dell’ONU. E si è risolto a sostituire l’architettura dell’ordine mondiale incentrata sulle Nazioni Unite con una sorta di “ordine basato sulle regole”. Nessuno le ha viste queste regole (o, per meglio dire, loro non le hanno mostrate a nessuno), ma se si osserva la falsità e l’ipocrisia delle azioni intraprese dagli anglosassoni e dagli altri ingegneri geopolitici, ci si può fare un’idea ben precisa di come questa impresa si traduca nella pratica. A parole, senza negare la necessità di rispettare le norme e i principi della Carta delle Nazioni Unite, l’Occidente vi si pone sempre con atteggiamento selettivo, procedendo caso per caso, e tirando fuori solamente ciò che nella contingenza del momento può servire alle sue egoistiche esigenze geopolitiche. Eppure, tutti i principi della Carta dovrebbero essere rispettati non in maniera selettiva, ma bensì nella loro totalità, interezza e interconnessione, nell’interesse di una regolamentazione equa delle relazioni a livello internazionale basata sull’uguaglianza sovrana degli Stati, sulla non ingerenza nei loro affari interni, sul rispetto dell’integrità territoriale, sull’uguaglianza dei diritti e l’autodeterminazione dei popoli, sul rispetto delle libertà fondamentali di tutti e sull’obbligo di attuare le decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nonché di rafforzare l’ONU in quanto centro di coordinamento.

È piuttosto significativo il fatto che mai in nessuna situazione Washington, Londra e i loro alleati non solo non adottino, ma non menzionino proprio il principio fondamentale della Carta: “L’ONU è fondata sull’uguaglianza sovrana degli Stati membri”.

Tale principio mira a garantire a tutti i Paesi un posto degno del mondo, indipendentemente dalle loro dimensioni, dalla forma di governo e dal loro sistema politico o socio-economico. L’Occidente invece sta cercando di dividere il mondo in “democrazie”, alle quali tutto è permesso, e “gli altri”, obbligati a servire gli interessi del “miliardo d’oro”. La quintessenza del complesso di esclusivismo dell’Occidente è rappresentata dalla dichiarazione pubblica del Capo della diplomazia dell’Unione Europea Josep Borrell, secondo cui “l’Europa è un giardino dell’Eden, mentre tutto il resto del mondo è giungla”. Non è certo “uguaglianza sovrana” questa, ma bensì puro colonialismo.

L’Occidente collettivo viola costantemente il principio fondamentale della non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi. Gli esempi sono molteplici: si va dall’America Centrale alla Jugoslavia, fino all’Iraq e alla Libia. Adesso, l’attenzione è puntata sull’espansione sui territori dell’ex Unione Sovietica.

È risaputo che, dal momento del crollo dell’URSS, gli Stati Uniti hanno apertamente deciso di prendere il controllo dell’Ucraina. Come riconosceva pubblicamente e anche con un certo orgoglio l’attuale Vice Segretario di Stato ad interim degli USA Victoria Nuland nel 2013, Washington ha speso 5 miliardi di dollari per “allevare” dei politici obbedienti a Kiev. Tra il 2004 e il 2005, l’Occidente, con l’obiettivo di condurre al potere il candidato filoamericano, ha autorizzato il primo colpo di stato a Kiev, costringendo la Corte Costituzionale ucraina a prendere la decisione, priva di fondamento giuridico, di indire un terzo turno di elezioni, non previsto dalla legge fondamentale dello Stato. Un’ingerenza ancor più brutale negli affari interni dello Stato si è verificata durante la “seconda Maidan”, tra il 2013 e il 2014. In quell’occasione, tutta una schiera di avventurieri occidentali incoraggiava in maniera diretta i partecipanti alle manifestazioni antigovernative a compiere atti di violenza.

La stessa Victoria Nuland discuteva con l’Ambasciatore USA a Kiev la composizione del futuro governo che sarebbe stato formato dai fautori del colpo di stato. E allo stesso tempo, indicava all’Unione Europea quale fosse il suo posto nella politica mondiale. Il significato era “non immischiatevi in ciò che non vi riguarda”. Nel febbraio 2014, personaggi selezionati dagli americani furono i partecipanti chiave della sanguinosa presa del potere, la quale, vorrei ricordare, fu organizzata il giorno dopo il raggiungimento dell’accordo, mediato da Germania, Polonia e Francia, tra il Presidente dell’Ucraina legalmente eletto V.Yanukovich e i leader dell’opposizione. Il principio sancito dalla Carta dell’ONU riguardante la non ingerenza negli affari interni di un Paese è stato così più volte calpestato.

