Il neoliberismo è il nostro vero nemico

Il neoliberismo è il nostro vero nemico

Salclem2

di Enrico Gatto, 26 febbraio 2019

«Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi»: così si esprimeva George Orwell, allievo niente di meno che di Aldous Huxley, nel romanzo distopico “1984”.


Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo e finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politiche ed economiche: infatti, esso costituisce il filo rosso e la scaturigine fondamentali di quello che viene definito Pensiero Unico (nel quale si sostiene, tra le altre cose, il primato dell’economia sulla politica).


In parole povere, si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un’inscindibile ideologia politica) all’origine di tutti i nostri problemi – come ampiamente argomenta l’economista Ilaria Bifarini in “Neoliberismo e manipolazione di massa (15 maggio 2017)” –: semplificando, altro non è che il coronamento di un progetto di restaurazione del potere di classe da parte dell’élite dominante (un proponimento risalente, peraltro, già agli anni Venti del Novecento, ma iniziato ad attuarsi a partire dagli anni Settanta e dalla stagflazione).


Si tratta, quindi, della reazione delle élite che tanto avevano perduto, in termini di potere e di ricchezza, nell’età contemporanea, soprattutto nei “trenta gloriosi” anni successivi al secondo dopoguerra: in quel periodo, costituzioni di ispirazione socialista (tra le altre), associate a politiche economiche keynesiane, avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie.


Una condizione inaccettabile, dal punto di vista elitario di queste classi di ricchi, poiché troppo orizzontale. Sia bastevole pensare ad un famoso studio, dal nome “The crisis of democracy”, del 1975, affidato dalla Commissione Trilaterale (società di categoria dell’alta finanza) ad Huntington, Crozier e Watanuki: in esso, si parlava della necessità di apatia delle masse, di spoliticizzazione delle stesse e di un indebolimento del sindacato, a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia”, da risolvere anche attraverso l’introduzione di tecnocrazie.


Quindi, partendo dalle teorie di von Hayek e con gli studi della Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie anche alla influente Mount Pelerin Society, fondata già nel 1947 da von Hayek con l’intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere il liberalismo classico, quello della “mano invisibile” di Adam Smith), che contestava il compromesso keynesiano del liberismo espansivo con intervento statale (l'”embedded liberalism” della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza).


Furono elaborate nuove ricette economiche, che contemplavano “deregulation”, continui tagli alla spesa sociale, privatizzazioni degli utili con socializzazione delle perdite, finanziarizzazione dell’economia, monetarismo, austerità, deificazione del Mercato, con l’obiettivo della definitiva sottomissione dello Stato e della Politica agli interessi economici dei potentati privati.


Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo, tramite le “categorie previane” del circo mediatico, del clero giornalistico-accademico e del ceto intellettuale (che, per usare la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante). Si iniziò dal “test pilota” dopo il golpe di Pinochet in Cile del 1973 e, poi, nei primi anni Ottanta, dai governi occidentali di Thatcher, Reagan, Mitterrand e Kohl, fino ad arrivare al capolavoro degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell’ordoliberismo) e della moneta unica europea a cambio fisso con Banca Centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata).


Fin da allora, la distribuzione di ricchezza avrà un’inversione di tendenza ed andrà concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un’oligarchia finanziaria, la quale non fa che portare avanti programmi a proprio esclusivo vantaggio ed a detrimento dei popoli (i dati sulla crescita della sperequazione lo dimostrano).


Ciò che si è cercato di riassumere in poche righe va contestualizzato nel panorama dell’epoca: fu l’avvio della lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino), ovverosia la ribellione delle élite (Lash); fu (ed è tuttora) l’operato di un gruppo, l’1% della popolazione, che faceva (e tutt’oggi fa) i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è purtroppo lecito, non di certo etico).


Il problema è stata la mancata risposta delle “classi subalterne” e dei loro rappresentanti (politici e sindacali), che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti: senza considerare che tendono a non vederli o capirli tuttora (alcuni scioccamente, altri in malafede, sia a sinistra che a destra, con l’esaurimento della loro storica dicotomia).


