American Gods

American Gods

Neil Gaiman

7
Poiché sono "immortali" soltanto in un senso molto particolare — infatti nascono e muoiono — gli dèi del pantheon induista conoscono quasi tutti i grandi dilemmi umani e spesso sembrano distinguersi dai mortali soltanto per alcuni dettagli insignificanti… e ancora meno si differenziano dai demoni. Tuttavìa sono considerati dagli induisti una categoria di esseri
per definizione

completamente diversa da qualsiasi altra; la loro natura simbolica non è alla portata dei comuni mortali, per quanto "archetipica" possa essere la loro vita. Gli dèi sono attori che interpretano ruoli reali soltanto ai nostri occhi; sono le maschere dietro cui ciascuno intravede il proprio volto.
WENDY DONIGER O’FLAHERTY, Introduzione a
Hindu Myths,
Penguin Books, 1975

Da molte ore Shadow camminava verso sud, o perlomeno sperava che fosse il sud, lungo una stradina stretta e senza indicazioni che procedeva tra i boschi del Wisconsin meridionale, sempre secondo le sue supposizioni. A un certo punto dalla direzione opposta arrivarono due jeep con i fari accesi e lui si nascose tra gli alberi. La foschia del primo mattino restava sospesa da terra fino all’altezza dei suoi fianchi. Le jeep erano nere.

Quando mezz’ora più tardi sentì il rumore lontano di due elicotteri che venivano da occidente, Shadow abbandonò la pista e si gettò nella macchia. Si rannicchiò in un incavo nel terreno, sotto un albero caduto, e aspettò che gli elicotteri se ne andassero. Quando furono lontani diede una rapida occhiata al grigio cielo invernale e scoprì con una certa soddisfazione che anche gli elicotteri avevano un colore nero opaco. Aspettò tra gli alberi che tornasse il silenzio.

Nel sottobosco c’era uno strato sottile di neve ghiacciata che scricchiolava sotto i suoi passi. Shadow era molto contento di avere gli scaldini chimici, perché era certo che altrimenti gli si sarebbero congelate le estremità. A parte questo senso di gratitudine nei confronti degli scaldini, era come inebetito: il cuore sordo, il cervello intorpidito, l’anima insensibile. Era uno stordimento che risaliva a molto lontano, che arrivava molto in profondità.
Ma che cosa vorrei, veramente?

si chiese. E siccome non riusciva a trovare una risposta continuava a camminare, passo dopo passo, sempre diritto. Gli alberi avevano un aspetto familiare, e nei boschi incontrava i paesaggi che erano momenti di perfetti déjà-vu.
C’era il rischio che stesse camminando in tondo. Forse avrebbe potuto continuare a camminare all’infinito fino all’esaurimento degli scaldini e delle merendine. Poi si sarebbe seduto da qualche parte per non rialzarsi più.

Quando arrivò a un grosso torrente decise di seguirlo. I torrenti portano ai fiumi e tutti i fiumi portano al Mississippi. Se avesse continuato a camminare, oppure rubato una barca o costruito da solo una zattera, prima o poi avrebbe raggiunto New Orleans, dove faceva caldo, ipotesi tanto confortante quanto infondata.

Gli elicotteri non tornarono. Aveva la sensazione che quei due che gli erano passati sulla testa fossero andati a ripulire il disastro sul treno merci, e non che stessero cercando lui, altrimenti sarebbero ritornati con cani poliziotto e sirene e tutto il circo della caccia all’uomo. Invece non c’era niente di niente.