Subito dopo il colpo di stato, i suoi fautori dichiararono che la loro priorità assoluta era quella di limitare i diritti dei cittadini ucraini di lingua russa. Mentre gli abitanti della Crimea e del sud-est del Paese, rifiutatisi di accettare il risultato anticostituzionale di questa presa di potere, furono dichiarati terroristi e contro di loro fu lanciata un’operazione punitiva. In risposta a ciò, e in piena conformità con il principio di uguaglianza dei diritti e di autodeterminazione dei popoli sancito nel paragrafo 2 dell’Articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite, in Crimea e in Donbass si svolsero dei referendum.

I diplomatici e politici occidentali, quando si tratta dell’Ucraina, evitano accuratamente questa importantissima norma del diritto internazionale, nel tentativo di ridurre la questione e la sostanza di quanto sta accadendo all’inammissibilità della violazione dell’integrità territoriale.

In relazione a questo, è importante sottolineare che nella Dichiarazione delle Nazioni Unite riguardante i principi del diritto internazionale, adottata all’unanimità nel 1970, e i cui principi riguardano i rapporti di amicizia e la cooperazione tra Paesi in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, si stabilisce che il principio del rispetto dell’integrità territoriale è applicabile ai “Paesi che operano nel rispetto del principio di uguaglianza dei diritti e di autodeterminazione dei popoli [...] e che, pertanto, hanno governi i quali rappresentano [...] tutta la popolazione che vive sul loro territorio”. Il fatto che i neonazisti ucraini che hanno preso il potere a Kiev a seguito del colpo di stato non rappresentassero la popolazione della Crimea e del Donbass è un dato di fatto. Mentre il sostegno incondizionato da parte delle capitali occidentali alle azioni del governo criminale di Kiev non è altro che una violazione del principio di autodeterminazione, sulla scia di una grave ingerenza negli affari interni del Paese.

L’adozione di leggi razziali che proibivano tutto ciò che riguardava la Russia (ovvero l’istruzione, i media, la cultura, imponevano la distruzione di libri e monumenti, la messa al bando della Chiesa Ortodossa ucraina e la confisca delle sue proprietà), avvenuta a seguito del colpo di stato negli anni del governo di Poroshenko e poi di Zelensky, costituisce una palese violazione del paragrafo 3 dell’Articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite riguardante il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di ognuno, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione. Senza parlare poi del fatto che tali azioni entravano direttamente in contraddizione con la Costituzione ucraina, nella quale viene sancito l’obbligo del Paese di rispettare i diritti dei russi e delle altre minoranze nazionali.

Kiev è stata costretta ad ottemperare agli obblighi internazionali assunti ai sensi del “Pacchetto di misure per l’attuazione degli Accordi di Minsk” del 12 febbraio 2015, approvato per mezzo della Risoluzione speciale 2202 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e nel pieno rispetto dell’Articolo 36 della Carta delle Nazioni Unite, che autorizza “qualsiasi procedura che sia già stata accettata dalle parti per la risoluzione di una controversia”. Nel caso in questione, le parti coinvolte erano Kiev, la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Lugansk. Tuttavia, l’anno scorso tutti i firmatari degli Accordi di Minsk, ad eccezione del Presidente Vladimir Putin (cioè Angela Merkel, François Hollande e Petro Poroshenko) hanno riconosciuto pubblicamente, e non senza una certa soddisfazione, che quando hanno firmato questo documento non avevano l’intenzione di ottemperare ad esso. Hanno semplicemente cercato di guadagnare tempo per il rafforzamento del potenziale militare ucraino e per fornire all’Ucraina armi in quantità contro la Russia. Per tutti questi anni l’UE e la NATO hanno appoggiato in maniera diretta il sabotaggio degli Accordi di Minsk, spingendo il regime di Kiev verso una soluzione forzata al “problema del Donbass”. Ciò è stato fatto in violazione dell’Articolo 25 della Carta dell’ONU, in base al quale tutti i membri delle Nazioni Unite hanno l’obbligo di “attenersi alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e ad attuarle”.

