Mother!

Mother!

Albert Drills

Oggi per la nostra consueta rubrica parliamo dell'ultimo lavoro di uno dei registi che preferisco nel panorama moderno, parliamo di Mother!

Un film del 2017 scritto e diretto dallo statunitense Darren Aronofsky (regista di film come Il teorema del delirio, The fountain, Requiem for a Dream, The Wrestler, Il cigno nero).

I primi film di Aronofsky erano produzioni a basso budget e utilizzavano montaggi estremamente serrati di inquadrature molto brevi. Mentre mediamente un film di 100 minuti ha 600-700 tagli, Requiem for a Dream ad esempio si caratterizza per averne più di 2.000. Altra caratteristica dello stile registico di Aronofsky è lo split-screen che viene ampiamente utilizzato insieme a primi piani molto stretti. Spesso nei suoi film alterna primi piani estremizzati a riprese a grandi distanze per creare un senso di isolamento. Con The Fountain - L'albero della vita, Aronofsky, pur facendone ampio uso, ha cercato di limitare l'uso di immagini generate al computer, utilizzate principalmente al fine di rendere alla perfezione il senso di immenso e di infinito che pervade buona parte delle immagini proposte all'interno della pellicola, così come ha usato una regia più sottile in The Wrestler e Il cigno nero, meno viscerale al fine di mettere in mostra la recitazione e la narrazione.

Dopo il film "Noah", del 2014, Aronofsky iniziò a lavorare a un film per bambini. Durante la realizzazione di questo progetto (poi abbandonato) gli vennero altre idee e finì con scrivere la sceneggiatura di Mother! in solo cinque giorni. Il budget del film è stato di 30 milioni di dollari, e le riprese si sono svolte a Montréal nell'estate 2016. Durante le riprese di una scena particolarmente intensa, Jennifer Lawrence ha avuto una crisi di panico e andando in iperventilazione è svenuta disclocandosi una costola. Questo è il primo film del regista in cui la colonna sonora non è composta da Clint Mansell.

Il film è stato proiettato in concorso alla 74ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. La pellicola è stata distribuita nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 15 settembre 2017, mentre in quelle italiane dal 28 settembre seguente.

“Mother!” è un’opera controversa, nata dalla mente geniale di un regista sovversivo, il cui obiettivo è sempre stato quello di creare una forma di anticinema. L’opera di Aronofsky, pur generandosi e traendo nutrizione nell’universo cinematografico americano mosso da logiche di mercato, non tiene conto delle esigenze del pubblico. Il regista punta sempre alla soddisfazione della propria poetica e dei propri intenti, e produce ancora una volta, come dimostrato in passato, una pellicola sconcertante capace di originare molteplici sensazioni negative nello spettatore. Mother! è un’opera completamente disinteressata a seguire i binari narrativi tipici del linguaggio cinematografico moderno, è un lavoro iconoclasta ed ermetico che se inizialmente sembra prendere la direzione dell’horror (lungo la proiezione il pensiero vola spesso a Rosemary’s Baby), si rivela poi essere qualcosa molto più vicino alla sensibilità de L’Angelo Sterminatore di Buñuel. Un racconto simbolico inadatto a un grande pubblico anestetizzato dai cinecomic. E sia chiaro, ciò non vuol dire che Mother! non sappia essere anche spettacolare.

Anche i film più imprevedibili, a un certo punto, giungono a una qualche sorta di spiegazione che giustifica quanto avviene sullo schermo; ma non è questo il caso di Mother!. La storia, dopo una brevissima introduzione tanto misteriosa quanto evocativa, prende le mosse dalla vita di coppia di Jennifer Lawrence, angelo del focolare con problemi di ansia, e Javier Bardem, poeta in piena crisi creativa. I due stanno ristrutturando la casa del protagonista, in passato quasi distrutta da un incendio, quando degli sconosciuti (la straordinariamente carismatica coppia Harris-Pfeiffer) si presentano alla porta, ricevendo l’ospitalità di Bardem. Da lì la pellicola prende una straordinaria deriva onirica, in cui gli eventi si susseguono in modo sempre più erratico e irragionevole sullo schermo – proprio come accadrebbe in un incubo – e la Lawrence, smarrita davanti all’impossibilità di capire ciò che le succede intorno e impotente nella sua incapacità di influenzare gli eventi, sprofonda progressivamente nel più terribile dei sogni.