Ma cosa voleva, esattamente? Non voleva essere preso. Non voleva essere accusato dell’uccisione degli uomini sul treno. «Non sono stato io» si sentì dire, «è stata la mia defunta moglie.» Immaginare l’espressione degli agenti non era difficile. Poi, mentre saliva sulla sedia elettrica, la gente avrebbe continuato a discutere se era matto oppure no…

Si chiese se ci fosse la pena di morte, nel Wisconsin. Si chiese se la cosa avesse qualche importanza. Voleva sapere che cosa stava succedendo, e scoprire come sarebbe andata a finire. E infine capì — e sorrise mesto, scoprendolo — che desiderava soprattutto tornare alla normalità. Voleva non essere mai andato in prigione, che Laura fosse ancora viva, che niente di tutto questo fosse mai accaduto.
Ho paura che quest’opzione non esista, ragazzo mio,

pensò tra sé con la voce burbera di Wednesday, e annuì in segno di assenso.
L’opzione non esiste. Ti sei bruciato i ponti alle spalle. Quindi continua a camminare. Tieni duro…
In lontananza, un picchio tamburellava su un tronco marcio.

Shadow si sentì osservato: un gruppetto di cardinali rossi lo fissò da uno scheletrico sambuco prima di riprendere a becchettare le bacche nere. Sembrava un’illustrazione del calendario degli uccelli canori del Nordamerica. I trilli lo seguirono per un po’ lungo l’argine del torrente e infine non si sentirono più.

Il cerbiatto giaceva in una radura all’ombra di un colle e un uccello nero grande come un cane era intento a sbranargli un fianco, con l’enorme becco crudele strappava brandelli di carne rossa. Gli occhi del cerbiatto non c’erano più, ma il resto della testa era intatto e sul dorso si vedeva ancora il manto di pelliccia maculata. Shadow si domandò come fosse morto.

L’uccello nero piegò la testa di lato e producendo un suono che sembrava quello di due sassi sfregati tra loro disse: «Tu sei l’uomo ombra».
«Sono Shadow» rispose Shadow. L’uccello saltò sul dorso del cerbiatto, alzò la testa e arruffò le penne sul collo e sulla cresta. Era un animale enorme, con gli occhi come due perle nere. C’era qualcosa che faceva paura in un uccello di quelle dimensioni appollaiato a così breve distanza.

«Dice che vi rivedete al Cai-ro» disse il corvo. Shadow si chiese di quale dei due corvi imperiali di Odino si trattasse: Hugin o Munin, Memoria o Pensiero.
«Al Cai-ro?» ripeté.
«Egitto.»
«E come ci arrivo in Egitto?»
«Segui il Mississippi. Verso sud. Trova lo Sciacallo.»

«Senti» disse Shadow, «non voglio sembrare come se, cazzo, senti…» Fece una pausa per cercare di riordinare le idee. Stava morendo di freddo in mezzo a un bosco e parlava con un gigantesco uccellaccio nero che faceva colazione a base di Bambi. «Va bene. Quello che sto cercando di dire è che non voglio misteri.»
«Misteri» convenne il corvo.
«Voglio delle spiegazioni. Sciacallo al Cai-ro. Non mi è di grande aiuto. Sembra la battuta di un brutto film di spionaggio.»
«Sciacallo. Amico.
Toc.

Cai-ro.»
«Questo me l’hai già detto. Mi piacerebbe qualche informazione in più.»
L’uccello si voltò per strappare un altro brandello di carne rossa dal costato del cerbiatto. Poi volò tra gli alberi con il pezzo di carne che gli penzolava dal becco come un lungo verme sanguinante.
«Ehi! Mi puoi almeno riportare sulla strada?»

L’uccello volò più alto. Shadow guardò il cadavere del piccolo cervo. Decise che se fosse stato un vero boscaiolo a quel punto se ne sarebbe tagliata una bistecca da cuocere sul fuoco. Invece andò a sedersi su un tronco caduto e mangiandosi una barretta Snicker si rassegnò a non essere un vero boscaiolo.
Il corvo arrivò gracchiando in fondo alla radura.

