Siberia

Siberia

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In un rifugio remoto immerso nella neve, Clint è un personaggio enigmatico che si è ritirato a vita solitaria, gestendo una locanda che dà ristoro ai pochissimi viaggiatori del luogo. Una slitta e dei cani sono l'unico mezzo di trasporto e di contatto con il mondo esterno, e dopo la visita di una donna russa incinta e di sua madre, Clint decide di esplorare le profondità metafisiche della sua memoria e di sfidare la neve sterminata per intraprendere un viaggio tra l'orrore, il piacere e la scoperta.

I luoghi del cinema di Abel Ferrara sono mutevoli eppure fondamentali. Nella New York dove è cresciuto e ha iniziato la carriera trovò la forma più compiuta del suo stile, con la città che è al centro dei titoli più celebri come Il cattivo tenente, King of New York e The Addiction. A un periodo senza radici e senza certezze ha poi fatto seguito il periodo romano di grande rinascita, foriero di opere come Pasolini, Piazza Vittorio e Tommaso.

È significativo che la tappa successiva sia un luogo di lontananza dichiarata come Siberia, il più ambizioso dei ripetuti tentativi di auto-analisi di un regista tormentato e viscerale.

La Siberia del nuovo film è però un luogo della mente, metafora di un inconscio ghiacciato e remoto in cui ci si può isolare, sì, (Cliff non ha interesse a vincere, dice, perché non ha interesse a perdere) ma che va traversato per scoprirne le viscere infernali e confrontare i propri demoni. Ferrara lo fa, come ormai di consueto, attraverso il tramite di Willem Dafoe, impegnato in un ritratto "aperto" del regista che prosegue da un film all'altro e vive anche di amicizia personale.

Il percorso è in solitaria, se si escludono gli stupendi husky che trainano la slitta di Cliff e che Ferrara saggiamente tiene spesso nell'inquadratura. È un surreale controcampo e un necessario residuo di tenerezza in una serie di sequenze onirico-allucinate che include esecuzioni in un campo di concentramento, mutilazioni, animali parlanti e (ovviamente) inquietudini sessuali che coinvolgono tanto i partner quanto le figure genitoriali.

L'artista uomo che concede campo libero all'indulgenza della propria psiche è uno stereotipo che ha certo fatto il suo tempo, ma pochi altri autori come Ferrara hanno pagato a fondo, e in modo visibile, il prezzo di quell'indulgenza. La forza del suo cinema degli anni dieci ha un crisma liberatorio e rivelatorio, e Siberia ne è in qualche modo l'apice - senza freni, perverso e inesorabilmente danneggiato.

Un apice lo è anche dal punto di vista formale, per un'opera ambiziosa che spazia dalla neve al deserto ai paesaggi boscosi, fotografato con inventiva e con una ruvidità elettrizzante (le scene sulla neve sono virate così tanto al verde che il sangue di un pesce diventa viola).

Siberia rappresenta la deflagrazione finale di una psiche e di un percorso cinematografico, e a posteriori rende il precedente Tommaso - che è già di suo un film straordinario su Roma, come nessun regista italiano ha saputo farne di recente - ancora più interessante. Lì, la città agiva come ultimo simbolo del controllo, un tappo che il protagonista cercava di far saltare ma che lo teneva all'interno di una struttura. Con Siberia, Ferrara lascia definitivamente le città e la famiglia per lo scontro finale con il suo trauma, in un'opera radicale che non si pone mai limiti.

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