Vorrei ricordare che, all’interno del pacchetto degli Accordi di Minsk i leader di Russia, Germania, Francia e Ucraina hanno firmato anche una dichiarazione nella quale Berlino e Parigi si assumevano l’impegno di fare molte cose, tra cui anche di contribuire al ripristino del sistema bancario del Donbass. Ma non hanno mosso nemmeno un dito. Hanno semplicemente assistito a come Poroshenko, contravvenendo ai suoi obblighi, dichiarava il blocco commerciale, economico e dei trasporti nel Donbass. In quella medesima dichiarazione, Berlino e Parigi affermavano che avrebbero contribuito al rafforzamento di una cooperazione trilaterale composta da Russia, Ucraina e Unione Europea per la risoluzione pratica delle questioni che preoccupavano la Russia in ambito commerciale, e anche che avrebbero promosso la “creazione di uno spazio economico e umanitario comune che si estendesse dall’Atlantico fino all’Oceano Pacifico”. Anche questa dichiarazione fu approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed era soggetta ad attuazione in conformità con l’Articolo 25 della Carta dell’ONU sopra menzionato. Tuttavia, anche questo impegno assunto dai leader di Francia e Germania si è rivelato menzognero, nonché un’ennesima violazione dei principi della Carta dell’ONU.

Come il leggendario Ministro degli Affari Esseri dell’URSS Andrej Gromyko fece giustamente notare più volte, “meglio dieci anni di negoziati che un solo giorno di guerra”. Seguendo questo dettame, noi per molti anni abbiamo condotto negoziati, abbiamo cercato di concludere accordi nell’ambito della sicurezza europea, abbiamo approvato nel 1997 l’“Atto istitutivo Russia-NATO”, abbiamo approvato ai vertici le dichiarazioni OSCE sull’indivisibilità della sicurezza, e a partire dal 2015 abbiamo insistito sull’attuazione incondizionata degli Accordi di Minsk, frutto dei negoziati. E tutto nel pieno rispetto della Carta dell’ONU, la quale esige di “garantire condizioni di equità e di rispetto degli obblighi scaturiti dagli accordi e da altre fonti di diritto internazionale”. I colleghi occidentali hanno calpestato anche questo principio nel momento in cui sottoscrivevano documenti, sapendo già che non li avrebbero rispettati. Oggi, nella retorica dei nostri avversari, sentiamo soltanto slogan: “invasione, aggressione, annessione”. Nemmeno una parola sulle cause profonde del problema, o su come per lunghi anni abbiano alimentato un regime dichiaratamente nazista, riscrivendo apertamente gli esiti della Seconda Guerra Mondiale e la storia dei loro stessi popoli. L’Occidente rifugge un dialogo sostanziale, basato sui fatti e sul rispetto di tutti i requisiti sanciti nella Carta dell’ONU. Non possiede argomenti per condurre un dialogo onesto.

Si ha la netta impressione che i rappresentanti dell’Occidente temano le discussioni professionali, le quali smaschererebbero la loro demagogia. E mentre pronunciano formule sull’integrità territoriale dell’Ucraina, le ex potenze coloniali tacciono in merito alle decisioni dell’ONU riguardanti la necessità che Parigi restituisca l’isola “francese” di Mayotte all’Unione delle Isole Comore, e che Londra lasci l’arcipelago delle isole Chagos e avvii dei negoziati con Buenos Aires in merito alle isole Malvine. Questi “paladini” dell’integrità territoriale dell’Ucraina adesso fingono di non ricordare qual è l’essenza degli Accordi di Minsk, la quale consisteva nella riunificazione del Donbass con l’Ucraina, garantendo il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, primo tra tutti il diritto alla propria lingua madre. Ma, avendo sabotato la loro realizzazione, l’Occidente è da ritenersi direttamente responsabile del collasso dell’Ucraina e dell’incitamento alla guerra civile nel Paese.

Tra gli altri principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite, rispettando i quali si sarebbe potuta scongiurare la crisi della sicurezza in Europa e contribuire a concordare misure di consolidamento della fiducia sulla base di un equilibrio tra i vari interessi, cito l’Articolo 52 del Capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite. L’articolo sancisce la necessità di sviluppare una pratica di risoluzione pacifica delle controversie con il supporto delle organizzazioni regionali.