Bisogna liberarsi dei mantra che da tempo vengono introiettati: quelli del “There Is No Alternative” (Thatcher), dell’ineluttabile “Fine della Storia” (Fukuyama) e del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. In realtà, tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale ed irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo: basterebbe, in un’ottica individuale e collettiva, pensare ed agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato).


Tuttavia, purtroppo le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx). Per giungere ad un cambiamento è necessario arrivare ad una “massa critica” di persone consapevoli, che comprendano che è in atto una “guerra” (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore) e che si compattino riconoscendo il “nemico” comune da combattere: un sistema ideologico, il neoliberismo, profondamente competitivista, classista e de-umanizzante.


Dal sistema economico vigente scaturisce l’onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico, nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione, dell'”homo homini lupus”, del “mors tua vita mea”, del “do ut des”, del narcisismo individualista, dell’egoismo, dell’edonismo, del materialismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica: peculiarità che ci rendono “schiavi perfetti”, poiché il velo di Maya (Schopenhauer) ci rende incapaci di vedere le nostre pastoie e, quindi, impossibilitati a liberarcene.


All’interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria), appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società – che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più -: esistono solo gli individui, non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di “homines oeconomici”, di imprenditori di sé, di monadi, la cosiddetta modernità liquida di Bauman (prodromici furono i movimenti sessantottini e, successivamente, grazie al neoliberismo ed alla sua sovrastruttura, il “politicamente corretto” [ed “etnicamente corrotto”, con le parole di Diego Fusaro], a causa dei quali l’attenzione è stata sempre più focalizzata su diritti individuali e civili a spese di quelli collettivi e sociali).


Perciò, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel), rifuggendo dalla crematistica e ritornando all’equilibrio, ai concetti di misura e limite come ci insegnano gli antichi greci (oltre che tornare all’applicazione della Costituzione del 1948).


Rimane un unico ostacolo che Platone conosceva finanche oltre due millenni fa: l’eventuale “liberatore” verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in “catene”. In questo senso, è davvero eloquente ed attuale il “mito della caverna”, in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata venga invece percepita come “verità” dagli sventurati protagonisti che, nati in cattività, non possono immaginare un’esteriorità rispetto alla caverna stessa, nella quale sono imprigionati. Non sapendosi schiavi ingannati, non potranno ambire alla libertà: almeno, fino a che non avranno preso coscienza di sé e della propria condizione.

(Fonte: https://oltrelalinea.news/2019/02/26/il-neoliberismo-e-il-nostro-vero-nemico/)


Progetto Eurexit

Neoliberismo: il Cile come orizzonte sociale

Progetto Eurexit, 4 novembre 2019


Cosa è il neoliberismo? Perché è sentire comune averne una percezione negativa? Se da una parte ci sono echi di protesta contro un concetto fumoso come «neoliberismo», dall’altra ci sono personaggi pubblici che non fanno altro che vantarsi di essere «liberali», se non proprio «liberisti».

D’altronde, chi potrebbe essere mai contro la «libertà»? Neanche i tiranni dei regimi più autoritari si ponevano come oppressori o come limitatori, conculcatori, sottrattori della «libertà».

Bene: poiché siamo tutti per la «libertà» (soprattutto la nostra, e soprattutto a parole) e nessuno conosce la storia del pensiero economico e politico – coscientemente o meno – viviamo nella dissonanza cognitiva. Tutti siamo contro il neoliberismo ma tutti siamo liberali.


I più raffinati si dichiarano liberali (politicamente) ma non liberisti (a livello di pensiero economico), e lo fanno sorvolando sul fatto che il liberalismo politico si fonda sul liberismo economico.