«Vuoi che ti segua?» gli domandò Shadow. «Oppure Timmy è caduto in un altro pozzo?» L’uccello gracchiò di nuovo, questa volta con impazienza. Shadow si alzò e si avviò nella sua direzione. L’animale aspettò che gli fosse vicino, poi con un pesante battito d’ali raggiunse un altro albero; si sarebbe detto che volesse guidarlo a sinistra del percorso che aveva seguito prima.
«Ehi, Hugin o Munin o chiunque tu sia!»

Il corvo si voltò, piegò la testa sospettosamente e lo fissò con i suoi occhi lucidi.
«Di’: "Mai più"».
«Vaffanculo» rispose l’uccello. Poi, mentre attraversavano insieme il bosco, non disse più niente.

Dopo circa mezz’ora arrivarono a una strada asfaltata alla periferia di una cittadina e il corvo volò via nel bosco. Shadow notò l’insegna di un Culvers Frozen Custard Butterburgers e, poco distante, una pompa di benzina. Entrò da Culvers, che era deserto. Alla cassa c’era un giovanotto magro con la testa rasata. Shadow ordinò due butterburger e patatine. Poi andò in bagno a ripulirsi. Era in condizioni pietose. Fece un inventario del contenuto delle tasche: qualche moneta, incluso il dollaro d’argento, uno spazzolino usa e getta con dentifricio, tre barrette Snicker, cinque scaldini chimici, un portafogli (conteneva soltanto la patente e la carta di credito… e si domandò quando sarebbe scaduta, la carta), e nella tasca interna del cappotto un migliaio di dollari in banconote da cinquanta e da venti, la sua parte del lavoretto alla banca del giorno prima. Si lavò le mani e la faccia con l’acqua calda, inumidì i capelli e li ravviò, poi tornò nel ristorante a mangiare i suoi burger con patatine e a bere il caffè.

Si avvicinò al banco. «Vuole un budino?» chiese il giovane magro.
«No. No, grazie. C’è qualche posto nei paraggi dove potrei noleggiare una macchina? La mia mi ha mollato definitivamente a piedi a un bel pezzo da qui.»
Il giovane si grattò la testa rasata. «Non da queste parti. Se la macchina è guasta chiami Triple-A. Oppure chieda a quelli della pompa di benzina di trainargliela.»
«Buona idea» disse Shadow. «Grazie.»

Attraversò la strada coperta di neve fangosa e arrivò al benzinaio. Comperò qualche merendina, bastoncini di carne secca e altri scaldini chimici.
«C’è un posto dove noleggiare una macchina, nei paraggi?» chiese alla cassiera. Era una donna decisamente grassoccia, con gli occhiali e una gran voglia di chiacchierare.
«Mi faccia pensare» disse. «Qui siamo un po’ fuori mano. A Madison ci sono degli autonoleggi. Dov’è diretto?»
«Cai-ro» disse lui. «Ovunque esso sia.»

«Lo so io dov’è. Mi passi una di quelle cartine dell’Illinois lì sullo scaffale.» Shadow le passò una cartina plastificata. Lei l’aprì e indicò trionfante un punto nell’angolo più basso dello stato. «Eccolo qui.»
«Il Cairo?»
«Quella è in Egitto. Ma a Little Egypt c’è Cairo. C’è anche una Thebes, e non solo. Mia cognata è di Thebes. Un giorno le ho chiesto se sapeva niente della Tebe in Egitto e lei mi ha guardato come se mi mancasse una rotella.» La donna ridacchiò come una matta.

«Ci sono anche le piramidi?» La città si trovava a più di settecento chilometri a sud.
«Non che io sappia. Lo chiamano Little Egypt perché cento o forse centocinquant’anni fa c’è stata una carestia. Tutti i raccolti rovinati. Laggiù invece i campi stavano bene e così tutti ci andavano a comperare da mangiare. Come nella Bibbia. Come nel musical
Joseph and the Technicolor Dreamcoat.
Trallallà, l’Egitto eccolo qua.»
«Al mio posto, dovendo arrivare fin lì, come ci andrebbe?»