Quando, dopo averlo visto al cinema, si sono accese le luci in sala e mi sono avviato verso l’uscita, notai un gruppetto di persone inchiodate alle poltrone. Erano una ragazza e, presumibilmente, i suoi genitori. I genitori avevano gli occhi strabuzzati e l’aria incredula. La ragazza, visibilmente imbarazzata, si è girata verso la madre e ha detto “non lo sapevo”.

Ecco, QUESTE sono le immagini che andrebbero inserite nel trailer di un film. Mica le ragazzine che si cagano addosso per i jump scares: una coppia di genitori sconvolti, e la figlia che si scusa con loro per averli trascinati li. Una figlia che probabilmente li ha convinti dicendo “è un thriller di un regista autoriale, è stato al Festival di Venezia, c’è la famosissima attrice Jennifer Lawrence e l’affascinante Javier Bardem, sarà una cosa intrigante alla Hitchcock/Polanski, vi divertirete”, e invece…

Io per esempio, prima della visione, su questo film sapevo solo un paio di cose: contrariamente a quanto veniva sostenuto da tanti critici da tastiera, NON ERA un remake di Rosemary’s Baby.

Anzi, non c’entrava proprio niente. Ed era stato fischiato fortissimo a Venezia.

Eccola un’idea per il trailer perfetto: genitori traumatizzati, e il pubblico del Festival di Venezia che fischia. Non servono altre immagini. Ditemi solo in che cinema lo fanno, e io ci vado al volo, anche se sul poster c’è scritto “lovely sweet movie”.

Il problema è questo: Aronofsky è Aronofsky, e a questo turno stava particolarmente male. Già dalla prima invasione di casa è chiarissimo cosa gli viene bene: mettere a disagio, dare fastidio, farti mettere nei panni di Jennifer Lawrence non staccandole quasi mai la cinepresa di dosso e poi pizzicarla di piccoli dettagli fuori posto, di comportamenti ambigui, di atteggiamenti sempre più invadenti e presuntuosi, lavorando di effetti sonori e coreografie curati al dettaglio, e creando una situazione di ansia claustrofobica da incubo. E che non è niente in confronto all’escalation finale.

Madre! è lo spettacolo di un regista che si sfoga e molla tutti i freni, di un’attrice che si fida e lo segue ciecamente in una missione potenzialmente suicida, e di una delle più grosse e storiche case di distribuzione al mondo che per una volta nella vita chiude gli occhi, si tappa il naso e lascia che tutto vada come l’uomo con le sciarpette oscene ha deciso che debba andare. Erano anni che chiedevate un simile coraggio: eccolo qua.

E sì, c’è stato un momento in cui anch’io stavo per rinunciare. Non è il momento di cui quasi tutti parlano: è molto prima. È quando il film sembra piantarsi nella metafora più superficiale dell’Universo, quella che da una parte sembra voler dipingere la frustrazione di una donna costretta a convivere con un artista famoso una cui parte della vita sarà sempre condivisa con i suoi tormenti di ispirazione e soprattutto i suoi fans, e contemporaneamente però paragonare l’artista a Dio attraverso citazioni religiose che mancano solo i riferimenti al versetto in sovraimpressione giusto per essere sicuri.