È comune sentir chiamare le democrazie occidentali «democrazie liberali», nonostante le democrazie occidentali moderne – dal secondo dopoguerra – siano state pensate per superare lo Stato liberale, ottocentesco, e per edificare lo Stato sociale in modo che gli ordinamenti venissero così configurati come «democrazie sociali». «Sociali», non «liberali», come sottolineava il più grande costituzionalista italiano del Novecento, Costantino Mortati.

I maggiori Paesi occidentali, sulla scorta delle tragedie belliche comunemente imputate al liberismo e al capitalismo sfrenato che portarono alla crisi del ‘29 e alle sue conseguenze politiche, convennero sulla necessità di mettere un freno alle «libertà» del mercato, e di violare i tabù liberali dello «Stato minimo» con la promozione dello Stato interventista di matrice keynesiana e del «welfare state»: «il pubblico» – e il conseguente interesse generale – veniva quindi ad assumere una preminenza sul «privato». La «proprietà privata» dei mezzi di produzione non era quindi più sacralizzata come nella cultura politica ed istituzionale liberale, ma veniva in tutto il mondo osservata nell’ottica della «finalità sociale»: una ovvia conseguenza di tutto ciò fu il ricorso massiccio alle nazionalizzazioni dei grandi complessi produttivi e delle aziende strategiche.


E questo avvenne anche in Paesi che si stavano emancipando dal colonialismo, come nel Cile dei primi anni ‘70.

Salvador Allende, prima di morire in seguito al golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, aveva promosso un programma chiamato «La via cilena al socialismo» in cui si proponevano imponenti nazionalizzazioni e l’edificazione di un importante Stato sociale.

I servizi segreti statunitensi, espressione delle grandi multinazionali americane, ordirono il colpo di Stato che iniziò la violenta marcia mondiale della restaurazione liberale chiamata «neoliberismo». Il grande capitale non era più disposto a rinunciare ai suoi profitti e alla relativa influenza sulle istituzioni: la violenza politica caratterizzò quanto meno tutta la prima fase rivoluzionaria, ma la violenza economica – ovvero la sofferenza sociale causata dalle riforme economiche di matrice liberista – non è mai scemata, nonostante i grandi quotidiani celebrassero fino ai giorni nostri la «democrazia cilena»… questa sì, «liberale».


I liberisti della scuola di Chicago consigliarono la giunta militare cilena per quanto riguardava le «riforme strutturali» da intraprendere, e – in pratica – le dettarono la costituzione del 1980.

Il modello cileno fu poi esportato in tutto il mondo; certo, come fece notare Margaret Thatcher alla famosa icona del neoliberismo – ed entusiasta sostenitore di Pinochet Friedrich August von Hayek, per i paesi come il Regno Unito i metodi cileni non erano adatti. Ma le «riforme strutturali» neoliberali andavano fatte: privatizzazioni, compressione di salari e Stato sociale con – se ci fosse bisogno di specificarlo – relativa esplosione dell’ingiustizia sociale. Così fece anche Reagan negli Stati Uniti.

Col neoliberismo il reddito prodotto andava fondamentalmente ad arricchire ulteriormente i già ricchi, lasciando sempre più strati sociali in povertà – falcidiando la classe media, le piccole e medie imprese e i ceti che esercitano le libere professioni. E questo – dal Cile – è progressivamente successo in tutto il mondo, oriente compreso.


Le democrazie sociali per eccellenza, quelle del continente europeo, furono costrette a smantellare lentamente lo Stato sociale e i diritti dei lavoratori già dalla fine degli anni ‘70, segnatamente nel ‘79, con l’introduzione di quell’accordo di cambio propedeutico alla moneta unica chiamato SME.

L’economista ultra-liberista – e premio Nobel – Robert Mundell è poi chiaro nel dar senso alla realizzazione della moneta unica affermando che «l’euro è il Reagan europeo». Ovvero l’euro è stato imposto per costringere le democrazie sociali a far le riforme neoliberali.