«Ci andrei in macchina.»
«La mia si è rotta a qualche chilometro da qui. Era un rottame di merda, scusi l’espressione.»
«Erre-di-emme» disse lei. «Già. Così le chiama mio cognato. Compra e vende macchine, ma in piccolo. Arriva e dice: Mattie, ho appena venduto un’altra erre-di-emme. Magari è interessato alla sua. Per recuperare i pezzi, o qualcosa del genere.»

«È del mio capo» rispose Shadow sorprendendosi della disinvoltura con cui sciorinava una bugia dietro l’altra. «In realtà dovrei chiamarlo e dirgli di venire a riprendersela.» Fu folgorato da un’idea. «Vive nei paraggi suo cognato?»
«Sta a Muscoda. A dieci minuti da qui. Dall’altra parte del fiume. Perché?»
«Be’, può darsi che abbia un’erre-di-emme da vendermi per, diciamo, cinque o seicento dollari.»

La donna sorrise con dolcezza. «Caro lei, mio cognato non na niente di niente, nel suo parcheggio, che costi più di cinquecento dollari con il pieno di benzina. Però non gli dica che gliel’ho detto io.»
«Potrebbe telefonargli?»
«Fatto» rispose lei, e alzò il ricevitore. «Tesoro? Sono Mattie. Vieni subito. C’è qui un cliente che vuole comprare una macchina.»

Il rottame scelto da Shadow era una Chevy Nova del 1983 e la comperò, con il pieno, per quattrocentocinquanta dollari. Sul contachilometri c’era scritto duecentocinquantamila, e puzzava leggermente di bourbon e tabacco e, soprattutto, di banane. Non avrebbe saputo dire di che colore fosse, sotto lo strato di sporcizia e di neve. Eppure, di tutti i veicoli a disposizione nel parcheggio del cognato di Mattie, gli era sembrata l’unica capace di fare ancora settecento chilometri.

La compravendita venne conclusa in contanti e il cognato di Mattie non si sognò nemmeno di chiedergli un documento o il codice fiscale.

Shadow guidò verso ovest, poi verso sud, con cinquecentocinquanta dollari in tasca, tenendosi lontano dall’Interstate. Il rottame era fornito di radio, ma quando la si accendeva non dava segni di vita. Un cartello gli annunciò che aveva lasciato il Wisconsin e adesso si trovava in Illinois. Passò davanti a una miniera a cielo aperto, enormi archi di luce azzurra che bruciavano nel pallido chiarore di un mattino d’inverno.

Si fermò a mangiare in un posto che si chiamava Mom’s, appena in tempo prima che chiudessero per la pausa pomeridiana.
In ogni città che attraversava, accanto al cartello con la scritta benvenuti a Our Town (720 ab.), ce n’era un altro che informava che la locale squadra under 14 di pallacanestro era arrivata terza nel campionato nazionale, oppure che la cittadina aveva dato i natali alle semifinaliste della squadra di wrestling under 16.

Continuò a guidare, malgrado gli ciondolasse la testa, sentendosi più esausto a ogni minuto che passava. Prese un rosso rischiando di essere travolto da una Dodge guidata da una donna. Appena arrivato in aperta campagna si infilò in un sentiero laterale usato dai trattori ma deserto, a quell’ora, e si fermò sul ciglio di un campo coperto di stoppie spruzzate di neve. Una lunga fila di tacchini selvatici grassi e neri lo stava attraversando lentamente, sembravano i dolenti dietro al carro funebre; Shadow spense il motore, si sdraiò sul sedile posteriore e si addormentò.

Oscurità, la sensazione di cadere… sembrava che stesse capitombolando in un grande buco, come Alice. Cadde per cent’anni nell’oscurità. Tante facce gli passarono accanto, fluttuanti nel buio, ma furono strappate via prima che le potesse toccare…
Brutalmente, aveva smesso di cadere. Adesso era in una caverna e non era più solo. Fissò dentro due occhi che gli erano familiari: grandi, liquidi, neri. Gli occhi si chiusero esi riaprirono.