In conformità a questo principio, la Russia, assieme ai suoi alleati, si è sempre espressa a favore del fatto che fossero stabiliti contatti tra l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e la NATO per promuovere l’attuazione pratica delle decisioni prese durante i summit dell’OSCE in merito all’indivisibilità della sicurezza in Europa. Tuttavia, i numerosi appelli rivolti dai più alti organi del CSTO all’Alleanza Nordatlantica sono stati tutti ignorati. Se la NATO non avesse respinto le proposte di cooperazione avanzate dal CSTO, probabilmente ciò avrebbe permesso di evitare molte delle dinamiche negative che hanno portato all’attuale crisi europea a causa del fatto che per decenni ci si è rifiutati di dare ascolto alla Russia, oppure la si è ingannata.

L’ordine mondiale liberale incentrato sull’Occidente sarebbe impensabile senza la logica del “doppio standard”. Quando il principio di autodeterminazione dei popoli si pone in contrapposizione con gli interessi geopolitici dell’Occidente, come ad esempio nel caso dell’espressione della volontà popolare in favore del ritorno alla Russia da parte degli abitanti della Crimea, della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk, nonché delle regioni di Zaporozhye e di Kherson, in Occidente non solo se ne dimenticano, ma condannano senza mezzi termini anche le scelte della popolazione, per poi punirla per mezzo di sanzioni. Quando però ciò va a vantaggio dell’Occidente, l’autodeterminazione viene riconosciuta come “regola” assoluta; basti ricordare il caso del Kosovo, strappato alla Serbia senza, peraltro, che si fosse tenuto nessun tipo di referendum.

Suscita profonda preoccupazione il costante deterioramento della situazione in questa regione della Serbia. La fornitura di armi ai kosovari e l’assistenza a loro fornita da parte della NATO ai fini di costituire un esercito violano gravemente la fondamentale Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza ONU. Tutto il mondo vede come nei Balcani sia sta ripetendo la triste storia degli Accordi di Minsk in Ucraina; accordi che prevedevano il riconoscimento di uno status speciale per le repubbliche del Donbass, e che Kiev ha apertamente sabotato con l’appoggio dell’Occidente. Adesso l’UE non vuole, e neppure può costringere i suoi protetti kosovari a rispettare gli accordi intercorsi tra Belgrado e Pristina nel 2013, riguardanti l’istituzione della Comunità della municipalità serbe del Kosovo, che godrebbe di diritti speciali in merito alla propria lingua e alle proprie tradizioni. In entrambi i casi, l’UE si è fatta garante degli accordi, e, a quanto sembra, la sorte dei due Paesi è stata la medesima. Stesso lo “sponsor”, stesso il risultato.

Ora, Bruxelles, preoccupandosi delle sue ambizioni geopolitiche, impone i suoi “servizi di intermediazione” ad Azerbaigian e Armenia, portando, assieme a Washington, destabilizzazione nel Caucaso meridionale. Adesso che i leader di Erevan e di Baku hanno risolto tra loro la questione del reciproco riconoscimento della sovranità dei due Stati, è giunto il momento di costruire un’esistenza pacifica, e di rafforzare la fiducia reciproca. Il contingente di pace russo è pronto a contribuire a questo in ogni modo possibile.

Nel tentativo di impedire la democratizzazione delle relazioni interstatali, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno privatizzando sempre più sfacciatamente e senza tante cerimonie i Segretariati in seno alle organizzazioni internazionali, e riescono a far passare decisioni riguardanti la creazione di meccanismi a loro subordinati aggirando le procedure stabilite per mezzo di mandati non consensuali, ma rivendicando il diritto di incolpare coloro che, per qualche motivo, non vanno a genio a Washington.

È necessario sottolineare che l’ambito di applicazione dei requisiti della Carta delle Nazioni Unite si estende anche al Segreteriato di questa organizzazione mondiale, il quale, in ottemperanza all’Articolo 100 della stessa Carta, è tenuto ad agire in maniera imparziale, a non accettare indicazioni da nessun governo e, naturalmente, a rispettare il principio dell’uguaglianza sovrana tra i Paesi membri. In relazione a questo, sorgono seri dubbi in merito alle dichiarazioni rilasciate il 29 marzo dal Segretario Generale dell’ONU António Guterres sul fatto che “un governo autocratico non garantisce stabilità, ma bensì catalizza caos e conflitti”, ma invece “le società democratiche forti sono in grado di auto correggersi e di migliorarsi, e possono funzionare da stimolo ai cambiamenti, anche a quelli radicali, senza ricorrere a spargimenti di sangue o alla violenza”. Tornano automaticamente alla memoria i “cambiamenti” portati con le loro imprese aggressive dalle “democrazie forti” in Paesi come la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria e molti altri.