Così sappiamo il senso delle «riforme strutturali» che vengono imposte dall’Unione Europea al ritmo di minacce di aperture di procedure di infrazione e «spread»: gli Stati nazionali europei devono fare le medesime riforme cilene imposte ai tempi di Pinochet ma, parafrasando la Thatcher, «in modo europeo» (ovvero senza violenza politica).

E quali sono queste «riforme strutturali» che propugnano i «neoliberisti»? Che cosa è il «neoliberismo» se non le riforme stesse con il loro implicito scopo?


In sintesi:

– obbligare le nazioni al liberoscambismo, alla libera circolazione dei capitali, e i popoli a subire emigrazione ed immigrazione;

– imporre la deregolamentazione finanziaria;

– imporre accordi di cambio fissi [v. euro];

– imporre la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento delle sue tutele e l’aumento della disoccupazione;

– imporre il taglio della copertura pubblica gratuita alla cura della salute aumentando progressivamente la contribuzione al Servizio Sanitario Nazionale [v. ticket] e spingendo la spesa delle famiglie verso il settore privato;

– imporre lo smantellamento del sistema previdenziale pubblico a favore delle assicurazioni private;

– imporre la privatizzazione dei grandi complessi industriali del Paese e dei monopoli naturali.


La ristrutturazione socioeconomica che comporta queste «riforme» si materializza in una colossale redistribuzione del reddito in senso antidemocratico, ovvero si concretizza con un impoverimento generale, la distruzione della «classe media», e l’osceno arricchimento di una ridicola minoranza.


Questo è il neoliberalismo.


E cosa comporti lo si è visto in Grecia, ancora sotto shock, lo si vede in Catalogna, lo si vede coi Gilet Gialli in Francia… e lo si vede in Cile, in cui la coscienza tra disagio sociale e neoliberismo è diffusa: il popolo cileno in queste settimane è sceso in piazza, manifesta, protesta e l’esercito – come un’eco della giunta militare del generale Pinochet – reprime la rivolta nelle strade.

«Il neoliberismo è nato in Cile e morirà qui», si legge in un cartello di un manifestante.

Sarà questo il futuro dell’Italia e dei paesi a cui l’Unione Europea impone le «riforme strutturali» neoliberiste?

Per approfondimenti: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-10-sanita.html

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(Fonte: https://www.progettoeurexit.it/neoliberismo-il-cile-come-orizzonte-sociale/)


Neoliberismo ed elitismo: i genitori 1 e 2 della UE

Progetto Eurexit, 26 dicembre 2019


Ogni Natale porta con sé – sentitamente o meno – la celebrazione di una nascita; ma noi non vogliamo ricordare alcunché di sacro, se non nelle convinzioni ideologiche dei suoi padri… fondatori. Parliamo della nascita della UE, i cui padri nobili, almeno secondo certa stampa, sarebbero in odore di santità, mentre a noi, da profani, ci preme semplicemente ricordare la nostalgia che avevano costoro per il Sacro Romano Impero, da cui pensavano forse di trarre la loro «nobiltà».


Simbolico, a proposito, è sicuramente stato il recente accordo franco-tedesco avvenuto ad Aquisgrana, una delle capitali più significative proprio del Sacro Romano Impero (che, similmente alla UE, è bene ricordarlo, «non era né sacro, né romano, e nemmeno un impero» – cit.Voltaire).


Abbiamo negli ultimi articoli sottolineato più volte il ruolo dell’asse franco-tedesco nel dettare i destini dell’Unione Europea: in particolare ricordavamo le parole di Romano Prodi circa la guida tedesca, egemone economicamente, e dell’influenza francese, egemone militarmente.


Se non vi è progetto più imperiale ed elitario che costruire un’area economico-politica rifacendosi ai fasti del Sacro Romano Impero, non c’è un progetto più neoliberale di coloro che dall’esterno spinsero ad un processo federativo in ottica antisocialista e antirussa: gli statunitensi.


Se la pulsione neoliberale arrivava principalmente dagli USA, l’aristocraticismo che ha dato vita al processo di integrazione eurounionista era assolutamente europeo.