Sottoterra: sì. Ricordava quel luogo. L’odore di vacca bagnata. Il fuoco vacillava sulle pareti umide della caverna, illuminando la testa di bufalo, il corpo d’uomo, la pelle del colore dei mattoni d’argilla.
«Non potete lasciarmi in pace?» chiese Shadow. «Voglio soltanto dormire.»
L’uomo-bufalo annuì lentamente. Non mosse la labbra, ma una voce nella testa di Shadow domandò: «Dove vai?».
«A Cairo.»
«Perché?»

«Dove potrei andare? È lì che mi manda Wednesday. Ho bevuto il suo idromele.» Nel sogno, dove regnava la logica onirica, il vincolo sembrava incontestabile: aveva bevuto l’idromele di Wednesday tre volte, suggellando il patto. Cos’altro avrebbe potuto fare?
Quando l’uomo con la testa di bufalo mise una mano nel fuoco per muovere rami e tizzoni, si alzò una fiammata. «C’è tempesta, in arrivo» disse. Si pulì sul petto glabro le mani sporche di cenere, lasciandovi strisce nere di fuliggine.

«Non fate che ripetermelo. Posso chiedere una cosa?»
Durante la pausa di silenzio che seguì una mosca andò ad appoggiarsi sulla fronte pelosa dell’uomo-bufalo che la scacciò con una mano. «Chiedi.»
«Ma è vero? Queste persone sono davvero dèi? È tutto talmente…» Si interruppe. Poi aggiunse: «impossibile», che non era esattamente la parola che stava cercando, ma gli sembrava la meno peggio.
«Cosa sono gli dèi?» chiese l’uomo-bufalo.
«Non so» rispose Shadow.

Si sentivano dei colpi, implacabili e monotoni. Shadow aspettò che l’uomo-bufalo dicesse ancora qualcosa, che gli spiegasse cos’erano gli dèi, che sbrogliasse tutto l’intricato incubo che era diventato la sua vita. Aveva freddo.
Toc. Toc. Toc.
Aprì gli occhi e faticosamente si mise seduto. Era intirizzito e fuori il cielo aveva assunto quella luminosa tonalità di rosso profondo che separa il crepuscolo dalla notte.
Toc. Toc.

Qualcuno disse: «Ehi, signore», e Shadow girò la testa. Il qualcuno che aveva parlato era in piedi vicino al finestrino, un’ombra appena più scura del cielo. Shadow allungò un braccio e riuscì ad abbassare il vetro di qualche centimetro. Dopo aver prodotto qualche suono per svegliarsi disse: «Salve».
«Ti senti bene? Sei malato? Hai bevuto?» Era una voce acuta, da donna o da ragazzo.

«Sto bene» rispose Shadow. «Aspetta.» Aprì la portiera e uscì stirandosi gli arti rattrappiti e il collo. Poi strofinò le mani una contro l’altra per far circolare il sangue e riscaldarle.
«Cavoli. Sei altissimo.»
«Così dicono» rispose Shadow. «Tu chi sei?»
«Mi chiamo Sam» disse la voce.
«Sam maschio o Sam femmina?»
«Sam femmina. Prima scrivevo Sammi con la i, e sopra la i disegnavo una faccina sorridente, ma poi mi sono stufata perché lo facevano assolutamente tutti, così ho smesso.»

«Va bene, Sam femmina. Adesso vai là in fondo e guarda la strada.»
«Perché? Sei un folle assassino o qualcosa del genere?»
«No» rispose Shadow, «devo fare pipì e mi piacerebbe un momento di privacy.»
«Ah. Bene. D’accordo. Ho capito. Non c’è problema. Anch’io sono come te. Non posso fare pipì nemmeno se c’è qualcuno nel gabinetto vicino. È una forma grave di sindrome della vescica timida.»
«Allora?»

