Blonde

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Recensione di Paola Casella

giovedì 8 settembre 2022

Chi era Marilyn Monroe? Quanto di Norma Jeane Baker, nome di battesimo della bambina destinata a diventare una diva planetaria, è sopravvissuto alla macchina dei sogni, oltre che ad una serie di terribili traumi personali? È la domanda che si pone Andrew Dominik, regista e sceneggiatore di Blonde, che è basato sul romanzo omonimo di Joyce Carol Oates, sempre definito dalla sua autrice come fiction invece che biografia. Anche Dominik crea un racconto di (semi)invenzione che non nomina nessuno dei coprotagonisti della storia di Marilyn, come gli ex mariti Joe DiMaggio e Arthur Miller o il presunto amante John F. Kennedy. Per contro la diva ha un vero nome e cognome, anzi due: quello con cui è nata, e quello con cui ha dato luce alla nuova sé, facendone un'icona mondiale.

Al centro di Blonde c'è dunque la dicotomia fra personaggio pubblico e persona, vero e proprio sdoppiamento identitario creato per nascondere a se stessa il proprio passato travagliato e agli altri, soprattutto Holllywood, ciò che volevano: l'immagine di una femmina ideale, morbida come la gelatina, arrendevole come un'amante innamorata, costantemente sorridente, irresistibilmente sensuale.

Questo purtroppo è anche il problema di Blonde: l'idea di incentrare la narrazione sul tema del doppio si trasforma in una sorta di partito preso, reiterando simbologie e sottolineature (vedi il triangolo fra Norma e i gemelli Charles Chaplin Jr ed Edward G. Robinson Jr, o la volontà della protagonista di trovare "l'anima gemella").
Andrew Dominik ha fatto dello scollamento fra immagine e persona e del complicato rapporto fra i mass media e gli oggetti della loro vampiresca attenzione la sua cifra autoriale, basti pensare a L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford o al successivo Cogan - Killing Them Softly. E la sua prodezza registica è indiscutibile, soprattutto nel restituire immagini patinate che si ribellano alla propria perfezione e nel creare ambienti che diventano trappole mortali, siano essi praterie del Far West o corridoi di dimore di lusso.
Ma questa chiave di lettura era già stata molto ben esplorata in passato a proposito della Monroe, ad esempio nello straziante documentario Love, Marilyn, e qui fatica a reggere un film di due ore e 40 minuti che ribadisce il tema allo sfinimento, dall'infanzia alla morte prematura.
E troppa cura estetizzante non fa bene ad una storia che aveva bisogno invece di scelte narrative più dirette e originali, dato che di Marilyn si è già detto (e visto) quasi tutto. Invece di un formato cinematografico variabile e di un'alternanza fra bianco e nero e colore Dominik avrebbe potuto concentrarsi sul mistero essenziale di una figura femminile che ha saputo rendersi icona, pur partendo da condizioni svantaggiose.
Ed ecco il secondo problema: in Blonde Marilyn è sempre e solo una vittima, mai consapevole, mai capace (come invece era) di fare anche leva sulla propria immagine pubblica, mai arrabbiata (a parte le sceneggiate finali) per il poco rispetto che l'industria cinematografica riservava alla sua intelligenza. E quindi anche Blonde in qualche modo non le rende giustizia, perché le toglie quella complessità che ha fatto di lei una magnifica attrice, malgrado il tentativo hollywoodiano di appiattirla come oca sexy.

Ciò che invece giova molto a Blonde è l'interpretazione impavida e generosa di Ana de Armas, che si butta in un magnifico corpo a corpo con Marilyn riproducendone molto bene la vulnerabilità (anche se la voce canora manca di quel vibrato che tradiva la fragilità di Norma Jeane). De Armas ha il wattaggio della diva e (da straniera) utilizza la sua esperienza di corpo (!) parzialmente estraneo al mondo del cinema americano, regalando alla sua Marilyn la capacità di entrare e uscire dalla sua iconografia ufficiale rimanendo carne e anima reali.
Per contro Bobby Cannavale è chiamato ad incarnare la più trita macchietta dell'italoamericano machista e violento, con tanto di canottiera a vista, nel ruolo di "Joe DiMaggio" e Adrien Brody è un "Arthur Miller" odiosamente radical chic. Per non parlare del protagonista di uno dei due momenti cringe di Blonde, ovvero un grottesco pompino presidenziale. L'altro momento cringe appartiene ad un feto parlante e giudicante: una scelta davvero discutibile, soprattutto di questi tempi.

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