In questa occasione commentiamo le affermazioni di due personaggi fondamentali che hanno supportato e influenzato il processo eurounionista; entrambi neoliberali e antidemocratici, ma uno particolarmente noto per essere stato un fervente elitista, un altro noto per essere stato il più importante filosofo politico ed economista neoliberale del secolo scorso. Il primo è il conte Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi, l’altro è Friedrich August von Hayek: entrambi europei, ed entrambi ben connessi ai circoli rappresentativi dell’influenza statunitense in Europa e nel mondo.


Per evidenziare il gene neoliberale che informa la costruzione eurounionista, evidenziamo alcuni punti fondamentali del pensiero di von Hayek, che fu personalità di spicco tanto in Europa quanto in USA:


«Il sistema federale, nella visione di Von Hayek aiuta ad impedire che i governi nazionali intervengano nell’economia [ovvero evita la possibilità di porre in essere politiche keynesiane e socialiste, ndr], in particolar modo impedisce loro di introdurre politiche protezioniste distorsive del mercato [per i liberali l’interventismo in economia a fini sociali è cattivo perché «distorce» l’allocazione efficiente delle risorse economiche: ovvero finiscono troppi soldi nelle tasche dei più poveri, ndr]. Von Hayek, proprio per il fatto che un governo centrale in una federazione multi-etnica e multi-nazionale avrebbe maggiori difficoltà nel lanciare, programmare e sostenere politiche economiche, per via dell’eterogeneità e della mancanza di coesione interna [la differenza etnica impedisce il consenso democratico necessario per governare l’economia e distribuire la ricchezza secondo giustizia sociale. ndr], ritiene che in questo modo si riuscirebbero a limitare, su base costituzionale, gli interventi di politica economica tipici degli Stati nazionali.» [http://www.thefederalist.eu]


Ossia il federalismo è una strategia dei liberali volta ad imporre il liberismo economico: la differenza nazionale ed etnica di un super-stato federale impedisce di formare un forte governo centrale in grado di essere partecipato democraticamente. Inoltre, come ricorda la tradizione costituzionale socialista, non ci può essere democrazia effettiva se non vi è giustizia sociale, ovvero se non vi è un’equa distribuzione del reddito prodotto.


Un altro autore neoliberista e federalista che collaborò con Hayek è l’economista britannico Lionel Robbins, il quale aggiunge un tassello fondamentale per comprendere il pensiero liberale sottostante all’Unione Europea:


«La scelta – scriveva Robbins – non è fra un piano o l’assenza di piano, ma fra differenti tipi di piano». Correttamente si deve parlare dell’esistenza di un piano liberale, così come si parla di un piano socialista o nazionale [notare che si dà per scontato che le riforme socialiste possono essere messe in atto solo in un contesto «nazionale, ndr]. «La “pianificazione”, nel suo significato moderno, comporta il controllo pubblico della produzione in una forma o in un’altra. L’intento del piano liberale era quello di creare un insieme di istituzioni in cui i piani dei privati potessero armonizzarsi. Lo scopo della moderna (pianificazione) è quello di sostituire i piani privati con quello pubblico – o in ogni caso di relegarli in una posizione di subordinazione».


Ovvero Robbins spiega che la «mano invisibile» del mercato che si dovrebbe autoregolare non è altro che la «mano del legislatore»: gli economisti classici avevano ingenuamente creduto che potesse spontaneamente crearsi un mercato ben ordinato e funzionante anche al livello internazionale, in una situazione di anarchia politica, i federalisti come Robbins eccepiscono che sono invece necessarie istituzioni sovranazionali.


Ma questo ordine liberale internazionale potrebbe mai contemplare la democrazia? Cosa pensavano della democrazia i liberali classici à la Hayek, così influenti sulla costruzione europea e sull’istituzionalizzazione della globalizzazione?