Come tutte le allegorie, questa storia raccontata per simboli si presta certamente a più di una lettura, e lo stesso Aronofsky, sollecitato a riguardo, ha assecondato chi leggeva nella figura della Madre un paragone con la Madre Terra – d’altronde l’ecologismo del regista è cosa nota – o chi rimandava a chiari parallelismi biblici, pur rifiutandosi di dare un senso ad altri dettagli. Un po’ a sorpresa, e diversamente da altri registi, Aronofsky non ha avuto problemi a discutere della sua idea, dichiarando apertamente che si tratta proprio di un’interpretazione diretta della Bibbia:

“Ci sono elementi completamente biblici che alcune persone hanno colto immediatamente, altre non ne hanno avuto idea, e penso dipenda esclusivamente dal modo in cui siano state educate. La struttura per il film è stata la Bibbia, utilizzandola come un modo per discutere di come gli esseri umani hanno vissuto qui sulla Terra. Ma doveva essere anche ambigua, perché non è una storia, è qualcosa di più strutturale. Molte persone non stanno guardando il quadro completo, ci sono molte piccole cose su come le cose si collegano tra di loro, e penso che sia parte del divertimento di eviscerare il film. Ho iniziato con le tematiche, l’allegoria; ho voluto raccontare la storia di Madre Natura dal suo punto di vista. Mi sono anche reso conto che renderla una persona che si occupa della sua casa e che si occupa del suo uomo creava un legame, che c’era una connessione. Quindi, questo è il tema da cui sono partito, ho scritto la storia, che è diventata una storia molto umana su questa coppia che viene invasa da queste orde. E poi mentre giri un film ritorni sempre a quei temi originari e inizi a capire: ‘Bene, come posso esprimere questa cosa visivamente e acusticamente con tutti i diversi strumenti che ho a disposizione come regista?’ Quindi è qualcosa di circolare più o meno.”

Anche la Lawrence ha spiegato direttamente le allegorie bibliche del film:

“Rappresenta la violenza e il tormento della Madre Terra. Non è per tutti. È un film duro da guardare. Ma è importante per la gente capisca l’allegoria che abbiamo inteso. Che sappiano che io rappresento la Madre Terra e che Javier, il poeta, rappresenta una forma di Dio, un creatore; Michelle Pfeiffer è una Eva per l’Adamo di Ed Harris, ci sono Caino e Abele e l’ambientazione a volte richiama il Giardino dell’Eden.”

La realtà però è che l’intera storia raccontata nel film assume un significato preciso e inequivocabile quando si legge tra le righe quel che il cineasta dichiara solo dopo anni dall’uscita del film, e cioè che può anche essere una profondissima riflessione per immagini sul rapporto tra un artista, la sua identità e il suo pubblico.

Una volta identificato offre una chiave di lettura palese per ogni sfumatura dell’opera. Il poeta protagonista del film è chiaramente una proiezione del regista, un ‘io’ (come rivendica Bardem in una scena) che si trova diviso tra la sua identità più privata (la propria storia personale, rappresentata dalla casa), l’ispirazione artistica (l’amorevole compagna) e la seduzione esercitata da un pubblico adulatorio ma anche irrispettoso e rissoso (gli ‘ospiti’) e dall’industria cinematografica (il personaggio di Kristen Wiig), sirene che alimentano l’egocentrismo dell’autore ma che al contempo sono destinate a ‘fagocitare’ e snaturare l’opera d’arte (il figlio). Un percorso verso il successo il cui risultato è quello di allontanare l’artista dalla propria creatività, almeno fino a un punto di non ritorno in cui l’unica soluzione è fare terra bruciata e riscoprire la propria vocazione di autore. Che è proprio quello che, con forza dirompente, Aronofsky dimostra di voler fare con Mother!.

L’autore statunitense realizza un’opera selvaggiamente creativa ma inaccessibile addirittura a parte della critica (figuriamoci poi al pubblico).

Mother! propone un’idea di film-making completamente svincolata dalle logiche commerciali e autoreferenziale come solo la vera arte sa essere, un cinema al quale non siamo più abituati ormai da decenni e che ora ci coglie tutti esposti, impreparati.

Report Page