La ragazza si allontanò e Shadow fece qualche passo verso i campi, abbassò la cerniera dei jeans e orinò contro un palo della recinzione per un tempo molto lungo. Poi tornò alla macchina. L’ultima fioca luce dell’imbrunire aveva ceduto alla notte.
«Sei ancora lì?» le chiese.
«Sì» rispose lei. «La tua vescica deve avere la capienza del lago Erie. Nel tempo che hai impiegato a fare pipì sono sorti e caduti alcuni imperi. Il rumore si sentiva fin qui.»
«Grazie. Volevi qualcosa?»

«Be’, volevo sapere se stavi bene. Cioè, se eri morto o qualcosa del genere avrei chiamato la polizia. Ma siccome i finestrini erano appannati ho pensato che fossi ancora vivo.»
«Abiti da queste parti?»
«No. Sono venuta in autostop da Madison.»
«Non è una cosa sicura da fare.»
«Sono tre anni che lo faccio, cinque volte l’anno. Sono ancora viva. Tu dove sei diretto?»
«Arrivo fino a Cairo.»
«Perfetto» disse lei. «Io vado a El Paso. A passare le vacanze da mia zia.»

«Non ti posso portare fin là» disse Shadow.
«Non a El Paso in Texas. L’altro, quello in Illinois. È a poche ore a sud. Sai dove siamo, adesso?»
«No» rispose Shadow. «Non ne ho idea. Da qualche parte sull’autostrada Cinquantadue?»
«La prossima uscita è Perù» disse Sam. «Non quella in Perù. Quella in Illinois. Fatti annusare. Piegati.» Shadow si piegò e la ragazza gli annusò l’alito. «Va bene. Non sento odore di alcol. Puoi guidare. Andiamo.»
«Perché ti dovrei dare un passaggio?»

«Perché sono una donzella in difficoltà» disse lei. «E tu sei un cavaliere in… in una macchina molto sporca. Sai che qualcuno ha scritto "Lavami!" sul lunotto?» Shadow salì a bordo e aprì la portiera per la ragazza. La lucina che normalmente si accende in questi casi non funzionava.
«No» rispose. «Non lo sapevo.»
Sam salì. «Sono stata io» disse. «L’ho scritto io. Quando c’era ancora abbastanza luce.»

Shadow mise in moto, accese i fari e tornò verso la strada da cui era venuto. «Gira a sinistra» gli suggerì lei provvidenziale. Shadow svoltò a sinistra e continuò a guidare. Dopo qualche minuto il riscaldamento si mise in funzione e un piacevole tepore invase l’abitacolo.
«Non hai ancora detto niente» riprese Sam. «Di’ qualcosa.»
«Sei umana? Un autentico essere umano fatto di carne e ossa e nato da uomo e donna?»
«Certo.»
«Va bene. Era solo una domanda. Allora, che cosa vuoi che ti dica?»

«Qualcosa di rassicurante, direi. Improvvisamente mi è venuta quella sensazione tipo "oh merda, sono nella macchina sbagliata con l’uomo sbagliato".»
«Ah sì» disse lui. «La conosco. E cos’è che troveresti rassicurante?»
«Be’, sapere che non sei un evaso o un pluriomicida o roba del genere.»
Shadow rifletté per un momento. «Non sono niente del genere, davvero.»
«Però ci hai dovuto pensare.»
«Mi hanno rilasciato. Non ho mai ucciso nessuno.»
«Ah.»

Entrarono in una cittadina con le strade illuminate e le case coperte di decorazioni natalizie e Shadow gettò un’occhiata alla sua destra. La ragazza aveva i capelli neri, corti e arruffati e una faccia che risultava al tempo stesso attraente e leggermente mascolina, come se i suoi tratti fossero stati scolpiti nella roccia. Anche lei lo stava osservando.
«Perché sei stato in prigione?»
«Ho fatto molto male a un paio di persone. Ero arrabbiato.»
«Se lo meritavano?»


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