Inoltre, il Segretario Generale ha affermato che: “Loro (le democrazie) costituiscono centri di ampia cooperazione, che affonda le sue radici nei principi di uguaglianza, partecipazione e solidarietà”. È interessante notare come tutto questo sia stato affermato durante il “Summit per la democrazia” indetto dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden al di fuori dell’ambito delle Nazioni Unite; e i cui partecipanti sono stati selezionati dall’amministrazione americana in base alla loro lealtà (tra l’altro non tanto a Washington, quanto al Partito Democratico al potere negli USA). I tentativi di ricorrere a simili forum per discutere di questioni di portata globale contraddicono in maniera diretta il Paragrafo 4 dell’Articolo 1 della Carta dell’ONU, nel quale viene sancita la necessità di “garantire all’Organizzazione il ruolo di centro di coordinamento delle azioni per il raggiungimento di obiettivi comuni”.

Durante quello stesso “Summit per la Democrazia”, il Segretario Generale dell’ONU ha declamato che “la democrazia scaturisce dalla Carta delle Nazioni Unite. Le prime parole che compaiono sulla Carta, “Noi, popoli” rispecchiano la sua fonte di legittimazione fondamentale, e cioè il consenso da parte di coloro che sono governati”. Sarebbe utile mettere in relazione questa tesi con i “trascorsi” del regime di Kiev, il quale ha dichiarato guerra a una parte enorme della propria popolazione, ossia a quei milioni di persone che si sono opposti all’idea di essere governati dai neonazisti russofobi che sono saliti illegittimamente al potere nel Paese e che hanno seppellito gli Accordi di Minsk approvati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, minando così l’integrità territoriale dell’Ucraina.

Parlando dei principi della Carta, si pone la questione riguardante i rapporti tra il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale. L’Occidente collettivo cavalca da tempo e in maniera aggressiva il tema dell’ “abuso del diritto di veto” e, facendo pressioni sui membri delle Nazioni Unite, ha ottenuto che, ogni volta che tale diritto viene esercitato (cosa che l’Occidente provoca intenzionalmente sempre più spesso) la relativa tematica debba essere presa in esame dall’Assemblea Generale. Ciò per noi non rappresenta un problema, dal momento che l’approccio della Russia a tutte le questioni all’ordine del giorno è aperto, noi non abbiamo nulla da nascondere e, dunque, non è un problema esporre di nuovo la nostra posizione. Inoltre, il ricorso al veto è uno strumento assolutamente legittimo, previsto dalla Carta delle Nazioni Unite con l’obiettivo di evitare che vengano prese decisioni che possano portare a una spaccatura all’interno dell’Organizzazione.

Ma dato che è stata approvata la procedura relativa alla discussione in seno all’Assemblea Generale di quei casi per i quali si è fatto ricorso al veto, perché non pensare anche a quelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che sono state adottate senza che ci fosse alcun veto, alcune anche molti anni fa, ma che non vengono mai attuate? Perché l’Assemblea non dovrebbe prendere in esame le cause di tale stato di cose, ad esempio ascoltando coloro che hanno ostacolato l’attuazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in merito alla Palestina, a tutti i problemi legati al Medio Oriente e all’Africa settentrionale, alla gestione del programma nucleare iraniano, e anche alla Risoluzione 2202, che approvava gli Accordi di Minsk sull’Ucraina?