Hayek: «È evidente che le dittature pongono gravi pericoli. Ma una dittatura può limitare se stessa, e se autolimitata può essere più liberale nelle sue politiche di un’assemblea democratica che non conosce limiti [ovvero un dittatore è più facilmente controllabile dal mercato che una democrazia compiuta. ndr]. Devo ammettere che non è molto probabile che questo avvenga, ma anche così, in un dato momento, potrebbe essere l’unica speranza [i liberali sperano in una dittatura piuttosto che si possa realizzare una democrazia che potrebbe imporre «fini sociali» al mercato, ndr]. Non una speranza sicura perché dipenderà sempre dalla buona volontà di una persona e ci si può fidare di ben poche persone. Ma se è l’unica possibilità in un dato momento, può essere la migliore soluzione nonostante tutto. Ma solo se il governo dittatoriale conduce chiaramente ad una democrazia limitata [ovvero allo Stato minimo liberale, ndr].»


Nella stessa intervista, von Hayek affermava anche:

«La democrazia ha un compito che io chiamo “igienico” per il fatto che assicura che le procedure siano condotte in un modo, appunto, idraulico-sanitario. Non è un fine in sé. Si tratta di una norma procedurale il cui scopo è quello di promuovere la libertà. [Ovvero il processo democratico deve funzionare solo come uno sciacquone che “scarica” decisioni prese altrove, ovvero dal mercato, assicurandone la sua libertà, ndr] Ma [il processo democratico, ndr] non può assolutamente essere messo allo stesso livello della libertà. La libertà necessita di democrazia, ma preferirei temporaneamente sacrificare, ripeto temporaneamente, la democrazia, prima di dover stare senza libertà, anche se temporaneamente. [Il mercato è “libero” se al popolo viene fatto credere di influire politicamente, ma, se al popolo venisse in mente di autodeterminarsi veramente, allora è meglio una dittatura, ndr]»


Questa intervista è stata fatta al tempo di Pinochet.

Non stupiamoci quindi se vi è una qualche mancanza di democrazia in UE: i suoi padri hanno voluto un processo federativo proprio per neutralizzarla.

Per capire fino in fondo l’elitismo classista con cui è stata data ai natali la UE, è utile citare il conte Coudenhove-Kalergi, a cui dobbiamo – tra le tante cose – anche l’Inno alla Gioia di Beethoven come inno dell’Unione Europea.


Secondo il conte, giusto per capire anche il ruolo dell’emigrazione in UE, sarebbe stato necessario rendere omogenea etnicamente tutta l’Europa, passo necessario per abbattere le frontiere di tutto il mondo: «L’uomo del futuro sarà un bastardo. Le razze di oggi e le classi spariranno a causa della scomparsa di spazio, tempo e pregiudizi [e frontiere, ndt]. […] La razza eurasiatica – negroide del futuro, simile nel suo aspetto esteriore a quello degli antichi Egizi, sostituirà la diversità dei popoli con una diversità di individui» (Praktischer Idealismus, 1925, p. 22.)


Prima nota: l’antirazzismo che contraddistingue chi vuole l’immigrazione deregolamentata si radica in realtà in una concezione assolutamente razzista delle relazioni umane.


Seconda nota: l’individualismo a cui aspira l’aristocratico è proprio un caposaldo neoliberale caro oltremodo ad Hayek. In pratica afferma che il compito della UE è di distruggere i popoli europei annientandone l’identità tramite le migrazioni. Le uniche identità che rimarranno alla fine di questo processo saranno individuali, ovvero sradicate e atomizzate; quindi anche le stesse classi sociali verranno a sparire… a parte quella dell’aristocrazia finanziaria.


Direi che ci sono altri migliori natali da celebrare…

Buon Natale.


Per approfondimentihttps://orizzonte48.blogspot.com/2014/02/una-dittatura-puo-limitare-se-stessala.html

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https://orizzonte48.blogspot.com/2014/05/la-grande-societa-pan-europeismo-per-la.html

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(Fonte: https://www.progettoeurexit.it/neoliberismo-ed-elitismo-i-genitori-1-e-2-della-ue/)


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