Anche la problematica legata ai regimi sanzionatori necessiterebbe di maggiore attenzione. Ormai, è questa la norma: dopo lunghe trattative, il Consiglio di Sicurezza, nel rigoroso rispetto della Carta, approva le sanzioni nei confronti di un determinato Paese, dopodiché gli Stati Uniti e i loro alleati introducono, nei confronti di quello stesso Paese, restrizioni unilaterali “aggiuntive” che non hanno ricevuto alcuna approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza e che non sono incluse nella sua risoluzione come parte del “pacchetto” di sanzioni concordato. Sulla stessa falsa riga c’è anche la decisione presa da Berlino, Washington, Parigi e Londra attraverso le loro norme legislative nazionali di “prorogare” le restrizioni in scadenza nell’ottobre di quest’anno nei confronti dell’Iran; restrizioni che sarebbero soggette a risoluzione legale in conformità con la Risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ossia, la validità della risoluzione emanata dal Consiglio di Sicurezza è scaduta, ma agli occidentali questo non interessa. Loro hanno le loro “regole”.

La linea aggressiva e fortemente interessata della minoranza occidentale ha causato una grave crisi nelle relazioni internazionali. Cresce il rischio di un conflitto mondiale. Eppure, c’è una vita d’uscita da questa situazione. Tanto per cominciare, tutti dovremmo prendere coscienza della nostra responsabilità nelle sorti del mondo; ma dal punto di vista del contesto storico, e non da quello dello schieramento elettorale più favorevole in vista delle prossime elezioni nazionali. Ormai quasi 80 anni fa, dopo aver firmato la Carta delle Nazioni Unite, i leader mondiali concordarono di rispettare l’uguaglianza di tutti i Paesi, riconoscendo allo stesso tempo la necessità di costituire un ordine mondiale equo e policentrico come garanzia della sostenibilità e della sicurezza dello sviluppo dei vari Paesi.

È necessario fare in modo che lo spirito multipolare di cui è intrisa la Carta delle Nazioni Unite diventi realtà. Un numero sempre crescente di Paesi della Maggioranza mondiale si impegna per rafforzare la propria sovranità e far valere i propri interessi nazionali, le tradizioni, la cultura e lo stile di vita. Non desiderano vivere sotto i dettami di altri, vogliono creare rapporti di amicizia e commerciare sia l’uno con l’altro che con il resto del mondo; solo che desiderano farlo in una condizione di parità e al fine di trarne reciproco vantaggio, all’interno dell’architettura multipolare che sta a tutti gli effetti prendendo forma. Questo è stato l’approccio dominante nel corso dei recenti incontri ai vertici dei BRICS, del G20 e del Vertice dell’Asia Orientale.

L’obiettivo principale è quello di riformare rapidamente i meccanismi di governance globale. Gli Stati Uniti e i loro alleati devono abbandonare le limitazioni artificiali nella ridistribuzione delle quote di voto nell’ambito del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, riconoscendo il peso economico e finanziario reale dei Paesi del Sud del mondo. Sarebbe necessario anche sbloccare immediatamente il lavoro dell’Organo di Conciliazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

È sempre più richiesto anche l’ampliamento del Consiglio di Sicurezza, che deve avvenire esclusivamente attraverso l’eliminazione del parametro della sottorappresentanza per i Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina nella sua composizione. È importante che i nuovi membri del Consiglio di Sicurezza, siano essi permanenti o non permanenti, possano godere di autorità sia nella loro regione che anche all’interno delle organizzazioni di portata globale quali il Movimento dei Paesi non allineati, il Gruppo dei 77 o l’Organizzazione della Cooperazione Islamica.

È tempo di prendere in considerazione anche metodi più equi per la costituzione del Segretariato dell’ONU. I criteri in vigore ormai da molti anni non rispecchiano il peso reale dei Paesi nelle questioni globali e garantiscono in maniera artefatta il dominio assoluto dei cittadini dei Paesi NATO e dell’Unione Europea.Tali sproporzioni diventano ancor più marcate in forza del sistema dei contratti permanenti, i quali vincolano i loro titolari ad occupare la posizione di Paese ospitante delle sedi delle organizzazioni internazionali, le quali sono praticamente tutte collocate nelle capitali che perseguono le politiche dell’Occidente.

Tutti gli sforzi per la riforma delle Nazioni Unite devono essere mirati al riconoscimento della superiorità del diritto internazionale e a una rinascita dell’Organizzazione in quanto organo di coordinamento centrale della politica globale, nel quale ci si confronti su come risolvere insieme i problemi, sulla base di un giusto equilibrio degli interessi.

Allo stesso tempo, è necessario sfruttare appieno il potenziale di un nuovo tipo di associazioni, le quali rispecchino gli interessi del Sud globale. Tra queste, in primo luogo, troviamo i BRICS, che a seguito del vertice di Johannesburg hanno accresciuto in maniera sostanziale la loro autorità e la cui influenza adesso è davvero globale. A livello regionale, stiamo assistendo alla rinascita di organizzazioni quali l’Unione Africana, La Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi, la Lega Araba, il Consiglio di Cooperazione degli Stati del Golfo Persico e altre. In Eurasia, sta guadagnando slancio l’armonizzazione dei processi di integrazione nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico, dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, dell’Unione Economica Eurasiatica e della Comunità degli Stati Indipendenti, nonché del progetto cinese conosciuto come “Belt and Road”. È in corso anche la naturale formazione del Grande Partenariato Eurasiatico, aperto alla partecipazione di tutti, ad inclusione delle associazioni e dei Paesi del nostro comune continente, senza alcuna eccezione.

Alle tendenze positive si contrappongono i tentativi sempre più aggressivi da parte dell’Occidente di preservare il suo dominio nella politica, nell’economia e nella finanza a livello mondiale. È nell’interesse comune evitare la frammentazione del mondo in blocchi commerciali isolati e in macroregioni. Ma se gli Stati Uniti e i loro alleati non intendono trovare un accordo sul conferire ai processi di globalizzazione un carattere di giustizia e di equità, allora toccherà agli altri trarre le dovute conclusioni e riflettere sui passi da fare affinché le proprie prospettive di sviluppo socio-economico e tecnologico e la propria sicurezza non dipendano dagli istinti neocoloniali delle potenze occidentali.

Durante il suo intervento del 5 ottobre nel corso della plenaria del Forum di discussione Valdai, il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin si è espresso chiaramente a favore di un rafforzamento del diritto internazionale basato sulla Carta dell’ONU ed ha proposto sei principi per la formazione di un autentico sistema multipolare: l’apertura e l’interconnessione di un mondo che non ponga ostacoli artificiali all’interazione tra individui, il rispetto delle diversità in quanto fondamento dello sviluppo universale, la massima rappresentanza nelle organizzazioni della governance mondiale, una sicurezza globale che bilanci gli interessi di tutti, un accesso equo ai benefici legati allo sviluppo, l’uguaglianza di diritti per tutti, il rifiuto del dettame secondo cui gli interessi di tutti debbano dipendere dai “ricchi o potenti”.

Il Presidente Vladimir Putin ha sottolineato: “In sostanza, ci troviamo di fronte al compito di costruire un nuovo mondo”. Ma ciò non significa ricominciare da zero dopo aver cancellato tutto ciò che è stato creato dai nostri predecessori. Le fondamenta su cui costruire questo nuovo mondo esistono, e sono solide: sono la Carta delle Nazioni Unite. L’importante, adesso, è impedire che essa venga distrutta da opportunistici giochi di prestigio compiuti selettivamente con i suoi principi fondamentali, ottenere la sua completa attuazione e fare in modo che tra tutti i Paesi ci sia interconnessione.

Se i membri della comunità globale troveranno la determinazione necessaria per un ritorno alle origini e tramuteranno gli obblighi da loro assunti in accordo con la Carta delle Nazioni Unite in fatti concreti, allora l’umanità avrà finalmente l’opportunità di superare il dannoso retaggio dell’epoca del monopolarismo.

Saranno i preparativi all’imminente “Summit del futuro”, che si terrà l’anno prossimo su iniziativa del Segretario Generale delle Nazioni Unite, a dimostrare in che misura siamo pronti a riconoscere sia la nostra responsabilità che quella collettiva per le sorti del mondo.

Come ha detto António Guterres durante la conferenza stampa alla vigilia della 78° sessione dell’Assemblea Generale, “se desideriamo una pace e una prosperità che siano basate su uguaglianza e solidarietà, allora i leader mondiali hanno in mano la responsabilità ben precisa di giungere a un compromesso nel progettare un futuro comune basato sul bene comune”. Parole d’oro. È proprio nella ricerca del comune accordo, e non nella divisione del mondo tra “democrazie” e “autocrazie”, che risiede la missione delle Nazioni Unite. E la Russia, assieme a coloro che la pensano allo stesso modo, è assolutamente preparata a contribuire al compimento di questa missione.


10 ottobre 2023


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